Nella scuola dove ho insegnato quest’anno, a Torino, è comparso un foglio appeso in aula insegnanti, era tenuto su da una puntina. Vi era scritto: “Siete voi dei professori, dei pedagoghi? No, siete dei miserabili funzionari e il vostro tempio del sapere è un commissariato di polizia; del resto, ne ha l’odore”. Poco a destra, in basso, c’era il riferimento della citazione: Čechov, L’uomo nell’astuccio. Nel racconto di Čechov si narra di Bélikov, professore di greco al liceo, che aveva la tendenza di chiudere gli oggetti in involucri protettivi: ombrelli, penne, temperini erano foderati in contenitori chiusi. Bélikov serrava anche se stesso in un guscio: “Era fuori del comune perché, anche quando il tempo era splendido, usciva sempre con le galosce e l’ombrello e immancabilmente con un cappotto pesante imbottito”. Nei consigli di classe il professore Bélikov ossessionava i colleghi “con le sue osservazioni dall’interno dell’astuccio” e chiedeva espulsioni e abbassamento dei voti in condotta per punire il “cattivo comportamento di gioventù”. E sempre il consiglio esaudiva le sue richieste. Un giorno un professore di storia, Kovalénko, si è rivolto con rabbia ai colleghi di Bélikov e la citazione che ho ritrovato sul muro riprende la tirata di Kovalénko sulla scuola che “puzza di acido come la cabina di un poliziotto”. Spesso, nelle mie ore da insegnante, ho riflettuto su questa metafora: la scuola come un commissariato.
Durante l’ultimo anno scolastico ho raccolto articoli di giornale, testimonianze e immagini sugli interventi della polizia nelle scuole dell’area metropolitana.
A novembre, in un istituto in val di Susa, quattro volanti dei carabinieri sono giunte mentre si svolgeva una simulazione antincendio: gli agenti sono entrati nelle classi vuote alla ricerca di sostanze illegali. Al rientro nelle aule gli studenti sono stati trattenuti dai carabinieri senza poter andare in bagno, alcuni, tra questi anche minorenni, sono stati perquisiti.
In città, tra la Dora e la Stura, un collettivo studentesco ha occupato il liceo a febbraio. Al cancello d’ingresso, durante il picchetto della mattina, un agente in borghese ha tenuto per il collo uno studente occupante. Lo studente e altre studentesse coinvolte nell’occupazione sono state punite – su richiesta del dirigente – con la sospensione e il sei in condotta. Il giorno dei consigli di classe straordinari tenuti per formalizzare le sospensioni l’istituto era presidiato da mezzi dei carabinieri, tra cui una camionetta, e da agenti della Digos. Ancora, in una scuola tecnica a nord della città è avvenuto un controllo antidroga: studenti e studentesse sono state costrette a uscire dall’aula, allineate con il volto contro il muro. Così i cani dell’unità cinofila hanno annusato la schiera.
Questi episodi non sono unici, ma sintomi di una straordinaria normalità. Forse nell’attuale società frammentata, attraversata dalle ingiustizie, ed esasperata, la scuola è alveo dove fluiscono i malesseri di giovani in formazione: qui il disciplinamento, il controllo e la sanzione sono gli argini immaginati. Sospetto, come il personaggio di Čechov, che noi insegnanti dimentichiamo il ruolo di pedagoghi per vestire i panni di funzionari addetti all’ordine pubblico, incapaci di mettere in discussione i nostri principali strumenti di ricatto: i voti in condotta, le note, le punizioni e, soprattutto, la valutazione individuale. Così gli interventi di polizia nelle scuole m’appaiono come l’estrema propaggine, o manifestazione più intensa, del nostro lavoro quotidiano.
Un corso di formazione per insegnanti, promosso dall’Ufficio scolastico regionale, ha rafforzato questa sensazione. Il titolo era “Per una didattica di prevenzione di ogni forma di radicalizzazione violenta”, durava più di venti ore ed era tenuto da una cooperativa sociale con sede a Udine. Il fine del corso era di “conoscere il fenomeno della radicalizzazione violenta e sviluppare competenze base per organizzare attività preventive”. Durante i moduli alcuni esperti (psicologhe, una giurista, un accademico orientalista, un esponente dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, un professional coach) hanno spiegato che cosa si intende per radicalizzazione, quali sono le ideologie peculiari che possono condurre all’estremismo violento (dal jihadismo all’anarchismo, al neo-fascismo, fino ai recenti movimenti nati per criticare la gestione della pandemia), come individuare gli studenti a rischio di radicalizzazione e come segnalarli alle autorità competenti. Il corso quest’anno ha coinvolto quaranta docenti interessati al tema e si tiene in Piemonte da almeno cinque anni. Formazioni analoghe sono organizzate in altri territori nazionali, ma la responsabile del corso non ha ritenuto opportuno riferire il numero complessivo delle persone coinvolte.
In presenza di un reato, ci hanno insegnato, devono intervenire le istituzioni dedite al “law enforcement”: le forze dell’ordine, la prefettura, la questura e, in ultima istanza, il dispositivo carcerario. La scuola, invece, è un’istituzione dove può essere applicato un “soft power” utile a individuare i processi di radicalizzazione, definirne l’intensità, arginarli. Un potere dolce, quindi, che scruta le formazioni ideologiche per prevenire il crimine e anticipare il conseguente intervento sanzionatorio. In questo quadro la scuola – insieme alle aziende sanitarie locali, ai servizi sociali e alle attività del terzo settore – è un’istituzione complementare al monopolio della violenza affidato alle forze dell’ordine.
A ogni insegnante è stato fornito un manuale: “Prevenzione dell’estremismo violento. Guida all’osservazione dei processi di radicalizzazione”. Secondo il manuale, la prevenzione alla radicalizzazione, soprattutto in ambito scolastico, consiste in strategie volte a “aumentare la coesione sociale e la resilienza”, favorire il “benessere emotivo e psicologico”, “attenuare il conflitto e le influenze negative della narrativa radicale”. Per “identificare i soggetti a rischio”, sono fornite agli insegnanti delle “Griglie per l’osservazione della Radicalizzazione e dell’Estremismo dei Giovani”. In seguito a un periodo di osservazione un docente dovrebbe rilevare, grazie alle griglie, alcune “vulnerabilità individuali” come: “Manifesta assenza di identificazione positiva con la società o la comunità e ne rifiuta i valori democratici”; “Manifesta odio verso la società occidentale e i suoi simboli”; “Mostra risentimento per motivi economici, sociali e politici”. Nei peculiari “indicatori critici” trovo tra gli altri: “È affetto da una malattia mentale certificata o presunta”; “Fa uso di sostanze stupefacenti”. Nella sezione dedicata invece alla “polarizzazione verso ideologie violente” leggo: “Si isola dal contesto sociale ed esprime sentimenti di rottura con il suo ambiente”; “Giustifica azioni violente in nome di un bene superiore”.
Se il soggetto osservato dai docenti può aderire a ideologie violente, sostiene il manuale, è necessario avviare un “tavolo multi-agenzia”, ovvero un percorso multidisciplinare che coinvolga professionisti del settore socio-educativo e sanitario capaci di affiancare gli insegnanti al fine di elaborare “un piano di intervento individuale”. Può rendersi opportuno, continua il manuale, “integrare il team di progetto con professionalità specifiche (psicologo, psichiatra, islamologo, giurista, analista, esperto linguistico, informatico, ecc.) o con altri attori, pubblici o privati, che detengono informazioni sulla persona”. Un approccio “olistico” è opportuno perché “molti ricercatori e professionisti di altri campi, dalle scienze politiche, alla sociologia, alla psicologia, alla criminologia, alla psichiatria, sono costantemente impegnati nella comprensione dei processi di radicalizzazione”. Qualora dal protocollo di rilevamento non emerga il solo rischio di radicalizzazione, ma si supponga vi sia un “pericolo imminente” di reato, allora il docente è tenuto a segnalare il soggetto alle “Forze di Polizia”. Il manuale porta in prima pagina il marchio della Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (AISI), un’agenzia dei servizi segreti.
Le griglie di osservazione sono ispirate alla tradizione dei protocolli per la “valutazione del rischio di violenza”. Questi strumenti sono adottati innanzitutto in ambito carcerario per “analizzare l’intero spettro delle ideologie violente” tra i detenuti. Anche i percorsi multidisciplinari per contrastare la radicalizzazione sono ispirati ai “programmi sviluppati in ambito carcerario per prevenire la recidiva e favorire il reintegro nella società degli ex-detenuti”. In questo corso per docenti ho intravisto allora il punto di confluenza tra dimensione carceraria e istituzione scolastica, l’incontro tra il potere aspro della detenzione e il potere dolce della scuola. La metafora iniziale – la scuola come commissariato, la scuola come carcere – m’appare ora come ipotesi operativa per descrivere relazioni concrete tra ruoli istituzionali.
I corsi per la prevenzione della radicalizzazione sono il frutto delle politiche promosse dal Radicalisation Awareness Network (RAN), ente creato in seno alla Commissione Europea. Secondo Luca Guglielminetti, portavoce in Italia per RAN, la rete «nasce nel 2011 e la prevenzione della radicalizzazione rientra nell’ambito delle politiche di comunità, nelle politiche di resilienza delle comunità. Quindi è un discorso più ampio rispetto a quello della prevenzione del terrorismo. L’intelligence previene che avvenga l’attentato terroristico, le politiche della RAN intervengono sulla dimensione precrime, quindi sul fatto che le persone assumano un impegno all’interno delle organizzazioni violente». A differenza di altri paesi europei, però, l’Italia «non ha mai attivato questo tipo di politiche, perché c’è stata una proposta di legge in parlamento dal 2016 che non è mai stata approvata». In mancanza di una legge sulla prevenzione della radicalizzazione, è impossibile applicare i protocolli e i tavoli multi-disciplinari su cui sono formati i docenti: «Il problema – precisa Guglielminetti – è che si può andare poco oltre la formazione, perché non c’è una legge e quindi le attività non possono essere inquadrate. Non si può instaurare una modalità multi-agenzia perché ci deve essere qualche attore istituzionale che la porta avanti».
A Torino la giunta Appendino aveva approvato una delibera per istituire un “Tavolo di lavoro multi-agenzia per la prevenzione degli estremismi violenti”. Era il 2020. Un anno dopo le istituzioni presentarono il tavolo in un dibattito pubblico cui parteciparono l’allora assessore alle politiche sociali Marco Giusta, docenti universitari, il magistrato del tribunale per i minori, Andrea Giorgis, allora sottosegretario presso il ministero della giustizia, membri di RAN e “un rappresentante della Digos di Torino”. L’obiettivo del tavolo era quello di estendere al territorio urbano le politiche di prevenzione di ideologie radicali ed estremismi violenti, incentivando la collaborazione tra società civile, accademia e forze dell’ordine. Anche il tavolo torinese, per ora, è inerte: «Siamo senza legge – insiste Guglielminetti – e il tentativo su Torino è di fatto fermo, nonostante abbia buoni rapporti con [l’attuale] assessore sulla sicurezza».
Nelle Linee guida del tavolo torinese leggo: “Anche il Forum Europeo per la Sicurezza Urbana, EFUS, rete europea di 250 enti locali fondata a Barcellona nel 1987 […], e sostenuta dal Consiglio d’Europa, si è dedicata, negli ultimi anni, ad approfondire il ruolo delle città nella prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento”. Di recente EFUS ha collaborato con la Città di Torino per Tonite, progetto di “sicurezza urbana” finanziato con cinque milioni di euro dall’Unione Europea. Tonite ambisce a “migliorare la percezione di sicurezza nelle ore serali” nei quartieri lungo la Dora attraverso azioni culturali, feste di strada, momenti conviviali che consolidino la “coesione sociale” e “l’inclusione” nel quartiere. Tonite volge al termine ormai e nel complesso le attività finanziate sono state velleitarie, insulse, frequentate dalle stesse persone che hanno partecipato al bando: operatori culturali, lavoratrici del terzo settore, solerti abitanti borghesi che credono nella “cittadinanza attiva”. I risultati in strada sono effimeri, eppure Tonite s’espande nel mondo virtuale per legittimare il governo urbano: ogni evento esiste come immagine da diffondere, pubblicità istituzionale corredata dal nome di chi amministra la città. Dietro la patina di simboli, però, si nasconde il rimosso, l’osceno coperto dal silenzio: gli sgomberi, le operazioni di polizia, le sottili violenze operate contro i marginali lungo il fiume.
Ho descritto una formazione per la prevenzione della radicalizzazione nelle scuole, un programma governativo che vorrebbe replicare la medesima agenda in città e un progetto di “sicurezza urbana”. Nei tre casi sono coinvolti gli stessi enti europei e i risultati appaiono effimeri, impossibili da applicare, o velleitari. Noto allora una frizione – difficile da interpretare – tra il violento disciplinamento nel mondo attorno e la mediocrità governativa gonfiata da parole vuote e retoriche: mi sembra una condizione peculiare del nostro tempo. Da una parte la polizia entra nelle scuole con frequenza inquietante, un ministro promette l’inasprimento dei voti in condotta e la società – dentro e fuori la scuola – è governata dall’ossessione dell’ordine e della sicurezza, ispirandosi a modelli carcerari; dall’altra i protocolli, i progetti, le iniziative che ambiscono a coniugare la sicurezza con la “coesione sociale” e la “resilienza” si rivelano vacui, risibili. Forse la violenza disciplinante è così pervasiva perché anche le forze dolci, e sedicenti democratiche, hanno un’immaginazione ostaggio della sicurezza; forse è questa commistione tra violenza repressiva e insulsa banalità a rendere la nostra aria così irrespirabile.
Nel racconto di Čechov il narratore ricorda l’influenza che Bélikov, modesto professore amante del controllo, aveva sul mondo circostante: “Con i suoi sospiri, i lamenti, con i suoi occhiali scuri sul faccino pallido – sapete, un faccino da puzzola – ci schiacciava tutti, e noi cedevamo, abbassavamo a Petróv e a Egórov il voto in condotta, li mettevamo agli arresti e alla fin fine espellevamo sia Petróv sia Egórov. […] Noi, insegnanti, avevamo paura di lui [di Bélikov]. […] Ma guarda un po’, i nostri insegnanti sono certo persone intellettuali, affatto perbene, educate con Turgénev e con Ščedrìn, eppure questo ometto che andava sempre in giro con le galosce e l’ombrello teneva in mano tutto il ginnasio da ben quindici anni! Ma che ginnasio? Tutta la città! […] Sotto l’influsso di persone come Bélikov negli ultimi dieci-quindici anni nella nostra città si è cominciato ad avere paura di tutto”. E continua la discussione tra i personaggi: “Sì. Sono intellettuali, persone perbene, leggono Ščedrìn e Turgénev, i vari Buckle e così via, eppure si sono sottomessi, hanno sopportato… Proprio così”. (francesco migliaccio)