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11 Gennaio 2018

Tra rifiuto dell’immagine e seduzione della parola. Il ritorno a Napoli di Romeo Castellucci

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(disegno di canemorto)
(disegno di canemorto)

Romeo Castellucci con la Socìetas Raffaello Sanzio – la compagnia teatrale che ha fondato nel 1981 con Chiara Guidi e sua sorella Claudia – è tornato a Napoli dopo molti anni, presentando per “Quartieri di vita”, al Museo Diocesano di Donnaregina Vecchia (dal 20 al 22 dicembre), The minister’s black veil, un lavoro tratto da Il velo nero del pastore (1836) di Nathaniel Hawthorne, che ha debuttato lo scorso anno ad Anversa. In scena, con il volto coperto da un crespo nero, un solo attore, Willem Dafoe.

Il racconto dello scrittore americano narra la storia del reverendo Hooper, un pastore protestante punto di riferimento di una piccola comunità del New England, che non comprende la sua improvvisa decisione di non mostrare in pubblico il suo volto. Neanche la futura sposa accetta questa strana decisione, soprattutto quando il gesto viene da lui ripetuto anche nel privato; e quando gliene chiede il significato, Hooper risponde che quel velo è un emblema, e che lui ha deciso di indossarlo per sempre, sino alla morte, alla luce e al buio, nella solitudine e davanti allo sguardo dei suoi amici più cari. Tuttavia, dopo la iniziale disapprovazione, il gesto suscita un crescente interesse da parte dei fedeli, che desiderano capire cosa davvero si celi dietro quella scelta così dolorosa. Questo, in sintesi, il plot da cui prende l’abbrivio la trasposizione drammaturgica di Claudia Castellucci, che riscrive totalmente il testo secondo un procedimento sottrattivo che tende a illuminare la parte più allusiva del racconto: l’illusionismo della Società dello Spettacolo, l’immagine come specchio deformante della realtà che ci allontana dalla verità. Tema in fondo non estraneo alla poetica della Socìetas e di Romeo Castellucci, su cui è aperto da tempo un dibattito filosofico-politico tra i più sensibili intellettuali europei. È indubbio infatti che siamo immersi in un mondo in cui l’immagine è tutto e non riusciamo più a distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione, in un’ossessiva autorappresentazione che all’essere preferisce la forma vuota dell’apparire. E allora quel velo può trasformarsi in atto simbolico, che consente di ricondurci al senso ultimo del nostro vissuto. La riscrittura della Castellucci e la stessa regia di suo fratello Romeo ci spingono poi a scoprire, secondo la lezione di Lévinas, il volto come “epifania” e “rivelazione dell’altro”. Il velo, infatti, già in Hawthorne è metafora di un segreto, di una colpa inespressa; più verosimilmente dell’Altro “dimenticato”.

La performance di Defoe inizia in un’atmosfera di grande spiritualità, con il canto dei salmi accompagnato da un organo – le musiche sono di Scott Gibbons – che si diffonde nella sala come un’eco lontana. Il pastore si avvia deciso verso il pulpito posto al centro dell’abside con il volto per metà coperto; e inizia il suo sermone leggendo in inglese (al pubblico è stato però dato una specie di messale con la traduzione in italiano che consente agevolmente di seguirlo) i passi in cui si ricorda San Paolo e la sua volontà di vedere oltre l’illusione, di là dell’immagine riflessa: nel buio, oltre la luce accecante del giorno. “I suoi occhi sono diventati ciechi, secondo i parametri della vista, ma egli vede enormemente di più. Egli vede la verità”. E ancora: “I suoi occhi sono ricoperti di squame… eppure Paolo è dentro la verità. Lo specchio si è rotto”.

Romeo Castellucci non è nuovo a interrogarsi sullo smarrimento esistenziale dell’uomo e sul suo rapporto con il Sacro in questo difficile passaggio d’epoca; spettacoli notevoli per invenzione drammaturgica e visiva suscitarono, tra l’altro, scandalo in molti ambienti conservatori europei. Solo che questo tema ci sembra sia stato in genere da lui sempre indagato attraverso una decostruzione del linguaggio teatrale incentrata sul rapporto tra suono, corpo e immagine: una visione che – come in Artaud – con i suoi segni arcaici (e inconsci) evocava il ritorno a una perduta infanzia del mondo. In questo monologo invece il recupero della parola e il rifiuto dell’immagine costituiscono l’elemento fondante della messinscena. Il volto di Defoe non si vede, e non si vedrà nemmeno alla fine, quando la sua voce si interrompe, alza al cielo le mani – da cui lascia cadere una chiave – e si allontana verso l’entrata della chiesa.

Nella scelta di cancellare in modo così radicale l’immagine, non si può sfuggire alla sensazione di un ripensamento critico da parte dell’artista regista, soprattutto se si pensi alla diffidenza riguardo la parola che egli aveva manifestato in altre recenti occasioni (“È dura da accettare ma la parola non serve a comunicare”). Questo suo nuovo, tormentato lavoro in fondo lascia perplessi, proprio perché sembra non tenere conto del potere altrettanto seduttivo (e politico) della parola. Un potere che, come abbiamo visto in questi anni, dovunque può ipnotizzare, plasmare, “imprigionare”: i fedeli come i sudditi. A confermarlo, del resto, in The Minister’s black veil è la stessa figura autoritaria del reverendo Hooper, che con la sua incrollabile certezza nel Verbo più che avvicinarci all’Altro ci allontana ancor più da quella verità nascosta nel mondo della vita. (antonio grieco)

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