Non capita tutti i giorni di imbattersi in un film, un libro, un disco, che si riveli in tutto e per tutto l’opposto di ciò che vorrebbe essere o per cui prova a propagandarsi. Song’e Napule, ultimo film dei Manetti Bros, ambientato sotto il Vesuvio e al cinema in questi giorni, fa parte a pieno titolo di questa schiera. La pellicola ha pochi ma chiari riferimenti. Il primo, più immediato, è l’omaggio al film di genere poliziottesco, che negli anni Settanta aveva messo in scena a Napoli, e ancor più a Milano e Roma, avvincenti storie di malavita e polizia. Tantissimi cosiddetti B-movie, diventati fonte di ispirazione per alcuni tra i più grandi registi della fine del secolo scorso. Il secondo è una raffigurazione diversa della città, lontana dalle fosche tinte delle storie alla Gomorra, mentre il terzo è la riabilitazione della musica cosiddetta neomelodica, in particolar modo rispetto agli ambigui rapporti di cantanti e impresari con il mondo della criminalità organizzata.
Per portare a termine questo progetto, tuttavia, i fratelli Manetti attingono a piene mani all’infinita serie di luoghi comuni sulla città e la sua musica, dando vita a un irrefrenabile effetto boomerang che smantella praticamente da solo il film. Un film che, per inciso, del genere a cui intende ispirarsi ha davvero poco. A dirla tutta, anzi, la pellicola ha qualcosa da invidiare persino ad alcune rappresentazioni (televisive e popolari) che si sono viste negli ultimi anni, a cominciare dalla nota serie tv La Squadra, che riproponeva i caratteri e l’atmosfera del genere di cui sopra, contestualizzandoli negli anni Duemila.
Il vero punto debole, in ogni caso, è la raffigurazione sommaria del mondo della musica popolare napoletana, non diversa da quella di decine di servizi pseudo-giornalistici che riducono a macchiette tanto chi questa musica la fa quanto chi la ascolta: dai cantanti che definiscono “scarabocchi” le note e gli spartiti musicali, fino all’impresario disonesto che fa tutto a nero e le cui banconote vengono benedette dalla vistosa statua di San Gennaro sulla sua scrivania. Anche le due o tre canzoni cantate da Lollo Love, protagonista del film, e scritte nientedimeno che dagli Avion Travel, si articolano attraverso accordi e soprattutto rime facili, grottesche per la loro banalità, che scavano nel peggio, ignorando senza scrupolo testi e tematiche che pure rientrano nella vasta produzione di questo genere: dal carcere, alla droga, fino ai rapporti familiari e sociali degli strati più popolari della città e persino alla convivenza, nei quartieri più poveri, con i “nuovi napoletani”, dall’accento uguale ma dal colore della pelle diverso.
Song’ e Napule propone invece una oleografia mandata ormai a memoria, che rispecchia la mancanza di curiosità e in generale il disprezzo che la classe media cittadina nutre nei confronti delle classi popolari. Una raffigurazione che strizza l’occhio al pubblico in sala, che infatti se ne compiace, ricordando le scene di delirio della zantraglia (che è anche il nome di uno dei ristoranti in cui vengono fatti mangiare i personaggi) al cospetto del cantante famoso, o al matrimonio di quella cugina di terzo grado o di quella collega di lavoro. Un terreno fertile che ha prodotto negli anni sgradevoli caratterizzazioni, come i siti internet su “la sfaccimma della gente” o i videomaker che deridono le adolescenti in shatush e combattono a colpi di presunta ironia la figura del parcheggiatore abusivo, nemico numero uno nonché principale piaga della bella Napoli.
In un contesto così, tutta la città viene raffigurata in maniera non savianesca, ma addirittura peggiore. Un’immagine da cartolina stampata male, una puntata di Un posto al sole lunga due ore, in equilibrio tra l’indignazione e il divertimento per il non poter andare in bicicletta tranquillamente o aspettare il semaforo rosso senza ascoltare decine di clacson alle proprie spalle; per i circoli in cui c’è un biliardo e un videopoker e (nonostante fuori piova) i ragazzi giocano senza maglietta sfoggiando i propri numerosi tatuaggi; per la atavica incapacità da parte dei napoletani di fare la raccolta differenziata (in una città che, andrebbe aggiunto, invece di aumentare i bidoni per la stessa, li diminuisce ogni giorno che passa). Poco importa, a quel punto, se alla fine della storia i camorristi si ammazzano da soli, se il giovane poliziotto-pianista scopre il fascino dell’anima e del cuore popolare partenopeo, se si coronano le storie di amicizia e di amore interclassista tra i protagonisti. Ormai è tardi per porre rimedio, e il finale appare solo come l’autoassoluzione della città piccolo borghese, che paternalisticamente concede almeno l’onore delle armi (l’estraneità alla camorra) a quella inerme e volgare massa di trogloditi con cui è costretta quotidianamente a convivere. (riccardo rosa)
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