C’è una forza sociale trasversale in Campania che non si è mai sopita durante venticinque anni di confronto con l’innesto politico-criminale di contaminazione e affari. E ora sta crescendo di nuovo. Immediati, arrivano i tentativi istituzionali di arginare, includere, normalizzare quei gruppi di cittadini che dalle province si oppongono ai piani di capitalizzazione dei rifiuti industriali e urbani. Il richiamo all’ordine rispolvera gli strumenti già adoperati contro le lotte passate. Non appena le mobilitazioni raggiungono una partecipazione che disturba l’ordinario e le verità si fanno insostenibili, ecco che media nazionali e dichiarazioni di funzionari suggeriscono che i comitati sono allarmisti, inesperti, irrazionali, implicati con la camorra, e ultimamente anche “sciacalli”. Oppure li si loda con la bonarietà di chi apprezza lo sforzo di denuncia (vedi Caldoro), predisponendo, nella stessa frase, il passaggio della questione in mani più esperte. È una strategia semplice ed efficace, che prepara il terreno all’imposizione di poteri e leggi speciali, già adoperata con successo ad Acerra nel 2004, a Pianura e Chiaiano nel 2008, a Terzigno e Boscoreale nel 2010, e lungo tutto l’arco dell’emergenza rifiuti ufficiale. Fa leva, tra le altre cose, su un deposito di stereotipi meridionali che è parte integrante dell’incultura italiana, codificato sin dalla “scienza coloniale” di fine ottocento e attivato alla bisogna. Antonello Petrillo e Francesco Festa lo hanno descritto nei dettagli, mostrando la genealogia delle retoriche delegittimanti sugli attivisti campani dispiegate ogni volta che dalla “crisi” rifiuti prende le mosse il “divenire comunità” di un popolo fino a quel momento sparso e atomizzato. Il lavoro degli attivisti punta a rompere settori, schemi, piani, regolamenti, accordi e oliati meccanismi che fanno della Campania la terra dove entrano rifiuti per tutti ed escono profitti per pochi. Un lavoro trasformativo che potrebbe, come già avvenuto, diventare la base per ulteriori richieste di auto-governo, di processi decisionali inclusivi e di controllo popolare dello sviluppo territoriale. Per questo, destituire le capacità organizzative e d’analisi dei movimenti serve a riportare quelle tendenze dal basso dentro l’alveo della gestione demografica e amministrativa, con le leve decisionali e le determinazioni dei fatti ben salde nelle mani dei pubblici poteri. E ora che la partecipazione e l’attenzione stanno montando di nuovo, le vecchie armi retoriche vengono affilate.
Che esista un’impennata di tumori e malattie respiratorie in terra campana non è in discussione. Ci sono decine di studi che hanno evidenziato le percentuali in aumento per mortalità e cancro in Campania, commissionati dal governo, dall’istituto superiore della sanità, pubblicati su riviste scientifiche internazionali. Nei risultati di tali ricerche l’ipotesi di una sovrapposizione delle aree dove ci si ammala di più con le zone dove insistono discariche legali e illegali è sostenuta da evidenze empiriche e statistiche. Gli stessi comitati hanno raccolto una documentazione imponente sui casi individuali e sulle storie personali di malattia, scandagliando gli archivi delle ASL locali e pagando costose analisi a proprie spese. Ma governo e tribunale invocano il feticcio del nesso causale: un collegamento tra precisi inquinanti e specifiche patologie arduo da determinare. È una questione di complessità degli ambienti urbani, di “multi-fattorialità degli agenti esogeni” nel linguaggio dei ricercatori, ma anche di volontà di ricerca. Il nesso è dimostrabile cercandolo: attraverso il biomonitoraggio individuale e il registro tumori, per esempio, come sostiene da tempo Antonio Marfella. Invece, si vuole propagandare che i campani si ammalano di più a causa dei loro dei stili di vita, più che per i rifiuti tossici intombati. Lo diceva Donato Greco nel 2008, consulente del commissariato ed epidemiologo di fama, lo ripete in questi giorni l’endocrinologa Annamaria Colao, lo hanno affermato i ministri della salute Balduzzi e Lorenzin poco tempo fa. Non solo. Abbiamo anche dovuto leggere da pseudo giornalisti che i campani hanno i rifiuti poiché non si sono opposti quando potevano alla trasformazione dei terreni in sversatoi selvaggi, anzi, ci hanno mangiato pure loro. Anche questo un vecchio metodo. Così opera il meccanismo delegittimante. Colpevolizza la condotta individuale, redime quella istituzionale, mescolando i piani e utilizzando dispositivi discorsivi razzisti. Cancellate le denunce dei cittadini sin dagli anni Ottanta, le omissioni e complicità dei commissari ai rifiuti, l’inerzia governativa nell’arginare e riparare. Il problema si semplifica e risolve con una spiegazione culturale a portata di mano, la storia viene cancellata. I corpi si ammalano e i rifiuti arrivano perché si sa come sono i campani. E allora si può continuare a fare finta, come negli ultimi venticinque anni, che nulla stia accadendo nelle relazioni tra contaminanti, ambiente e salute delle popolazioni. Oppure, si può imbastire un commissariato ad hoc che amministri risorse pubbliche scavalcando controlli e procedure formali, e che distribuisca cariche, consulenze e appalti per il prossimo sacco legalizzato in nome di un’emergenza.
Ragionandoci, poi, è la questione stessa che non ha fondamento. Se sappiamo che determinati composti chimici attaccano le cellule umane, e che tali composti sono stati trovati in precise porzioni del territorio, non ci dovrebbe essere alcuna necessità di fare la diagnosi alla conta dei morti di tumore. Si chiama prevenzione primaria: nella certezza della pericolosità di una fonte inquinante la si elimina indipendentemente dai nessi causali diretti. Poiché sappiamo che ha degli impatti negativi non servono ulteriori verifiche. Ma in Campania i governi regionali e nazionali succedutisi finora, e il governo attuale, hanno eluso il problema, o meglio, non l’hanno posto affatto. Nelle migliaia di pagine delle deposizioni dei pentiti sono indicati i luoghi esatti degli sversamenti. Sono informazioni che da un decennio vengono ignorate, alcune coperte da segreto di stato. Perché solo ora si inizia a scavare e si tirano dalla terra nera bidoni contorti (recentemente a Caivano, Casal di Principe e ad Acerra)?
Si scava per la pressione popolare che da circa un anno e mezzo il coordinamento comitato fuochi ha rivitalizzato e che ora ha raggiunto la massa critica. Migliaia di persone in strada nei comuni della terra che non ci sta a essere dei fuochi o dei veleni hanno imposto attenzione. Il parroco don Maurizio ha fatto confluire le tante energie e conoscenze già presenti con la sofferenza dei campani sotto assedio. L’emergenza, quella vera, non è mai finita e le realtà consolidate di Napoli, Chiaiano, Acerra e del casertano erano già pronte quando dalla chiesa del Parco Verde di Caivano si è alzato un nuovo appello a mobilitarsi. È solo grazie ai comitati popolari, alla marea di denunce e segnalazioni, che il governo centrale ha preso seriamente la piaga dei roghi di rifiuti destinando risorse ai comuni. Solo dopo che i movimenti hanno raggiunto visibilità nazionale ci si è accorti che l’agricoltura locale sta morendo per l’incertezza su portata e localizzazione dell’inquinamento, e forse ora si farà un censimento sullo stato di salute dei terreni. I comitati hanno sostituito gli organi governativi. Ancora una volta. Di più, hanno inceppato il meccanismo che li delegittima e sono diventati autonomi, più esperti degli addetti, con i proprio organi di informazione e con una serie di proposte per riforme e azioni a tutti i livelli che attendono solo di essere applicate. Ora vengono blanditi e attaccati, ma non permetteranno di far dirottare il disastro per costruire un inceneritore a Giugliano, o di trasformare i lavori di bonifica in un nuovo affare. La terra deve tornare sotto il controllo popolare, l’agricoltura deve essere salvata. Da Marcianise ad Acerra non è più solo una lotta contro i rifiuti: è una lotta per i beni comuni, per togliere spazio all’estrazione di profitti dall’ecosistema e realizzare un modello di sviluppo popolare ed egalitario. La riappropriazione è appena (ri)cominciata, e questa volta siamo più preparati. (salvatore de rosa)