Una tragica storia prenatalizia è stata scritta a Napoli qualche giorno fa in un periodo in cui malattia, morte, traumi legati alle vicende ospedaliere, crisi economiche profonde, stanno colpendo direttamente o indirettamente la popolazione in maniera quasi universale.
Anna, una donna di trentadue anni, è morta il 9 dicembre in seguito a un parto prematuro, per cause che devono ancora essere accertate. Tornata a casa da un ospedale di Acerra – in cui la bambina al momento è ancora ricoverata –, accusa dolori molto forti e per giorni chiede aiuto senza ricevere risposte. Decide allora di farsi portare al pronto soccorso dai suoi familiari, ma l’esercito e le forze dell’ordine a presidio della zona in cui vive le impediscono di uscire di casa. Chiamano un’ambulanza che arriva un’ora dopo, nel frattempo lei è già svenuta, viene portata in un presidio sanitario e poi all’ospedale Cardarelli ma non c’è più niente da fare. Sei figli restano orfani di madre.
Le responsabilità di quel che è accaduto ad Anna, il mancato soccorso, il divieto di recarsi in ospedale, il ritardo dell’ambulanza, verrà stabilito da un’inchiesta giudiziaria avviata in seguito alle denunce della famiglia. Il rispetto per il dolore e la complessità della vicenda imporrebbero solo un decoroso silenzio, almeno fin quando non si riusciranno a dare risposte, soprattutto a chi è stato colpito da una disgrazia apparsa a molti evitabile.
Quel che è importante raccontare è invece lo scenario in cui la storia si è svolta. Anna viveva con la sua famiglia a Napoli e precisamente nel campo rom comunale in via Circumvallazione esterna, dietro il carcere di Secondigliano, alla periferia nord della città. Primo campo ufficiale autorizzato, “villaggio della solidarietà”, venne costruito nel 1999 e inaugurato nel 2000 come soluzione abitativa per una parte dei rom che vivevano a Scampia da almeno un decennio, arrivati durante le guerre balcaniche ma in alcuni casi anche da prima, come ci ricorda Felice Pignataro in un racconto dedicato agli zingari che nel 1971 “vennero ad abitare dietro le palazzine di Secondigliano”.
Serbi, bosniaci, kosovari, croati, macedoni giunti a Napoli senza che ci fosse stato un riconoscimento della loro condizione di profughi e per questo esclusi da ogni forma di protezione giuridica. Le settecento persone che per prime si insediarono nel nuovo campo erano scampate al grande incendio del 19 giugno 1999 nel campo (abusivo) di via Zuccarini, accanto alla metropolitana di Scampia. A quell’epoca i campi abusivi erano diffusi nel quartiere, situati nelle aree agricole o negli spazi vuoti a ridosso dell’edilizia residenziale pubblica. Il nucleo più antico, che ancora oggi esiste e resiste in qualche modo, è la costellazione di campi in via Cupa Perillo, nei pressi delle rampe dell’asse mediano, che nel 2017 si è svuotato di almeno la metà dei suoi abitanti in seguito a un altro incendio.
L’incendio del 1999 portò alla fuga dal quartiere di almeno la metà delle oltre duemila persone che vivevano a Scampia e la ricollocazione dei restanti in un’area di oltre diecimila mq, in novantadue piazzole di circa novanta mq ciascuna, nella totale assenza di verde e di spazi liberi a disposizione. In questo modo i rom restavano nel quartiere, evitando al Comune di dover gestire eventuali conflitti per la loro sistemazione altrove, ma soprattutto venivano sistemati a grande distanza dai centri abitati, lontani dalla vista della popolazione ma anche da ogni accesso ai servizi, in una landa priva di collegamento con i mezzi pubblici, adiacente a uno stradone che collega Napoli a molti comuni della provincia, in cui il rischio di essere investiti è molto concreto (in anni diversi sono state uccise due donne che rientravano a piedi nel campo). Nelle affermazioni degli amministratori che l’hanno aperto il campo era considerato una soluzione “provvisoria”
A differenza di quelli abusivi, il campo comunale è fornito di acqua, luce e servizi igienici, è gestito da un ufficio creato appositamente e disciplinato da un regolamento, probabilmente meno rigido che in altre città, soprattutto del nord, e che a Napoli si è articolato in un “patto di cittadinanza” che i rom si impegnano a rispettare per conservare il diritto alla permanenza. Nel campo inoltre è operativo un presidio fisso di vigilanza, servizio in genere svolto da un ente del terzo settore che si è aggiudicato un appalto comunale che comprende anche l’accompagnamento scolastico e quello sanitario. La manutenzione è affidata al Comune, alla sua ben nota efficienza e puntualità – è capitato che gli stessi tecnici comunali si rifiutassero di prestare servizio in un campo rom – con costi altissimi per le casse comunali ma anche con l’impossibilità per i rom di essere autonomi nella risoluzione dei problemi. Il risultato è che le perdite, le rotture, i guasti, sono cronici. Inutile sottolineare la presenza di una discarica fissa davanti al campo, dovuta alla discontinuità dei prelievi e allo sversamento di rifiuti illegali.
Il campo dietro il carcere di Secondigliano rispecchia in pieno i criteri con cui a partire dagli anni Ottanta l’Italia ha deciso di affrontare la questione abitativa – e non solo – delle popolazioni rom e sinti che, con tutte le varie specificità e provenienze – il famoso “mondo di mondi” che viene sistematicamente uniformato e omologato – si trovano in Italia. La politica dei “campi nomadi”, con la nascita di ghetti monoetnici lontani dalla vita delle città, è la risposta italiana all’esigenza di decine di migliaia di persone di vivere dignitosamente nel paese in cui hanno scelto di stabilirsi. Persone che di nomade hanno forse qualche lontano trisavolo, si sono trovate incastrate in un sistema che li ha resi sempre meno autonomi, negandogli qualsiasi possibilità di mobilità sociale, anzi accentuandone la progressiva pauperizzazione – economica, culturale, sociale. Il fallimento di un sistema scolastico per almeno due generazioni di bambine e bambini rom, ha provocato diffidenza e chiusura, ma anche un atteggiamento in cui l’assistenzialismo è diventata l’unica forma accettabile di relazione. La cosiddetta “scelta” di vivere nel campo, che spesso politici, amministratori o esperti di qualche tipo hanno sbandierato per giustificare l’istituzione di questo tipo di apartheid, è diventato effettivamente un concetto interiorizzato dagli stessi rom. Vivere in un campo è diventata una scelta obbligata e in qualche caso anche rivendicata. Oggettivamente l’unica scelta possibile, con tutte le conseguenze che comporta.
Il campo di Secondigliano non è mai stato messo in discussione dal comune di Napoli che anzi nel 2017 ne ha aperto un altro, esattamente con gli stessi criteri, dietro il cimitero di Poggioreale, per sistemare i duecentocinquanta rom romeni sgomberati dal grande campo abusivo di Gianturco, nella ex zona industriale. Nonostante i tavoli, le manifestazioni, le denunce e anche le condanne, il nuovo campo è nato già vecchio e prefigura generazioni future di persone segnate da un’infanzia trascorsa tra i container.
Nei mesi scorsi nel campo rom di Secondigliano sono stati riscontrati 95 positivi al Covid-19 su 370 tamponi effettuati. Una percentuale pari al 25,68% che ha spinto la Asl Napoli 1 Centro a chiedere l’isolamento dei positivi e la quarantena per tutti i residenti nel campo. La Regione ha istituito la zona rossa dal 3 al 13 dicembre per i cittadini con residenza, domicilio o dimora presso il campo, come recita l’ordinanza numero 94: “Fatto obbligo di isolamento domiciliare, con divieto di allontanamento dalle proprie abitazioni, fatte salve esigenze sanitarie o connesse all’acquisizione di generi di prima necessità”. Si legge ancora nell’ordinanza: “Il Comune di Napoli, d’intesa con l’Unità di crisi regionale e con il supporto della Protezione civile e del volontariato, assicura ogni forma di assistenza ai cittadini, anche attraverso la somministrazione di derrate alimentari e generi di prima necessità per tutta la durata di efficacia del presente provvedimento; nell’area interessata dal presente provvedimento e ai relativi varchi di ingresso è assicurato, da parte delle competenti forze dell’ordine, dall’esercito e dalla polizia municipale il necessario presidio, secondo quanto disposto dalla prefettura e dalle altre autorità competenti. La Asl competente, d’intesa, ove necessario, con l’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno, assicura la prosecuzione delle attività di controllo sanitario a tutta la popolazione interessata dal presente provvedimento, dando comunicazione dei relativi esiti all’Unità di crisi regionale per le conseguenti valutazioni ed eventuali determinazioni di competenza. È compito, inoltre, dell’Asl di competenza assicurare, all’interno del campo, una postazione fissa per attività di ambulatorio di assistenza medica di base in favore dei cittadini. Vigilanza e controllo dell’osservanza del provvedimento sono demandate alle autorità competenti”.
L’isolamento per i circa quattrocento rom residenti nel campo di Secondigliano è diverso che per le famiglie residenti in un qualsiasi condominio di un qualsiasi quartiere. Il 9 dicembre, Anna in preda ai dolori ha cercato di uscire dal campo, ma le è stato fisicamente impedito dagli agenti e dai militari. In tutte le zone rosse presidiate dall’esercito istituite in Italia dall’inizio di questa pandemia – e anche in questa ordinanza è precisato – è sempre consentita la circolazione nel territorio comunale in caso di urgenza, come nel caso di Anna. La differenza che ha segnato il suo destino, è non tanto o non solo di essere rom, ma di vivere in un campo in cui di per sé vige uno stato di eccezione, e che con la pandemia si è meritato di essere sorvegliato speciale. Non prestare attenzione alla sua richiesta di aiuto e ostinarsi a non farla uscire per correre autonomamente in un pronto soccorso, è perfettamente coerente con un sistema che ha un impianto discriminatorio originario, che considera i rom incapaci di intendere e di volere, degni al massimo di essere assistiti con le buste della spesa e certamente controllati più di ogni altro cittadino affinché non commettano errori fatali. Solo che i rom alla fine risultano spesso le vittime degli errori fatali delle amministrazioni, delle loro incompetenze e delle loro lentezze, fino ai casi eclatanti e intollerabili come quello di Anna.
In seguito ai tamponi effettuati il 13 dicembre, in cui sono risultati positivi quaranta rom, la Regione ha emesso una nuova ordinanza, la numero 97, che proroga fino al 19 dicembre la zona rossa. I rom stanno protestando, reclamano la loro legittima libertà di movimento. Con la diminuzione dei contagi non potersi ancora muovere a questo punto è diventato assurdo. Ma nella mente dei politici, degli amministratori e dei loro consiglieri, i rom vivono in un mondo parallelo, in cui probabilmente il Natale non esiste nemmeno. (emma ferulano – chi rom e… chi no)