La vicenda dello stadio a Tor di Valle ha esaurito la sua prima fase, quella della gestazione del progetto e della determinazione delle premesse minime perché possa avviarsi la pianificazione e la costruzione dell’opera. Anche solo in questa prima fase, si tratta di una vicenda che ha fatto morti e feriti, per fortuna solo metaforici. I plurimi conflitti aperti, gli scenari prospettati, le strategie degli attori in campo hanno avuto quantomeno il merito di far emergere le parti nascoste di tutti i soggetti coinvolti. Quella che si prospetta è un’enorme colata di cemento su una zona ancora non colonizzata dalla speculazione, che con poco sforzo sarebbe potuta diventare un parco fluviale, unico nel suo genere e dotato di notevoli potenzialità sul piano naturalistico e sul piano economico.
La colata di cemento, tra l’altro, è del tutto priva delle infrastrutture pubbliche capaci di ridimensionare il suo impatto; le risorse allocate per i servizi (per esempio, i trasporti) sono del tutto insufficienti; soprattutto, essa non è autorizzata dal Piano Regolatore del 2008. L’area di Tor di Valle, infatti, essendo soggetta a inondazione del Tevere, verrà resa edificabile solo grazie alla variante urbanistica ottenuta in virtù della presunta “pubblica utilità” del progetto, dichiarata da Marino e confermata dalla Raggi. Non serve forse ricordare che a Roma non è mai stata possibile una vera pianificazione urbanistica, perché deroghe, condoni, varianti e altri inganni hanno sempre permesso ai costruttori e ai proprietari terrieri di arricchirsi a piacimento, impedendo una crescita urbana organica e orientata all’interesse comune. Che in questo momento l’interesse comune dei romani sia un nuovo stadio risulta quantomeno dubbio; così come la pubblica utilità dell’opera, in una città dove tutti i servizi fondamentali, dalle scuole alla raccolta dei rifiuti, sono assolutamente carenti.
A qualche giorno dall’accordo tra la giunta Raggi e Pallotta manca ancora la documentazione per valutare il patto punto per punto, a dispetto della trasparenza tante volte annunciata. Sul piano politico però è già possibile fare una conta dei vincitori e dei vinti che si sono fronteggiati negli ultimi mesi, a volte in modo reale e a volte in modo fittizio.
L’immobiliarista Parnasi. Sicuramente è da annoverare tra i vincitori. Pur non possedendo né i terreni, né i soldi, né le garanzie necessarie, è stato in grado di ottenere dalla giunta Marino abbastanza fiducia da far autorizzare un’opera non prevista dal Piano Regolatore, e dalla giunta Raggi l’appoggio necessario a realizzarla. Il denaro come sempre è trasversale agli schieramenti politici, soprattutto quando sono coinvolte le banche. Parnasi con quest’operazione intende tra l’altro saldare un grosso debito che ha contratto con Unicredit, e il gruppo finanziario ha naturalmente schierato tutto il suo apparato per rendere possibile questo abuso. Per capire quanto il processo sia stato di lunga durata, basti sapere che nella Legge di Stabilità varata dal governo alla fine del 2013 erano stati inseriti tre commi per semplificare i procedimenti burocratici per la ristrutturazione di piccoli stadi e impianti sportivi. Peccato che il testo della legge apriva anche alla costruzione di nuovi impianti, che sarebbero andati in deroga alla legge sui contratti pubblici; non c’era nessun nuovo stadio in previsione, se non quello che Parnasi aveva intenzione di costruire a Tor di Valle. Ottenuta la deroga, la pubblica utilità, e quindi la variante al Piano, Parnasi ha iniziato a cercare prima i terreni, e poi i soldi.
Altri costruttori romani, soprattutto gli Armellini, hanno vinto la loro partita. O almeno il primo tempo. Questo stadio probabilmente sposterà alcuni equilibri di potere nel mondo dei costruttori romani, unico vero ceto imprenditoriale della città. Non a caso il Messaggero – proprietà di Caltagirone – fa da mesi campagna contro lo stadio. Ad arricchirsi sarà un’altra famiglia di costruttori, quella dei discendenti di Renato Armellini, tra i principali protagonisti del “sacco di Roma” degli anni Cinquanta e Sessanta, quando la corruzione delle amministrazioni democristiane permise a imprenditori senza scrupoli di realizzare progetti immobiliari in palese abuso della legge e del paesaggio. Un esempio per tutti è Nuova Ostia, le decine di palazzine che Armellini costruì per i dipendenti Alitalia, rimaste invendute e affittate nel 1970 dal Comune di Clelio Darida a prezzi pressoché di mercato, per alloggiarvi migliaia di famiglie in emergenza abitativa: il Comune ancora paga gli affitti ai discendenti. La figlia Angiola possiede un migliaio di case nella capitale e la sua colossale evasione fiscale è stata oggetto di diverse inchieste giornalistiche. Pur non essendo tra i principali gruppi immobiliari della capitale, gli Armellini possiedono circa seicentomila metri quadri a Tor di Valle, di cui quattrocentocinquantamila verranno espropriati dal Comune per costruire le opere pubbliche legate allo stadio. Un terreno ora di poco valore, grazie alla variante urbanistica diventa incredibilmente caro. Viene comprato – di questo si tratta, quando si parla di esproprio – con soldi pubblici, per la precisione venticinque milioni di euro.
La Roma e la lobby dei tifosi. Ufficialmente, per la Roma lo stadio è un trionfo. Tutte le priorità urbanistiche della città vengono messe in secondo piano per accontentare la necessità impellente di uno stadio per una delle due squadre della città. La Roma pretende di emulare la costruzione del nuovo stadio della Juventus, ma con una grossa differenza: lo stadio non sarà della Roma. La proprietà è infatti del suo presidente, James Pallotta, che lo affitterà alla squadra a un prezzo molto più alto di quanto ora si paga per l’Olimpico. Nessuna sicurezza che lo stadio rimarrà “della Roma” nel futuro, né alcuna garanzia che gli eventi che vi si celebreranno avranno quella “utilità pubblica” che lo ha reso possibile. Per i tifosi poi raggiungere Tor di Valle non sarà facile: prenderanno il trenino Roma-Lido, che nonostante le dichiarazioni non si può adeguare alla pressione di decine di migliaia di tifosi e si sovrapporranno ai pendolari da e per Ostia che già affollano la linea.
Beppe Grillo e Virginia Raggi. Anche per loro, ufficialmente, lo stadio è una vittoria. Si dimostra che anche il movimento “sa” negoziare, sa dire di sì, sa accordarsi con il resto del mondo. Un vero peccato che il resto del mondo scelto per dimostrare la disponibilità alla realpolitik siano proprio quei “poteri forti” per combattere i quali centinaia di migliaia di romani hanno dato la loro fiducia alla nuova giunta: banche, speculatori finanziari, lobby imprenditoriali, e in generale tutto il sub-mondo che si muove intorno alle grandi opere inutili e dannose. Il M5S era stato molto chiaro sulla TAV in Val di Susa, rappresentando per molti un ultimo baluardo da opporre, dentro le istituzioni, contro la devastazione del territorio, il saccheggio dei beni pubblici, l’espoliazione dell’interesse comune. Virginia Raggi afferma di non poter fermare il progetto, dopo la delibera di pubblica utilità di Marino, temendo probabilmente cause, multe e campagne stampa diffamatorie. Ma la costruzione della TAV si trovava a un punto di avanzamento molto maggiore, quando i rappresentanti del M5S in Piemonte si schierarono decisamente contro. Sarà da vedere come questa concessione ricadrà sulla popolarità del movimento; se, cioè, ne rafforzerà il consenso, rivelando quindi un’affinità del suo elettorato con gli interessi del “partito del cemento” contro cui sembrava schierarsi, oppure contribuirà al suo declino, espellendo i molti che avevano sperato di trovarvi un fronte di lotta per la salvaguardia del territorio.
Poco chiaro se il Partito democratico debba essere annoverato tra i vincitori o tra i vinti. Divisi tra loro, pronti alle scissioni, incastrati in una guerra fratricida, i piddini romani hanno ritrovato una incredibile unità di intenti e di vedute nella prospettiva di sostenere la costruzione del nuovo stadio: di fatto, sia Armellini che Parnasi sono, in diverse forme, legati al partito di governo. D’altronde la giunta Marino aveva deliberato l’interesse pubblico dell’opera e fin dalla campagna elettorale il partito aveva rivendicato la paternità sul progetto originario, quello con tre torri da duecento metri di altezza e tutto l’ambaradan di centri commerciali, uffici e negozi. Appena la giunta Raggi ha mostrato qualche tentennamento nella prosecuzione del progetto, è arrivato il fuoco incrociato dei democratici, che hanno iniziato a battere sul nodo dell’inaffidabilità dei cinque stelle, della loro ostilità preconcetta al business, della loro incapacità di decidere e di essere moderni. Una manna per un partito ormai privo di credibilità in città, pronto ad aggrapparsi a qualunque occasione per ritrovare, di fatto, un posto a tavola. I piddini hanno anche avuto il coraggio di cavalcare la campagna della Roma e dei suoi dirigenti, accodandosi allo sciame di social e di slogan, fino alle conseguenze più ridicole: il sit in Campidoglio del 24 febbraio. Qualche decina di tifosi sotto la pioggia e il giorno dopo la conferenza stampa dell’ex candidato a sindaco Giachetti che impavidamente annuncia ai mass media: mi autodenuncio e rinuncio all’immunità parlamentare. Perché? Perché i partecipanti al sit in verranno denunciati per manifestazione non autorizzata… Il protagonismo e la ritrovata unità del partito si sono sciolti come neve al sole appena la Raggi ha reso pubblico l’accordo con Pallotta: anche i cinque stelle sanno sedersi al tavolo con i palazzinari, e ora che ci inventiamo? A livello di immagine i democratici romani hanno forse perso la partita, ma alla fine lo stadio si farà dove volevano loro, e la lunga mano del partito al governo è chiaramente all’opera, qui come in tutti i grandi progetti speculativi degli ultimi anni.
Decisamente sconfitto è invece l’ex assessore Berdini. La sua nomina aveva rappresentato una boccata d’aria. Finalmente un profilo chiaro, competente nella possibile progettazione di una città libera dagli appetiti della speculazione e capace di riassegnare le giuste priorità al rilancio dei servizi pubblici e alla vivibilità degli immensi quartieri di periferia. Fin dalle prime settimane però è stato chiaro che Berdini stava giocando una partita all’interno degli equilibri della giunta, una partita poco evidente ai non addetti ai lavori e poco interessante per coloro che da lui e dalla giunta si aspettavano scelte concrete, capaci di cambiare le condizioni di vita in città. Prima con distinguo e mezze parole durante le interviste, poi con prese di posizione più evidenti e pubbliche, Berdini ha esplicitato nel corso dei mesi ciò che era piuttosto chiaro: nella giunta era di fatto un separato in casa. Nonostante qualche incertezza iniziale, il baricentro della giunta si muoveva sempre più convintamente verso quel blocco di potere che, in pratica, non ha mai smesso di governare la città, nonostante l’alternanza dei colori al governo. E la scelta di costruire lo stadio a Tor di Valle ha più o meno definitivamente stabilito la sua posizione finale. Nonostante la mole di lavoro svolta dagli uffici dell’assessorato di Berdini per produrre pareri negativi in vista della costruzione dello stadio, la Raggi ha scelto nella direzione opposta. Berdini poteva uscirne con stile, sollevando una questione politica ed evidenziando una contraddizione destinata ad avere effetti forse non secondari nello stesso apparato politico dei cinque stelle. Ne è uscito invece nel modo peggiore, con uno scivolone che ha depotenziato la portata conflittuale del suo operato, facendolo apparire come un tessitore di sospetti e pettegolezzi per la gioia dei media, che hanno potuto finalmente sparare a zero sulla timida anomalia istituzionale che aveva rappresentato.
I comitati cittadini attivi contro la cementificazione anche escono sconfitti. A Roma si muovono e si organizzano tanti gruppi, comitati, movimenti che nei diversi quartieri si oppongono coraggiosamente al dilagare della speculazione edilizia. Hanno matrici culturali a volte divergenti all’interno delle stesse sigle, modalità di azione differenti e soprattutto si impegnano in luoghi diversissimi e lontanissimi tra loro: chi nel centro storico, chi nelle borgate semiperiferiche, chi ai margini e anche molto oltre il Grande raccordo anulare. A loro si devono le azioni legali e politiche che hanno sventato i progetti più dissennati e anche nel caso di Tor di Valle è merito del Comitato Salviamo Tor di Valle se nel dibattito cittadino si sono affacciati temi quali il rischio idrogeologico, il parco fluviale, il nodo dei trasporti sulla direttrice Roma-mare. L’incessante attività dei comitati ha avuto però alcuni limiti nel periodo più recente e questi limiti sono stati pagati a caro prezzo nella battaglia sullo stadio. Il primo limite sta nella difficoltà a uscire dai rispettivi quartieri e dalla mobilitazione virtuale per giungere a sintesi efficaci sul piano dell’azione concreta condivisa. Nonostante tentativi importanti, quali il coordinamento Salviamo il paesaggio, questa difficoltà è emersa particolarmente nella vicenda Tor di Valle. Per esempio, se si eccettuano le molte iniziative del comitato locale, nessuna manifestazione di ampio respiro è stata organizzata sul luogo del delitto, facendolo vivere in modo diverso al di fuori della retorica del degrado e dell’abbandono con cui quel luogo viene raccontato. In secondo luogo, la maggior parte dei comitati ha di fatto scelto una linea di delega verso l’operato di Berdini, anziché una linea di conflittualità incalzante, come quella messa in campo, per esempio, negli stessi mesi dai movimenti di lotta per la casa. In terzo luogo, i comitati hanno sì messo al centro del dibattito cittadino la lotta alla cementificazione ma quasi sempre solo come battaglia ambientalista, e non come battaglia politica capace non solo di comunicare il No alla costruzione di nuovi edifici, ma di rilanciare un modello di città diversa, parlando di lavoro, disoccupazione, trasporti, servizi. La vera sconfitta per i comitati non è nella decisione della Raggi, ma nel consenso diffuso che tale scelta suscita negli strati sociali più impoveriti, ai quali la battaglia contro il cemento arriva troppo spesso solo come iniziativa residuale di qualche intellettuale che non ha il problema di mettere insieme il pranzo con la cena.
La scelta di costruire lo stadio a Tor di Valle invece peggiorerà le condizioni materiali di vita della maggior parte dei romani, proprio rispetto a quei temi su cui ogni giorno tutti sono pronti a lamentarsi: la congestione del traffico, il disordine urbano, le distanze enormi da un lato all’altro della città, l’inefficienza dei servizi pubblici. (andrea aguyar)