Lungo le mura del palazzo i manifesti che denunciano la comparsa delle ennesime “mani sulla città” sono stati tutti strappati. «Stiamo parlando di un palazzo al Vomero occupato da persone in emergenza abitativa, ma questa volta non c’entrano i rapporti altalenanti col vicinato. Le ragioni in questo caso sono un po’ più complesse…», mi spiega E., mentre entro nell’appartamento al piano terra che condivide con il suo compagno. Siamo al Cross, edificio in salita Arenella 60, occupato nel 2014 da circa quaranta persone: famiglie in stato di disagio economico, ragazze madri, lavoratori precari o comunque sottopagati, attivisti della lotta per la casa della campagna Magnammece ‘o pesone. In effetti, come suggerisce E., la storia del palazzo, almeno quella degli ultimi dieci anni, è abbastanza ingarbugliata.
Dagli anni Sessanta fino a metà dei Duemila, dove oggi sorge il Cross non c’era nulla, se non un rudere del Settecento, che a quanto raccontano gli anziani del quartiere pare fosse appartenuto in passato a una confraternita religiosa. Nel 2007 un imprenditore compra il terreno e acquisisce le concessioni per edificare. Il piano regolatore prevede però “costruzioni e strutture a uso pubblico” e il “ripristino filologico” dell’edificazione precedente (il rudere). Attraverso una serie di variazioni dei permessi, rilasciati a cuor leggero dagli uffici del comune di Napoli, l’imprenditore riesce, in pochi anni, a costruire: una palazzina di tre piani; altri tre piani di garage sotterranei; spazi dedicabili a uso commerciale, il tutto sfruttando un finanziamento di circa otto milioni di euro concesso da Unicredit e Banco di Roma, a fronte di un capitale aziendale di soli diecimila euro (solo il 25% dei quali realmente versati).
Nel 2011 l’azienda fallisce, non potendo restituire la somma, che però ha investito solo in minima parte, mentre il resto è finito chissà dove. Il palazzo rimane lì, non terminato: i soldi non ci sono più e l’azienda neppure. Il fallimento arriva subito dopo la sentenza del Tar, che accoglie il ricorso effettuato da “un vicino” per contestare le modalità di costruzione del palazzo. In particolar modo, si ricorre contro la violazione delle distanze minime tra le finestre e i balconi del palazzo rispetto alle pareti degli edifici vicini. È proprio su questo punto che si esprime il tribunale amministrativo, dal momento che quello delle distanze minime di sicurezza è considerato un principio non derogabile, condizione sufficiente per annullare i permessi fino rilasciati. Il palazzo è abusivo, in attesa del parere del Consiglio di stato, a cui si appellano i costruttori.
In questa fase di impasse, senza un proprietario e senza una sentenza definitiva, l’edificio viene occupato. Gli abitanti terminano in molti casi i lavori a spese proprie e prendono possesso delle case. Il Comune, sempre pronto a perorare questo genere di cause più con le parole che con i fatti, si schiera “al fianco della lotta per la casa e contro le speculazioni”, con passerelle e dichiarazioni pubbliche dell’assessore Fucito e del sindaco de Magistris. L’avvocatura, però, non si ritira mai formalmente dal ricorso al Consiglio di stato, con il quale il Comune si era addirittura schierato al fianco dei costruttori, ritenendosi danneggiato – in quanto concedente delle concessioni – dalla sentenza che dichiarava il palazzo abusivo.
La sentenza, intanto, rende inutili le aste della curatela: se ne effettuano sei, sempre al ribasso, ma finiscono tutte deserte, così come nel vuoto vanno le chiamate successive per una trattativa privata. L’illiceità della costruzione dell’edificio ne limita l’appetibilità per i “normali” acquirenti, mentre il ricorso si rivela decisivo per il crollo del suo valore. Lo scorso gennaio, dopo l’ennesima asta deserta, il palazzo (che aveva un valore originario di circa dodici milioni) viene acquistato per ottocentocinquantamila euro da una società costituitasi da poco, praticamente per l’occasione. «In pochissimo tempo – raccontano gli abitanti del Cross – la stessa società ha cominciato a stringere accordi più o meno formali con potenziali acquirenti di singoli appartamenti. Alcuni di questi li abbiamo incontrati, e ci hanno detto che i legami tra questa nuova azienda e i vecchi costruttori falliti, che non hanno mai restituito il finanziamento alle banche, sono fortissimi».
Intanto, qualche giorno dopo l’ufficialità dell’acquisto, il famoso vicino si ritira inspiegabilmente dal ricorso al Tar (rinunciando anche a un potenziale risarcimento). Il Consiglio di stato prende atto che l’esecuzione della sentenza non interessa più e fa decadere i ricorsi. Il destino del palazzo, bloccato per anni, si risolve d’improvviso, con l’acquisto e la contemporanea potenziale concessione di abitabilità, tanto da far sospettare che le due cose abbiano più di una relazione tra loro. Certo, ora i costruttori dovranno ottenere dal Comune dei nuovi permessi per le modifiche necessarie a terminare i lavori, una eventualità che difficilmente si concretizzerà in epoca de Magistris, per l’interesse politico che ha l’amministrazione a non rovinare i rapporti con il principale movimento cittadino di lotta per la casa, ma che rischia di verificarsi facilmente al prossimo cambio della guardia a palazzo San Giacomo, con tanti saluti agli occupanti che a quel punto avranno abitato quelle case per quasi dieci anni. È interessante, in ogni caso, per capire meglio i dettagli di questa storia, fare una breve panoramica sui suoi protagonisti.
Il costruttore che nel 2007 acquisisce il terreno e le concessioni per costruirvi è Antonio Della Monica e la sua azienda si chiama Valsuo Srl. Della Monica è l’ex proprietario della squadra di calcio di Cava de’ Tirreni, città nella quale è esponente di primo piano di Forza Italia. Inoltre è stato il principale concessionario per la Campania, con la sua azienda CavaMarket, dei supermercati Despar, azienda fallita con un debito di oltre cento milioni, e la cui chiusura ha causato la perdita del posto di lavoro a centinaia di lavoratori. Della Monica (finito in quella occasione ai domiciliari) ha, prima del fallimento di CavaMarket, distratto beni per trecento milioni di euro dal patrimonio dell’azienda indirizzandoli verso altre società “sicure”. L’imprenditore a cui il comune di Napoli concede di costruire in salita Arenella, è protagonista di diversi procedimenti per bancarotta fraudolenta, abusivismo, voto di scambio, oltre a essere citato nella relazione della commissione parlamentare sulla Ndrangheta per i suoi rapporti con la famiglia Scuto, vicina al clan Laudani di Catania. Tutto ciò conta però poco, dal momento che decisamente buoni sono i rapporti tra il costruttore e il Comune, quantomeno ai tempi delle concessioni ottenute dalla giunta Iervolino: al momento del ricorso al Consiglio di stato, la Valsuo è rappresentata dall’avvocato Felice Laudadio, che quando venivano rilasciati i permessi a Della Monica era assessore all’edilizia, con delega all’avvocatura.
I buoni rapporti con la politica sono un elemento Comune tra la vecchia e la nuova società, quella che si costituisce per acquistare il palazzo in (s)vendita. La AgroInvest, infatti, ha tra i soci i fratelli Laezza, gestori dei siti di stoccaggio delle ecoballe di Acerra, che guadagnano da anni (come denunciato dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti in Campania) milioni di euro per ospitare rifiuti prodotti dagli inizi dei Duemila e mai smaltiti, frutto di ricchi contratti stipulati con Fibe-Impregilo. Uno di loro, Francesco, è condannato nel 2012 per custodia di armi ed esplosivo. Altro socio di AgroInvest è Senofonte Demitry, presidente dei Giovani imprenditori di Napoli e provincia, rampollo della dinastia di una nota famiglia vesuviana legata al Psi (Giuseppe Demitry è stato deputato dall’83 al ’94, e due volte sottosegretario). Il vero anello di congiunzione tra le due aziende sembra però essere un personaggio presentatosi in salita Arenella più di una volta dopo l’acquisto del palazzo, deciso a “dare inizio ai lavori”, senza però mai specificare il suo ruolo in AgroInvest. Si tratta di Simone Di Maio, imprenditore edile, oggetto in passato di diversi procedimenti per corruzione (tra i vari, quello per la costruzione di un monumento funebre nel cimitero di Fuorigrotta e per importanti interventi all’interno della Mostra d’Oltremare). Il nome dell’imprenditore, vicino secondo gli inquirenti al clan Zaza (e che può contare ottimi rapporti con alcuni uomini dell’Arma dei carabinieri), è sempre accanto a quello di Della Monica nelle inchieste riguardanti il crac della società immobiliare Value Srl e la distrazioni di beni antecedenti al fallimento di CavaMarket.
Dall’altro lato della barricata ci sono quaranta occupanti che da quattro anni abitano il Cross e che oggi provano a denunciare la situazione. Dal momento dell’acquisto lo scorso inverno, tuttavia, a parte alcuni strani blitz come quello effettuato da Di Maio, e ambigue notizie riguardo la stipula di compromessi per l’acquisto di case e box auto, alle minacce di sgombero non sono ancora seguiti fatti concreti, tanto da far temere che i proprietari si siano messi in posizione di attesa, per poter al momento opportuno arrivare a un accordo sblocca-permessi con il Comune.
Proprio al Comune, ora, gli occupanti domandano di attivarsi perché la sentenza del Tar (di cui nessuno chiede l’esecuzione dopo la “fuga dal ricorso”, ma che non è stata mai confutata dal Consiglio di stato) venga applicata, alla luce delle violazioni sulle distanze minime e la mancata ricostruzione filologica, e che l’area venga destinata come previsto a un uso pubblico e sociale, quale può essere la risposta all’emergenza abitativa. C’è da capire come il sindaco e i suoi assessori intendano schierarsi, a questo punto, in una controversia in cui sembrano non esserci mezze misure: dal lato di chi prende possesso di uno spazio oggetto di una clamorosa speculazione, oppure da quello di chi quella speculazione l’ha costruita, forte di una esperienza in materia che non ha mancato di attirare l’attenzione della magistratura nel corso degli anni. (riccardo rosa)