Disse il ricchiono, svegliatosi a mattino:
«E mò che faccio così come sono?
M’ hanno legalizzato, che mi resta?
Sono nurmale. Non c’è più prutesta,
e non abballo più sul carrettino,
vestito a struzzo, o da Yoko Ono,
da Wanda Osiris… odor di gelsumino…
Co’ culo ‘a fora, oppure con il pesce.
Bacio con lengua. Ballo con le mesce.
Posso spusare! Metto su famiglia:
scetato ambressa vado a faticare,
ritorno a casa come una pultiglia,
e nun tengo più niente a cui pensare…
Nè rivendicazioni, nè ubiettivo,
nè trasgressivo, nè più femmeniello.
Manco se mi legassi ad un canciello
putrei apparire come un suvversivo.
Tengo marito, nulla più da fare.
‘Na volta c’era sfizio nel divierso,
adesso vedo solo un grande mare
senza manco ‘na varca, sono pierso.
Ora mi picerebbemi sentire
qualcuno che mi allucca “Si ricchiono!”,
ma questa cosa non si può più dire:
nè più ricchiono, nè mai più cosa sono.
Come quando la femmina le piglia
e si realizza nella sua natura,
così il ricchiono se non è sfuttuto
non ha più casa nella sfugatura.
Sarebbe valso poco, anche un minuto:
quando che abbalavamo nella mesca,
un uomo gruosso, sprucido e ‘ncuzzuto
di fronte a noi con aria tosta e fresca
ed un cartiello con su scritto “Recchia”.
Avremmo ritruvato il nostro senso
oltre il buonismo, senza la cupierchia,
fuori dal demucratico dissenso
di ‘sta umulugazione che è già viecchia.
“Ricchiono”, sulo questo, nun vi basta?
… Adesso siamo i negri della festa.
Di fatti, è un negro che c’ha fatto ‘a posta:
il presidento Ubama senza testa».
(nicola vicidomini)