Il Tribunale Supremo dello stato spagnolo ha pubblicato oggi la sentenza per i dodici dirigenti politici considerati responsabili di aver organizzato il referendum per l’autodeterminazione della Catalogna il 1° ottobre del 2017, e le massicce manifestazioni che lo hanno preceduto e seguito sin dal precedente mese di settembre. In questo momento decine di migliaia di persone stanno lasciando i loro posti di lavoro, le loro abitazioni e le università di tutta la Catalogna, per riversarsi nelle strade e nelle piazze, per bloccare il traffico, per battere le pentole di fronte alle sedi del potere giudiziario.
La sentenza è chiaramente una vendetta dello stato spagnolo contro un tentativo molto ben riuscito e innovativo di canalizzare in una forma non violenta ma incisiva la volontà di oltre due milioni di persone di cambiare l’ordine politico di un territorio. Quello che è in gioco (da sempre, ma ora in modo ancora più evidente) non è l’indipendenza della Catalogna, tantomeno il tentativo di creare un nuovo stato. Le proteste riguardano la possibilità di decidere dal basso, il rispetto della volontà popolare, il diritto all’autodeterminazione, la pratica del dissenso politico e dell’organizzazione collettiva, la libertà di espressione e di protesta. La sentenza non colpisce solo la democrazia, come spesso invocato, ma qualcosa di più ampio: la stessa giustizia.
Il Tribunale non ha osato dichiarare gli imputati colpevoli di ribellione, un delitto che richiede l’uso di violenza; ma ha comunque comminato pene per un totale di quasi cento anni di carcere. Per giustificare questa condanna, chiaramente politica, la sentenza si arrampica sugli specchi, affermando allo stesso tempo che i delitti contestati riguardano atti di disobbedienza civile non violenta, ma che la disobbedienza è in sé sediziosa e in qualche modo violenta. Il Tribunale dichiara infatti che è sedizione “anche quando gli agenti devono tentennare e desistere dal portare a termine l’ordine giudiziario di cui sono portatori di fronte all’evidente atteggiamento di ribellione e opposizione alla sua esecuzione da parte di un agglomerato di persone in chiara superiorità numerica”. Quando molte persone si uniscono manifestando un atteggiamento di non collaborazione con le forze dell’ordine, si tratta di sedizione.
È importante notare che gli anni di carcere a cui sono stati condannati i dodici detenuti, in prigione preventiva da quasi due anni, pur essendo meno di quelli richiesti dall’accusa, sono sproporzionati rispetto ai delitti contestati a ognuno di loro. Non solo: sono anche molto minori di quelli che trent’anni fa hanno subito dei veri colpevoli di sedizione, i golpisti del 23 febbraio 1981, quando il colonnello Tejero entrò nel parlamento spagnolo armato insieme a centocinquanta agenti della Guardia Civil, trattenendo i parlamentari in ostaggio per ventidue ore, mentre altre divisioni dello stesso corpo militare occupavano le strade con i carri armati.
La maggior parte dei responsabili del colpo di stato hanno avuto due o tre anni di carcere. Per l’organizzazione del referendum del 1° ottobre, invece, Oriol Junqueras, il presidente di Esquerra Repúblicana de Catalunya e vicepresidente del parlamento, ha avuto tredici anni, la presidentessa del parlamento Carme Forcadell dieci anni e mezzo, i ministri Jordi Turull, Raúl Romeva, Dolors Bassa, Joaquim Forn e Josep Rull dodici anni i primi tre, dieci e mezzo gli ultimi due, mentre Jordi Cuixart e Jordi Sánchez, rappresentanti della società civile – presidenti delle due associazioni Òmnium e Assamblea Nacional Catalana – nove anni di carcere ognuno.
Mentre plaça Catalunya inizia a riempirsi di gente, sia spontaneamente che in risposta alla chiamata per uno “tsunami democratico”, e le autostrade vengono bloccate da grosse manifestazioni, il presidente del governo socialista Pedro Sánchez annuncia che «si apre una nuova fase per la creazione di un paese moderno». Pablo Iglesias di Podemos dichiara tiepidamente che bisogna rispettare la legge e creare ponti per il dialogo. Le pene sono minori di quelle richieste inizialmente, ma creano un precedente pericolosissimo per tutto l’attivismo politico di base. Se fosse applicata la stessa logica giudiziaria, gran parte dei rappresentanti della sinistra istituzionale ora al governo, tra cui la stessa sindaca di Barcellona, Ada Colau, sarebbero in carcere. Invocare il rispetto della legge, in questo frangente, non fa altro che giustificare la repressione autoritaria del diritto al dissenso.
Tutt’altro tono infatti usano i Comitati di difesa della Repubblica, di recente colpiti dagli arresti arbitrari di sette militanti, annunciando una mobilitazione permanente che durerà fino alla liberazione dei prigionieri. “Non serve più appellarci alle leggi, alle sentenze e alla repressione – dice il comunicato – . È l’ora del potere popolare; solo la nostra autorganizzazione potrà guidare la proposta. Facciamoci forti nelle strade, nelle piazze, nelle assemblee, dappertutto. Obblighiamo i responsabili politici a farlo, perché noi disobbediremo e non permetteremo nessun passo indietro delle nostre istituzioni”.
Se l’obiettivo del Tribunale Supremo era quello di far crescere un movimento unitario e deciso per la rottura con lo stato spagnolo e per la creazione di una repubblica catalana, questa sentenza ha veramente colto nel segno. (stefano portelli)
AGGIORNAMENTO – Dal pomeriggio, migliaia di manifestanti si sono concentrati all’aeroporto del Prat, a venti chilometri da Barcellona, per bloccare i voli e cercare di suscitare una reazione internazionale. La polizia nazionale e i Mossos d’Esquadra hanno caricato la folla, sia fuori dall’aeroporto che alla fermata della metropolitana: dieci persone sono rimaste ferite. Altri tre feriti si sono registrati in altre parti della Catalogna. Questo sembra essere solo l’inizio di un nuovo ciclo di proteste.
Ulteriori aggiornamenti a questo link.
Leave a Reply