La pubblicazione del bando per gli scali Farini e San Cristoforo, ha avviato nei mesi scorsi la grande operazione di trasformazione degli scali ferroviari milanesi (oltre ai citati, Greco, Lambrate, Rogoredo, Porta Romana e Porta Genova). Un passaggio chiave che accelera una vicenda, iniziata molti anni fa, il cui destino sembra essere inevitabile: il più vasto intervento su Milano degli ultimi anni (1.250.000 mq di superficie complessiva interessata, pari a centottanta campi di calcio) e la privatizzazione, di fatto, di aree del demanio pubblico, vendendo i semplici diritti edificatori. Andiamo con ordine e facciamo un passo indietro.
Perché gli scali, perché a Milano
C’erano una volta sette scali, parti strategiche e vitali del sistema ferroviario, commerciale e industriale di Milano. Binari, convogli merci e passeggeri, arrivavano a lambire il centro di una città all’epoca nel pieno boom economico. La collocazione era funzionale ai grandi insediamenti industriali (Face Standard, Breda/Pirelli, Innocenti, Montedison/Redaelli, OM, BrownBoveri, Ansaldo, Richard Ginori solo per citarne alcuni) situati in loro corrispondenza. La deindustrializzazione e il decentramento produttivo portarono al quasi totale abbandono. Spesso separati dal resto della città da muri o barriere che li occultano alla vista, gli scali hanno rappresentato in questi anni dei “vuoti urbani”, spazi sopravvissuti alla voracità edificatoria, ove la natura, fauna e flora, ha avviato fenomeni spontanei di popolamento, rinverdimento e riforestazione di aree e strutture. La separazione, però, li ha resi estranei alla città e all’attenzione dei milanesi, che non li hanno percepiti, almeno in maggioranza, come luoghi da difendere e reinventare, in una dimensione pubblica e non finanziaria della città.
La loro posizione interna al tessuto urbano, la disponibilità di collegamenti agevoli, anche con linee della metropolitana, e l’ampia dimensione su cui poter sviluppare interventi e maturare rendite, hanno reso gli scali oggetto di inevitabili grandi appetiti. Al resto hanno pensato il marketing e la politica, nel segno della migliore “economia della promessa”, puntando su due “fattori di sistema”: il potenziamento delle comunicazioni e una nuova forma di governo del territorio. Gli scali, dopo Porta Nuova, CityLife, Expo, sono l’ennesima cartolina da esporre nella città che da trent’anni si sostiene economicamente a colpi di cemento ed eventi.
L’area metropolitana milanese, nella sua declinazione post-industriale, rappresenta con continuità dalla fine degli anni Ottanta l’unica regione italiana in cui il “mattone” continua a essere attrattivo e remunerativo per i grandi capitali, con protagonisti prima solo operatori italiani e negli ultimi anni numerosi investitori internazionali. Un fenomeno non nuovo per Milano, che si ripete in pratica da secoli: la città che cresce su se stessa, in un continuo rifacimento di aree e strutture, alla perenne ricerca di incremento dei valori immobiliari e delle rendite.
Negli ultimi trent’anni questo circuito è stato alimentato e favorito dalla riforma degli enti locali; la riduzione dei trasferimenti statali ha portato i comuni a finanziarsi sempre più con gli oneri di urbanizzazione, svincolati dall’obbligo di utilizzo per opere e manutenzioni pubbliche, diventati voce decisiva per quadrare i bilanci nonché costante oggetto di ricatto nel rapporto con i costruttori. Non a caso l’attuale assessore all’urbanistica Maran ha esaltato il ruolo che avranno gli scali nel far risalire gli oneri che Milano incasserà a livelli pre-crisi 2008. Inoltre, a inizi anni Novanta, il vento neoliberista avviò il processo di dismissione di aree e proprietà demaniali. Anche le norme urbanistiche furono adeguate in nome della sussidiarietà, con il passaggio dal piano regolatore al piano di governo del territorio, che affida agli accordi di programma il compito di definire la città e sostituisce il concetto di “città pubblica” con quello di interventi e opere d’interesse pubblico. Dentro questo quadro matura e si sviluppa il processo di privatizzazione strisciante degli scali milanesi.
Le crisi finanziarie di metà anni Novanta e il grande crollo del 2007-2008, sembravano aver rotto il circuito virtuoso, anche per la scomparsa, nel frattempo, di un’industria alle spalle ad alimentare e sostenere i circuiti finanziari mobiliari e immobiliari e remunerare gli investimenti. A questo hanno sopperito l’eterna economia della promessa, l’evento eccezionale o la grande opera: i nuovi padiglioni della Fiera al Portello, Malpensa 2000, la vela di Fuksas e Fiera-Rho fino alle grandi trasformazioni di Porta Nuova, a CityLife e a Expo come ciliegina finale. Tutte situazioni, come sarà per gli scali, figlie di una dinamica di accelerazione forzata, sottratta a ogni pianificazione, in deroga a norme e indici di edificabilità, con l’unico fine di garantire un ritorno rapido degli investimenti. La città pubblica viene cancellata, la governance pubblica rinuncia a pianificare e non fissa destinazioni d’uso, la rendita finanziaria scandisce modalità e tempi delle trasformazioni urbane.
Oggi gli scali, al pari del fantasioso e fuorviante progetto Navigli o della candidatura olimpica, costituiscono il motore indispensabile per una nuova dinamica di predazione e accelerazione per i profitti immobiliari, sempre più guidati da società di Real Estate o fondi immobiliari e sovrani che operano a livello globale. Nuovi protagonisti emergono, su tutti COIMA, ormai il principale Real Estate milanese, sopravvissuti alla crisi che ha travolto molti dei noti “palazzinari” nostrani. Render seducenti quanto fasulli, immaginari collettivi creati a colpi di marketing territoriale, uso del brand Milano, partecipazione dichiarata ma praticata solo a uso e consumo di pochi; questi gli ingredienti del cocktail, già visto per Porta Nuova o Expo, con cui viene lanciata la grande operazione di trasformazione, ora dello scalo Farini, domani degli altri scali. Come fa il comune di Milano nel PGT, che identifica gli scali come aree di suolo consumato e che con la trasformazione a parco (al cinquanta per cento) saranno liberate e restituite alla città, quando invece sono già ora spazi vuoti e verdi. Edificandoli, il consumo di suolo in realtà aumenterà.
L’Accordo di programma sugli scali e il bando Farini
Nel 1992 parte l’iter che porta a oggi, con la trasformazione di F.S. in Spa e la separazione tra attività di trasporto e gestione del patrimonio, stazioni, scali, rete. Per valorizzare il patrimonio immobiliare fu creata in seguito F.S. Sistemi Urbani, orientata più a una gestione finanziaria e a far profitti che a preservare la natura demaniale e pubblica delle proprietà.
Dopo l’accordo fatto da Albertini nel 1997, il PGT varato dalla giunta Moratti individuò i sette scali come ambiti per nuove grandi trasformazioni urbane (ATU), concetto recepito poi dall’amministrazione Pisapia e, nel 2017, dalla giunta Sala. Giunge così a compimento la trasformazione delle aree, con la ratifica dell’accordo di programma a luglio 2017 e il varo del primo bando. Il percorso, durato oltre un anno e venduto come processo partecipativo, è stato solo una macchina di marketing, orientata alla costruzione di consenso attorno a poche immagini, elaborate da cinque famosi studi di architettura, per fornire la “vision” sui sette scali. Il risultato: soluzioni improbabili, spesso errate, ma utili ad alimentare la narrazione tossica, senza possibilità di contraddittorio e reale dibattito, dove la fantasia cela l’assenza di ogni carattere sociale, comune, pubblico, popolare negli interventi ipotizzati.
La ratifica dell’accordo di programma, nonostante critiche, mobilitazioni e la voluminosa documentazione contraria prodotta da differenti soggetti, sdogana il meccanismo predatorio. Infatti F.S. Spa, comune di Milano, regione Lombardia e un soggetto privato, Savills Sgr, firmano un accordo vincolante su pezzi di città pubblica, ma solo uno dei firmatari, il privato, trarrà i benefici economici dall’accordo. Questo senza che il comune di Milano si ponesse mai il dubbio di valutare gli scali come aree pubbliche.
Tutto secondo le norme, chiariamo, che consentono però l’ingresso di privati nella partita con gli accordi di programma, sottraendo alla regolazione pubblica ogni trasformazione futura. Privato a cui il ministero dell’economia, attraverso il gioco di società e fondi creati a inizio anni Duemila per alienare beni demaniali, aveva intanto venduto 36.000 mq in via Valtellina interni allo scalo Farini e in uso alla Dogana. Infatti, nel 2016 Immobiliare Sgr ha venduto al fondo Olimpia, controllato da Savills Sgr, che ha sua volta, nel 2018, ha ceduto aree (e i diritti edificatori nel frattempo maturati) alla già citata COIMA. Si giunge così a ottobre 2018, quando COIMA e F.S. Sistemi Urbani (ancora proprietaria al novanta per cento dello scalo Farini) promuovono il bando internazionale che selezioni i realizzatori del “masterplan di trasformazione e rigenerazione urbana” per gli scali Farini e San Cristoforo. In pochi passaggi e senza selezione pubblica COIMA, che intanto sta ristrutturando con le banche creditrici il debito contratto per l’operazione Porta Nuova-Isola, diventa co-regolatore del destino degli scali. Un ulteriore passo verso la gestione privata di aree da oltre un secolo di proprietà demaniale.
Nel merito del bando, COIMA rileverà le parti che possono garantire maggiore redditività, forte delle volumetrie ipertrofiche previste dall’accordo di programma, con indici di edificabilità elevati, e di un piano di governo del territorio di Milano, ora in fase di adozione, che si muove in sintonia con il bando considerando gli scali suolo già urbanizzato. Lo scalo San Cristoforo, meno appetibile per la rendita immobiliare, verrà destinato a parco, a scomputo degli oneri di urbanizzazione (e del verde mancante) dello scalo Farini.
Al bando hanno partecipato formalmente cinquanta concorrenti più uno, il collettivo Offtopic di Milano, laboratorio di riflessione e analisi critica sulla città. L’intento? Scardinare il velo patinato del gioco preconfezionato e proporre il “conflitto” come unico metodo in grado di garantire il diritto alla città, inclusione e non esclusione. Una visione di Milano che va in senso opposto alla tendenza prevalente, una città pubblica da contrapporre alla privatizzazione palese o strisciante di spazi, luoghi, edifici.
E ora?
Siamo convinti che Milano, nonostante la retorica del “rinascimento ambrosiano” e del “brand che tira”, abbia bisogno di forti elementi di rottura, che sottraggano dibattito e partecipazione alla logica delle compensazioni, della moderazione che non mette mai in discussione i “valori” fondamentali (distribuzione diseguale della ricchezza, modello energetico, insufficienti forme di condivisione e d’inclusione nella città). Con la partita degli scali, Milano si gioca gli ultimi residui di città pubblica, forse l’ultima possibilità di modificare aspetto e densificazione urbana. I milanesi, per distrazione, prevalere della delega o rassegnazione, perché anestetizzati da retorica e marketing, non hanno ancora percepito appieno la portata di questa grande trasformazione. Per questo è più che mai necessario provarci e ricostruire insieme, dal basso, attorno agli scali, la Città Pubblica. (offtopic lab)
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