da: Publico.es
Come ho scritto in un articolo recente, ci sono state sempre due visioni di cos’è la Spagna. Una è quella dominante, che ha avuto il suo apogeo durante la dittatura franchista, ma è continuata durante tutto il periodo democratico post-dittatoriale come conseguenza del grande dominio delle forze conservatrici sull’apparato statale e sulla maggior parte dei media durante la transizione dalla dittatura alla democrazia, processo erroneamente considerato come un modello. Questa visione è mononazionale: presenta la Spagna come l’unica nazione esistente nella penisola iberica a parte il Portogallo, e si riflette in uno stato monarchico accentrato sulla capitale del regno, Madrid (che ha ben poco a che vedere con la Madrid popolare), da cui irradiano tutte le altre regioni. Questa visione si riflette chiaramente nel sistema di trasporti radiale, che ha la capitale come punto di partenza e arrivo di tutti i mezzi di trasporto. Questa visione della Spagna è stata storicamente propria delle destre; ha subito ovviamente cambi importanti, che hanno diluito in parte il suo centralismo, ma esso ha mantenuto le sue principali caratteristiche: negli apparati dello stato continua a regnare la cultura ereditata dall’anteriore regime dittatoriale, incluso il suo mononazionalismo.
L’altra visione è quella plurinazionale, che ritiene che in Spagna ci siano varie nazioni con diverse lingue e culture, le quali devono associarsi volontariamente e non a forza, e le cui sovranità possono combinarsi, se così lo desiderano. Questa visione si radica nella cultura repubblicana, promossa storicamente dalle sinistre; essa ha raggiunto la sua massima espressione durante la II Repubblica, interrotta da un golpe militare aiutato da truppe del regime nazista tedesco e fascista italiano, promosso dalle destre, e realizzato da un esercito che si è definito “nazionale”, nella sua autoproclamata volontà di difendere l’unità di Spagna – un’unità che, tra l’altro, nessuno stava mettendo in dubbio. L’allora presidente della Generalitat de Catalunya, Lluís Companys, non chiedeva la divisione, bensì la riorganizzazione della Spagna. Il presidente Companys non era un secessionista: si definiva spagnolo, e voleva contribuire a definire una nuova Spagna. Era molto popolare, non solo in Catalogna ma anche nel resto della Spagna: prova di questo è il fatto che quando fu liberato dalla prigione di Cadice fu acclamato dalla popolazione delle diverse città che attraversava tornando a Barcellona. Questa visione plurinazionale fu brutalmente repressa durante la dittatura (il presidente Companys fu fucilato), poiché fu vista come anti-spagnola. Durante la resistenza antifascista essa faceva anche parte dei programmi di tutti i partiti di sinistra, sia catalani che spagnoli: tutti questi partiti sostenevano il diritto all’autodeterminazione (quello che oggi si chiama “diritto di decidere”), garantendo così un’unione volontaria e non forzata dei diversi popoli e nazioni della Spagna.
Durante il periodo democratico il Re impone la visione mononazionale
Ma durante la transizione questa visione è stata abbandonata, poiché il monarca e l’esercito misero il loro veto. Le sinistre catalane non abbandonarono mai questo impegno; nel 2005 il governo catalano del tripartito, diretto dal socialista Pasqual Maragall, propose uno Statuto che definiva la Catalogna come nazione all’interno dello stato spagnolo. Questo Statuto fu votato e approvato dal Parlament catalano e dalle Cortes spagnole (anche se con tagli sostanziali), e la popolazione catalana lo approvò con un referendum. Ma esso fu bloccato dalle destre spagnole e dal PP, che controllavano (e controllano ancora) il Tribunale Costituzionale. Come segnala Javier Pérez Royo, stimato professore di diritto costituzionale, questo fu un “colpo di stato” […] di un tribunale controllato dalle destre eredi del franchismo, contro la cosiddetta sovranità popolare. […] Javier Pérez Royo fa notare che è proprio da qui che nasce la ribellione che conduce al 1 ottobre. A essa hanno contribuito anche l’enorme passività e il silenzio assordante del partito socialista e della grande maggioranza degli intelletuali spagnoli. Questa ribellione si è radicalizzata, man mano che il governo di Rajoy – la massima espressione e strumento dei vincitori della Guerra Civile e delle forze che hanno dominato la transizione – ignorava, censurava e disprezzava tutte le proposte dei successivi governi della Generalitat per ridefinire la relazione con lo stato spagnolo. Insomma: che succedesse quello che sta succedendo era inevitabile. I partiti indipendentisti, principalmente due, alleati nella coalizione “Junts pel Sí”, fino a poco tempo fa non erano indipendentisti: gran parte di essi (CDC e ERC) erano federalisti, ma sono diventati indipendentisti, prevedibilmente, quando non hanno visto nessuna possibilità di cambio all’interno dello stato attuale delle cose.
Le radici franchiste delle destre spagnole (chiamate anche centro o centrodestra)
La crisi attuale della Spagna si deve alla sopravvivenza della cultura franchista all’interno degli apparati dello stato. Bisogna ricordare che il Partido Popular è stato fondato nel 1977 con il nome di Alianza Popular, come alleanza delle associazioni politiche dell’ultradestra franchista. […] Oggi ritroviamo la stretta relazione tra il partito e quel regime, leggendo la biografia di molti dei suoi dirigenti. Un esempio: Rafael Hernando, attuale portavoce al Congresso dei diputati, sin dagli anni Ottanta è membro di Alianza Popular, e secondo diversi giornali ha simpatie per il partito di ultradestra Fuerza Nueva.
Naturalmente il PP è una specie di ombrello che ricopre diverse sensibilità, da quella fascista (il che spiega che in Spagna non ci sia un partito di ultradestra di massa) a quella democristiana e liberale; ma la sua cultura egemone è chiaramente franchista, e il suo nazionalismo mononazionale estremo è erede di quello della dittatura. Questa visione, sia nella sua forma estrema che in quella moderata, domina gli intellettuali spagnoli, e ha la sua base nella capitale del Regno. A essa contribuiscono i principali giornali del paese, tra cui El País, che fu fondato da alcuni personaggi della dittatura che si consideravano riformatori, come Fraga Iribarne, che scelse Juan Luis Cebrián come direttore. Juan Luis Cebrián era stato direttore dei telegiornali della Radio Televisión Española nel 1974, il maggior strumento di propaganda del regime dittatoriale. Naturalmente El País si è aperto, permettendo una certa pluralità di opinioni nelle sue pagine, da cui sono state escluse, con alcune eccezioni, le sinistre e tutti coloro che mettevano in dubbio la visione mononazionale dello stato; il giornale è diventato il massimo difensore della monarchia e dello stato stesso. La sua risposta alla crisi attuale è stato un attacco furibondo alle nuove sinistre e ai partiti indipendentisti (l’ultimo esempio è l’articolo di uno dei suoi intellettuali, il signor Santos Juliá, che attribuisce in modo molto prevedibile tutto ciò che avviene in Catalogna alla CUP, un partito independentista che alle elezioni del 2015 ha preso solo l’8%).
Ma l’establishment mononazionale, erede del franchismo, basa tutto il suo argomentare in difesa della visione mononazionale (che giustifica la repressione in Catalogna) sul rispetto della legge e della Costituzione, in gran misura elaborate in un tempo di grandi disuguaglianze dominato dalle destre: la transizione, che erroneamente si continua a considerare un modello. Ma anche se si dovesse accettare l’idea che la legge riflette la sovranità popolare (su cui ci sarebbe da discutere), il governo di Rajoy ha infranto le leggi spagnole continuamente, essendo uno dei partiti politici più corrotti della Spagna. E ancora: se dovessimo accettare l’idea che la legge è il risultato della sovranità popolare (e non è così), la sua applicazione è tuttavia sempre influenzata dagli interessi economici, finanziari, religiosi, partitici e di classe che esercitano un enorme dominio sull’apparato giudiziario. […]
L’incapacità di comprendere cosa succede in Catalogna (e in Spagna)
Un’altra caratteristica del pensiero mononazionale tipico del regime del ‘78 è la sua incapacità di capire cosa accada in Catalogna, attribuendo il movimento di ribellione in difesa dell’identità e della nazione catalana alla propaganda e capacità di mobilitazione dei partiti al governo della Generalitat – prima Convergència i Unió (alleanza tra un partito liberale e uno democristiano), ora il partito Convergència con ERC [indipendentisti di sinistra]. Questa interpretazione però dimentica che il primo partito, Convergència, è caduto in discredito quando si è resa nota la grande corruzione dei suoi dirigenti, che avevano usato la Generalitat come se fosse la loro proprietà […]. L’altro partito della coalizione, Unió Democràtica, è sparito.
Si dimentica o si nasconde anche che lo Statuto della Catalogna nel 2005 fu proposto dalle sinistre (il tripartito diretto da Pasqual Maragall [che includeva socialisti e ex comunisti, Ndt]). Si ignora anche che le mobilitazioni iniziali erano in difesa di quello Statuto; la loro radicalizzazione posteriore si deve all’insensibilità democratica e alla mancanza di rispetto della plurinazionalità da parte dello stato centrale. È sorprendente che la maggioranza di articoli sulla crisi pubblicati, per esempio, da El País, sono critici con Junts Pel Sí, ma molto poco con il governo di Rajoy. […]
Ultima osservazione: l’errore di alcune voci di sinistra
Una posizione piuttosto comune in grandi settori delle sinistre spagnole considera questi dibattiti e tensioni come risultato del protagonismo dei nazionalismi nella vita politica del paese, che starebbero nascondendo l’enorme crisi sociale. Questa percezione, a cui in molte occasioni ho fatto riferimento, ha molto di vero. Descrive una parte importante della situazione attuale, ed è necessario sottolineare che quest’argomentazione è necessaria. Ma un’argomentazione può essere necessaria ma non sufficiente, visto che lo stesso stato mononazionale che perseguita e proibisce il plurinazionalismo in Spagna è anche (e l’ho documentato ampiamente) lo stato responsabile della crisi sociale attuale. Questa è una realtà ovvia: il tema sociale è intimamente legato al tema nazionale. Per questo, storicamente, le sinistre, non solo catalane ma spagnole, hanno incluso nei loro progetti di governo il sostegno a uno stato repubblicano plurinazionale. Bisogna recuperare la validità del progetto repubblicano sociale e plurinazionale. Mi rende felice vedere che questo già sta avvenendo: in Catalogna, nelle mobilitazioni, si vedono sempre più bandiere repubblicane. E la stessa cosa sta avvenendo nel resto del territorio spagnolo.
C’è una crescente consapevolezza in Catalogna che per ottenere un cambiamento sociale e nazionale bisogna favorire e difendere la ristrutturazione dello stato spagnolo, per il bene della Spagna e per il bene della Catalogna. Le nuove sinistre stanno mettendo di dubbio il mononazionalismo spagnolo. La loro iniziativa di invitare tutte le forze democratiche a lavorare in modo collaborativo per trasformare la Spagna, Catalogna inclusa, è di grandissima importanza.
Naturalmente le destre postfranchiste accusano queste nuove sinistre di sostegno all’indipendentismo. È un messaggio che appare costantemente nell’establishment mononazionale spagnolo, arrivando a livelli grotteschi nella sua promozione internazionale. Nientemeno che il direttore dell’ufficio di Madrid dello European Council of Foreign Relations ha scritto qualche giorno fa un articolo che accusava il movimento catalano contro lo stato centrale di essere razzista (sì, avete letto bene, razzista), dicendo che considera inferiori gli spagnoli, e accusando Podemos di essere pro-indipendentismo e di usare tattiche insurrezionali (l’autore si chiama Francisco de Borja Lasheras, e l’articolo è apparso su Social Europe). Ciò che è più triste è che alcuni settori delle sinistre stanno contribuendo a questa campagna. Ma chiunque conosca la realtà, passata e presente, di questo paese, può vedere che l’unico modo per mantenere oggi la Spagna unita è proprio chiedendo un’alleanza di tutte le forze democratiche in opposizione all’establishment ereditato dal franchismo. La strada che oggi difendono il re e Rajoy porterà alla frattura della Spagna. (vicenç navarro, professore di scienze politiche e sociali all’università pompeu fabra di barcellona / traduzione di stefano portelli)
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