La più recente creazione è lo spot per l’ultima edizione di Napoli Comicon, un video viral (che in italiano vuol dire quando a un certo punto non ce la fai più a vedere sempre la stessa cosa), da duecentocinquantamila contatti in pochi giorni. Loro sono i The Jackal, un gruppo di ragazzi napoletani che da un po’ di anni realizza e trasmette via internet una cospicua serie di video, corti, web-series e pubblicità. Gli “sciacalli” hanno raggiunto un discreto successo tra gli youtubers(che in italiano sarebbero quelli che spendono la maggior parte della propria giornata a caricare e/o visionare video sul popolare sito internet) grazie a fortunate serie come Lost in Google e Gay ingenui.
Il meglio, tuttavia, i Jackal lo danno nel rapporto con la propria città. Lo fanno, sempre, ostentando quel fastidioso atteggiamento a metà tra il derisorio e il malizioso che gli permette di mestare a piene mani nel peggior repertorio di cliché che la città offre, salvo poi (ri)proporre l’idea di un possibile riscatto attraverso l’immagine della ormai celebre – e per molti versi ancora più fastidiosa di quella noir dell’immondizia e dei morti ammazzati – “altra faccia di Napoli”. I video dei Jackal ammiccano al napoletano medio caricando all’estremo i personaggi del cosiddetto “popolino”, enfatizzandone a dismisura il dialetto, le movenze, le abitudini più colorite, insomma tutto quanto chi pretende di affacciarsi da un piedistallo sociale reputa ora pittoresco, ora intollerabile. Anche quando non si dà addosso ai parcheggiatori abusivi o ci si fa beffe delle vrenzole (al limite della denuncia sono i video in cui due ragazzi discorrono tra loro, imitando male le donne dei quartieri popolari, con un accento taroccato quanto quello del poliziotto italo-americano dei Simpson), l’immagine della città è talmente stereotipata da risultare grottesca anche per il più affamato turista tedesco o americano.
Niente di diverso, certo, rispetto a quel che chiede l’assuefatto spettatore under trenta che si rapporta alle produzioni dei videomaker, che sbancano soprattutto tra i tardo adolescenti della Napoli bene. Va in scena, così, tutto il solito repertorio: il motociclista che fa scandalo perché indossa il casco, con almeno un paio di altri compari che gli fanno compagnia sul motorino; le insormontabili difficoltà dei concittadini dei quartieri bassi a padroneggiare la lingua italiana, oppure quelle nel far centrare ai rifiuti il bidone dell’immondizia; ancora, quando si tratta di innescare la modalità “pathos”, i vicoli si riempiono di panni stesi, gli scugnizzi giocano a pallone per strada e persino, nel recente spot del Comicon, gli anziani si trastullano giocando con le card dei fumetti, ovviamente su tavolacci di legno, mangiando pizze o sorseggiando caffè, e indossando camicie e coppole recuperate direttamente dalla sala costumi de Il Padrino.
Ogni volta questa comoda immagine, anzi questo comodo sistema bipolare di immagini, viene proposto come l’unica città possibile. Napoli è la munnezza e il “paradiso abitato da diavoli”, ma è contemporaneamente la città del “prendiamoci cura del nostro meraviglioso giardino”. Napoli è il posto dove per parcheggiare l’automobile senza sottostare al ricatto camorrista il giovane con la faccia pulita deve sfidare il destino, e lanciarsi in una fuga da film d’azione americano; allo stesso tempo è la città che si compiace quando il fesso di turno viene truffato al gioco delle tre carte nel piazzale della stazione; è il sito di informazione (che non a caso è da tempo partner delle produzioni degli stessi Jackal) che un giorno denuncia all’utente benpensante l’odiosa pratica estorsiva del “parcheggio a piacere”, e quello successivo cattura il sorriso dello stesso lettore perché in chissà quale saittella è capitato che un parcheggiatore abusivo abbia sbrogliato un ingorgo, mettendosi a fare da vigile urbano.
Di video in video, di corto in fiction, corredata da una cura formale che più si affina nel tempo e più si rivela involucro vuoto e di maniera, procede la pruriginosa sequela per bozzetti degna di un Luciano De Crescenzo 2.0, da cui traspare in controluce da un lato l’irritazione per non poter vivere in una città “normale” e dall’altro l’orgoglio fine a se stesso per abitare in un lembo di terra così “speciale”. Il tutto, senza neppure quel briciolo di classe che la corte dei miracoli bellavistiana si portava dietro, e senza la consapevolezza che è proprio il crogiolarsi in rappresentazioni così scontate la causa e non la conseguenza di maglie così strette in cui la città è rimasta e rimane impigliata da tempo. (riccardo rosa)