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4 Luglio 2017

Il teatro dell’attore e quello dell’orpello: Antonio Capuano vs Jan Fabre

Giusy Palumbo antonio capuano, fellini, festival, gea martire, jan fabre, napoli, politeama, roma, sannazzaro, teatro, teresa saponengelo

 

(foto di salvatore pastore)
(foto di salvatore pastore)

«Che cazzo ne so?». Questo rispondeva Buñuel a chi gli domandava perché alla fine del Fantasma della libertà inquadrasse lo struzzo. Me lo domando anche io, chiamata a decodificare i segni dei due spettacoli visti nel fine settimana al Napoli Teatro Festival: Le Serve di Antonio Capuano al Sannazzaro e Belgian Rules/Belgium Rules di Jan Fabre al Politeama.

Dovrei far sedimentare tutte le prime impressioni, radicalizzare le apparenze, saperne qualcosa in più di teatro e scrivere due articoli distinti ma non ho abbastanza tempo quindi opto per il dispetto delle regole, l’ebbrezza della confusione e lo sgarbo del furto. Se l’arte è sovversione, la critica è maleducazione. Dunque inizio da Jean Genet, ladro per destino, punto di riferimento più morale che letterario per molti. È il suo testo del 1946, Le Serve, che Antonio Capuano ha voluto violare e sovvertire, partendo dalla traduzione in napoletano. Da serve a cammerere, le donne che Genet avrebbe fatto interpretare a dei giovinetti con Capuano si liberano “dalle pesantezze nelle quali affogano”. Se per Genet dovevano recitare furtive e muoversi in punta di piedi, con Capuano si slacciano e ballano. Se per il parigino “le attrici sono pregate, come dicono i greci, di non scodellare la fica in tavola”, per il napoletano possono strizzarsi i seni, scoprire le cosce e far sentire il profumo pure dei fiori finti. L’erotismo, bandito da Genet, ora rivendica il suo spazio perché per Capuano il teatro è delle attrici (Teresa Saponangelo e Gea Martire le sue protagoniste) e le grandi attrici non recitano, stanno.

Sulla scena di Belgian Rules/Belgium Rules, in anteprima mondiale e con buona pace di Genet, di fiche ne hanno scodellate parecchie, ridotte a orpelli come le aste delle majorette, i cappelloni di carnevale, i becchi dei piccioni, le ossa degli scheletri e tutto l’armamentario finto-visionario che la produzione ha dovuto tirare fuori per nascondere un vuoto di scrittura e di pensiero. Si chiama teatro dell’immagine, costruisce visioni con i corpi, libera l’inconscio e butta fumo negli occhi. «It sucks you», urlano gli attori/atleti costretti a sudare (mai a sanguinare) mentre elencano regole e divieti o sbandierano possibilità di un mondo migliore dove «non tutti gli arabi sono terroristi» e altre banalità.

«E questo vorrebbe dire adeguarsi allo spirito dei tempi? E noi tutti boni, zitti, in fila, a confessarsi da un prete che si veste come ‘no stagnaro?». Scrivo e sottoscrivo le parole che dice una signora secca secca davanti al défilé del clero in Roma, il film di Fellini a cui Fabre dichiara di essersi ispirato ideando il suo spettacolo. Eppure me lo ricordo bene il discorso sotterraneo continuativo e coerente che faceva Fellini, ancora oggi percepisco la tensione di quel disordine, in tutti i rivoli in cui si disperdeva. Di questo spettacolo cosa ricorderò? Forse la pisciata sul palco perché alludeva a una danza della realtà. Mentre ancora mi brucia dentro la rivolta delle serve, le risate nervose con cui scacciano il tragico, “belle, libere e gaie” fanno ciò che ciascuno vorrebbe fare ma che nessuno osa fare, sono veramente sovversive, comee Capuano, “perché il teatro è dell’attore, il resto sono orpelli che rendono il teatro un artificio contro il quale io mi ribello”. (giusy palumbo)

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