La furia del regime marocchino contro chi parla, chi canta, chi scrive, ricorda il mito di Saturno, che divora i suoi figli per paura che gli tolgano il trono. Cerca di opporsi al tempo che passa, all’evidenza disperante che tutto è destinato a cambiare, che niente è per sempre: neanche il potere. Le forze che compongono ogni élite di governo sono contrastanti e temono di disgregarsi, ma si ricompattano individuando dei nemici comuni, nel gesto rituale del divorarne uno ogni tanto.
Uno di questi figli, il giornalista e attivista Omar Radi, ha passato già due notti in una cella della famigerata prigione di Oukacha, a Casablanca, in attesa del processo per oltraggio all’autorità che si terrà il 2 gennaio. È stato convocato il giorno di Natale dalla Brigata Nazionale della Polizia Giudiziaria (BNPJ), la Digos marocchina, formalmente per un tweet dello scorso aprile, quando un giudice aveva condannato a decenni di carcere gli attivisti del movimento popolare della regione del Riff (ne avevamo scritto in un precedente articolo), colpevoli di aver reclamato il diritto alla salute, all’educazione e al lavoro. Omar Radi allora aveva rivolto al giudice parole profetiche: “Piccole braccia come le sue, in altri regimi, dopo sono ritornate in supplica, dicendo che avevano solo ‘eseguito gli ordini’. Né oblio né perdono per questi funzionari senza dignità”.
La notizia del suo arresto è rimbalzata sulle agenzie di stampa e sui giornali di mezzo mondo, dal New York Times alla Reuters, da Libération ad Al Jazeera, nonché sui siti d’informazione “democratica” del Marocco come Telquel, Yabiladi, e Lakome2 (di quest’ultimo Omar era cofondatore). Il suo caso ha avuto molta visibilità perché il regime ha colpito una figura conosciuta, con un decennio di attività politica alle spalle, sin dalle manifestazioni del 2011 (dopo le “primavere” di Tunisia e Egitto). Ma questo è solo uno dei sempre più numerosi affronti alla libertà d’espressione e di informazione, da parte dell’ultimo regime monarchico rimasto sul continente africano. Avanzano i mega-progetti, i mega-investimenti, le mega-infrastrutture, letteralmente come se non ci fosse un domani; il cemento, gli hotel e i campi da golf drenano risorse fondamentali, impoverendo e spossessando intere comunità, sia rurali che urbane; settori crescenti della popolazione esprimono insofferenza verso la retorica dello stato e del monarca che insistono sullo sviluppo e il progresso del paese; la rabbia collettiva esplode sempre più spesso, con un coro in uno stadio o una canzone su Youtube. Il potere prende queste esplosioni come sfide o occasioni per mostrarsi, e reagisce divorando le figure più visibili, cercando di infangarle agli occhi dei sudditi, o semplicemente di educare all’obbedienza.
Ogni mese di questo autunno 2019 è iniziato con un caso di repressione arbitraria. Il primo ottobre è stata arrestata la giornalista Hajar Raissouni, del giornale indipendente Akhbar Al Youm, sempre per aver coperto la repressione nella regione del Riff – ora il vero nervo scoperto del regime marocchino. Per nascondere la matrice politica dell’arresto, è stata accusata degli assurdi crimini di aborto clandestino e “relazioni sessuali fuori dal matrimonio”; ma la pressione locale e internazionale è riuscita a farla graziare dal re due settimane dopo. Il primo novembre è stata la volta del rapper Lgnawi, condannato a un anno di carcere per una straordinaria canzone di denuncia contro il regime e contro l’impoverimento del paese, dal titolo “Viva il popolo”. La canzone usava parole durissime verso il re, chiamandolo “cane” e “comandante dei tossicomani” (qui una traduzione), e ha ottenuto otto milioni di visualizzazioni in una settimana. Il primo dicembre invece è stato arrestato lo youtuber Mohamed Sekkaki, conosciuto come Moul Kaskita (“quello del cappelletto”), subito dopo la pubblicazione di un video su Facebook considerato “offensivo per le istituzioni e per il popolo marocchino”. È stato condannato a quattro anni di carcere. Tra gli undici giornalisti arrestati dal 2011 – l’anno della nuova Costituzione, che in teoria garantiva la libertà di stampa – alcuni sono stati accusati di crimini comuni, nonostante sia evidente che l’obbiettivo degli arresti sia far tacere le voci dissidenti.
Anche per Omar, del resto, è difficile pensare che il commissario si sia ricordato improvvisamente di un tweet di nove mesi fa. La ragione è un’altra, e ha a che vedere con il meccanismo fondamentale con cui il potere politico e il potere economico si sono intrecciati in Marocco. Il 22 dicembre Omar aveva concesso un’intervista illuminante alla televisione web algerina Radio M, spiegando la sua inchiesta sul land-grabbing: l’accaparramento forzato delle terre dei più poveri a beneficio dei più ricchi. Con la scusa dell’“interesse pubblico”, lo stato espropria sistematicamente le terre comunitarie nelle regioni rurali o periurbane. «Quattro milioni di ettari di terreno appartengono alle tribù», spiegava nell’intervista. «La proprietà è collettiva; dal punto di vista ambientale queste persone possono dare lezioni di efficienza nella gestione dell’acqua e dell’agricoltura, e sempre in forme solidali. Lo stato vuole mettere fine a questa forma di diritto fondiario, trasformando i terreni comuni in proprietà individuali». Per chi si ricorda, la privatizzazione delle terre comunitarie è stata la scintilla della rivoluzione zapatista in Chiapas: è l’accumulazione originaria del capitale, che parte sempre da un’alleanza segreta tra potere politico e quello economico, invariabilmente presentata come “progresso” o “riforme”. Sfruttando la scarsa comprensione delle sue leggi, lo stato divide le terre comuni in tante proprietà individuali che poi spinge a vendere, quasi sempre a prezzi inferiori al mercato e quasi sempre a grandi investitori. «Ho incontrato persone costrette a lavorare come guardiani delle ville costruite su terreni che erano stati loro», dice Omar nell’intervista.
Questi sono i meccanismi economici e politici che il regno del Marocco prova a tenere sotto silenzio con la repressione e la paura. Il land grabbing interessa tutto il continente africano, dal Marocco alla Sierra Leone al Madagascar, e dal 2008 ha raggiunto proporzioni tali da potersi considerare una “nuova spartizione dell’Africa”, analoga a quella coloniale, ma perpetrata dai governi dei diversi stati e da organismi come la Banca Mondiale. Milioni di ettari di terreno sono sottratti ai contadini e agli usi collettivi che ne garantiscono la sopravvivenza, e trasferiti a multinazionali o fondi di investimento immobiliare. Gli espropri di stato sono cruciali anche per la rivolta del Riff, che molti considerano a torto legata al separatismo berbero, e che invece è partita anche in risposta a una grande operazione di land grabbing. Il progetto Manarat al Mutawasset (“faro del Mediterraneo”) ha espropriato trentamila ettari di terreno nelle aree interne a sud della città di Al Hoceima, regalandone diecimila al settore immobiliare e turistico. «È un’economia coloniale», spiega Omar. «La legge che si usa per espropriare è del 1910: una delle prime emesse dalla Francia per accaparrarsi terreni in Marocco».
Ma il regime rovescia ogni logica: mentre svende il paese al miglior offerente, cerca di mostrare che chi critica è manipolato da potenze straniere – una radio algerina, un giornale francese, gli intellettuali europei, i nemici della patria insomma. E intanto costringe migliaia di persone a emigrare dalle loro città e campagne, distrugge le energie migliori del paese, affonda le speranze di milioni di persone. Come dice la canzone “Viva il popolo”: “Ci hanno inondato di hashish / hanno distrutto le nostre vite con le pasticche / Quei cani hanno annientato i nostri sogni / per farci rimanere loro schiavi”. Una delle ultime frasi della canzone ricorda proprio l’intervista di Omar Radi: “Siamo i proprietari della casa / e voi ci fate vivere come se fossimo ospiti / come posso amare questo paese / che mi impone le manette”. (stefano portelli)