La prima domenica di ottobre i venditori hanno occupato il controviale di corso Novara e l’intera via Regaldi, una cieca strada interna. Davanti ai miei occhi scorrevano i volti africani, i gesti pensierosi degli acquirenti, i salti dei bambini, l’attesa paziente dei rom; sentivo i richiami dei venditori, «tutto a un euro, un euro», voci ruvide sussurravano «no, troppo caro», un uomo con un carretto andava avanti e indietro alla ricerca di un angolo libero, le dispute sul prezzo scaldavano l’aria. Gli oggetti in vendita erano dispersi su stuoie, drappi, tavolini disposti in file ordinate. Eppure il mio sentimento si smarriva in un sistema di categorie in frantumi. Quella mattina ho notato tanti cellulari, un romanzo di Conrad, alcune biciclette, mazzi di menta fresca per fare il tè, una zebra di peluche, una Storia d’Italia di Indro Montanelli, grovigli di carica-batterie, orologi di valore, spezie in barattoloni di plastica, resti recuperati dai cassonetti, una cassa di uva, fumetti pregni di umidità da soffitta, scarpe nuove e scarpe lise, maglioni. L’assembramento di venditori cingeva il perimetro esterno di un immenso piazzale deserto: nessuno vi poteva entrare perché il cancello d’accesso era chiuso con un catenaccio.
Due vigili osservavano interdetti la scena. «Perché l’area del mercato è chiusa?», ho domandato. Da un anno e mezzo il mercato degli oggetti abbandonati si teneva all’interno dell’Ex-Scalo Vanchiglia, il piazzale tra corso Novara, corso Regio Parco e via Regaldi. «I proprietari dell’area non hanno più rinnovato la concessione al comune. L’ultimo bando per la gestione dello spazio scadeva a settembre. Così la cooperativa che amministrava il mercato non si è presentata e l’ingresso resta serrato». Ma i venditori hanno raggiunto l’area all’alba e hanno deciso di svolgere lo stesso la loro attività.
Nel secolo scorso lo Scalo Vanchiglia era il più importante punto di raccolta e smistamento delle merci nel nord della città. Accanto passava la linea ferroviaria della Torino-Milano; tutt’intorno si sviluppava un’area industriale che comprendeva anche le acciaierie Fiat. Oggi la ferrovia passa sotto terra e le industrie sono state abbandonate. Così lo Scalo è diventato un immenso, silenzioso piazzale recintato da muri alti tre metri. Da qui s’intravede il cimitero monumentale e poco più in là scorre la Dora.
Un suono di fisarmonica mescolato a un ritmo dance fluiva da una vecchia cassa e sovrastava i richiami dei venditori. I miei passi erano sospesi tra l’abbandono dolce al brulichio e l’inquietudine del disorientamento. Le istituzioni chiamano questo fenomeno il “mercato del libero scambio”, i giornalisti dicono fulminei: “il suq”. Il mercato degli oggetti ritrovati è un’istituzione della domenica. In passato si teneva in piazza della Repubblica, cuore del quartiere di Porta Palazzo, ma nel 2013 l’amministrazione decise di spostarlo qui perché la situazione era “ingestibile”.
Quella stessa domenica ho preso la bici e ho attraversato il fiume per raggiungere piazza della Repubblica. Di fronte alla tettoia del mercato ortofrutticolo s’innalza la sagoma di un palazzo che appartiene alla Compagnia di San Paolo. Tempo fa la fondazione ha rimesso in sesto l’immobile, ora è un social housing. Al piano terra ospita un ristorante-gastronomia, una sala per proiezioni e conferenze, un’agenzia di viaggi solidali. L’intero abitato è stato battezzato Home Luoghi Comuni. Era una domenica particolare: i gestori dello stabile avevano organizzato una giornata di eventi culturali. La locandina esponeva un disegno dell’edificio accerchiato da onde di colore, a fianco campeggiava la scritta “Porte Aperte a Luoghi Comuni”. Il programma prevedeva il pranzo presso la gastronomia, una “festa delle favole” per i bambini, le “incursioni musicali” di un’orchestra e “l’open day” per l’inaugurazione di una nuova pescheria. Il proprietario rassicurava i clienti: «Sì, saremo anche un ristorante, ma la vendita del pesce sarà sempre il servizio più importante». Era sera ormai, e dalla pescheria si alzava il brusio degli avventori in cappotto.
Sabato è il giorno del Balon, lo storico mercato delle pulci a Borgo Dora. L’associazione ViviBalon gestisce il mercato informale e ha un piccolo ufficio che dà sulla via delle bancarelle. Dario, il presidente di ViviBalon, mi ha squadrato con diffidenza. «Tu che vieni a fare domande, non sarai mica un anarchico?». L’associazione dirigeva anche il mercato domenicale di Porta Palazzo. Quando il comune pubblicò il bando per l’Ex-Scalo Vanchiglia, ViviBalon perse l’appalto. L’offerta migliore fu di una cooperativa che possiede un ristorante, una gelateria e una panetteria nel centro di Torino. Nel frattempo un collaboratore ha rassicurato Dario: «Ma non vedi che ha il maglione colorato? Garantito, non è anarchico». Mi sono seduto al fianco di Dario. «Lo spostamento del mercato da piazza della Repubblica all’Ex-Scalo – ho chiesto – non era forse connesso ai progetti di riqualificazione finanziati da Compagnia di San Paolo?». Dario ha scosso la testa: «Vedi che sei anarchico? Devi liberarti dai preconcetti. Ma dove vivi? È giusto riqualificare, ed è normale che i più ricchi investano in questi quartieri. A Porta Palazzo non riuscivamo più a controllare la situazione. Era uno schifo. Al mercato abbiamo sempre accolto tutti: rom, marocchini, italiani. Con dieci euro ognuno aveva i suoi tre metri per cinque. Ma la piazza era troppo grande, le forze dell’ordine erano assenti: arrivavano tanti abusivi, s’infiltrava la schiuma. Per questo abbiamo abbandonato. Devi capire che la mattina bisogna girare tra i banchi e alzare la voce quando qualcuno riempie le bancarelle di refurtiva. Noi dobbiamo assicurare che certi limiti non siano superati. Anche i mercati vanno riqualificati». Da novembre gli scambi della domenica saranno spostati ancora più a nord. «Gestiremo il mercato nuovo, questa volta abbiamo vinto l’appalto. E faremo rispettare le regole».
Sono uscito dall’ufficio per passeggiare tra le bancarelle di Borgo Dora. Due ragazzi di via Alessandria, lo squat del nord di Torino, mi hanno allungato un volantino. Riguardava la chiusura del piazzale all’Ex Scalo Vanchiglia. Una frase in grassetto dominava sulle altre: “Il Comune ha dimostrato di non avere niente da offrire a chi sopravvive anche grazie a quel mercato; il suo obiettivo è solo riuscire ad arginare un fenomeno che dà fastidio e possibilmente farlo lontano dalle belle e ricche vie del centro». Il testo era tradotto in francese e in arabo. Sono tornato indietro, ho fermato i ragazzi per parlare con loro. Erano reticenti, forse volevano capire meglio chi fossi. Negli anni gli occupanti di Via Alessandria hanno organizzato i picchetti per resistere agli sfratti e hanno indetto presidi di quartiere contro la speculazione immobiliare. Un anno fa la polizia ha forzato le porte dello squat arrestando diciassette persone. In tono diffidente abbiamo scambiato poche parole, poi si sono allontanati. Da una stretta via è apparso Ahmed, il mio amico sudanese che abita in una palazzina occupata dell’Ex-Moi, all’estremo sud di Torino. Ahmed, come tanti, tiene un banchetto il sabato a Borgo Dora e la domenica all’Ex-Scalo. «Ehi! Come stai? Hanno chiuso la piazza, hai visto? Noi domani proviamo ad arrivare presto, prima della polizia e ci mettiamo sulla strada ancora».
La seconda domenica di ottobre sono tornato al vecchio scalo merci. Su corso Novara c’erano tre camionette della polizia e due mezzi dei carabinieri a presidiare il controviale. Le stuoie e le bancarelle erano disseminate dall’altra parte del corso, lungo via Perugia. Come la domenica precedente tutto mi è parso ordinato e ben organizzato. «All’inizio la polizia non voleva lasciarci fare il mercato, poi hanno visto quanti eravamo. E ci siamo messi da questa parte», mi ha detto Ahmed. In via Perugia non ci sono residenze, ma un’autofficina, numerosi uffici e una fabbrica chiusa per fallimento. Alcuni “abitanti” del quartiere hanno improvvisato un assembramento di protesta contro il suq: erano in buona parte consiglieri e funzionari di Lega e Fratelli d’Italia. Ho camminato ancora una volta fra gli uomini e le donne del mercato, un’amica mi accompagnava e ha consigliato di sentire “che aria tira nel bar”. Ho raccolto le voci che circolavano fra il tintinnare delle tazzine e i dialoghi in arabo. «Posso dire quello che penso? Questi venditori sono “mercatari” e fanno casino come tutti, è la normalità. Secondo me alcuni non sopportano questo fenomeno perché qui si concentrano la comunità marocchina e i rom». Ho chiesto perché non abbiano rinnovato la concessione dell’Ex-Scalo. «Lì vogliono costruire un centro commerciale con bar, negozi e un ipermercato. Si dice che sarà un Esselunga». Altri sussurrano che è stata la Coop ad aggiudicarsi l’area. «E non è tutto. Desiderano collegare via Regaldi a via Bologna, così da rendere questa zona più accessibile al traffico. Sai, costruiranno degli alberghi lungo la nuova strada. Sono tutti progetti che appartengono alla Variante 200».
La Variante 200 è il nuovo piano di trasformazione urbana. Riguarda l’area settentrionale della città, circa novecentomila metri quadrati. Le autorità si auspicano la realizzazione della nuova linea della metro, la costruzione di agglomerati residenziali di valore e la nascita di aree dedicate ai servizi e al consumo. Il piano è basato su un modello di sviluppo “bottom-up” – dal basso verso l’alto – grazie al quale gli investitori privati godranno di ampia libertà di decisione e di intervento. Per attirare i capitali le istituzioni pubbliche rinunciano al diritto di controllare l’espansione urbanistica.
Qui al nord vedo forme di esistenza vaganti, una carovana di venditori costretti al nomadismo. Seguo i loro spostamenti forzati per immaginare le spinte dinamiche della speculazione e intuire le parvenze evocate dai sogni di riqualificazione. Esiste forse un legame sottile tra le migrazioni urbane dei venditori, gli ordini impartiti alle forze dell’ordine, i presidi degli italiani amareggiati, i cantieri in via di apertura, le delibere per la costruzione di un nuovo centro commerciale, la mescita dei drink durante le inaugurazioni dei locali. «Solo cinquanta euro, si vede dalla luna che è ottone!», una voce aspra ha interrotto i miei pensieri. Nella frescura domenicale alcuni ragazzi trasportavano un tino di legno con un torchio, vecchio arnese per fare il vino. Un rom trattava il prezzo di un disco di musica popolare, Naroda Jugoslavije. E intorno un canto di preghiera in arabo incontrava la voce di una Madonna che usciva gracchiante da una radio. (francesco migliaccio)
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