Ora che si è conclusa la serie tv “Gomorra”, portandosi via anche malumori e polemiche, può essere utile tornare su un modo sempre più diffuso di rappresentare Napoli attraverso l’opposizione tra bene e male, esaltando la sua natura ambivalente ma annullando anche tutte le sfumature, che sono in fondo il sale del ragionamento e della creazione artistica.
La produzione di Sky e Cattleya pare abbia centrato i suoi obiettivi: ha registrato una buona audience, ha fatto parlare di sé, ha divertito il suo pubblico. Nello stesso periodo sono stati presentati i cinque film che gli stessi produttori hanno commissionato ad associazioni e registi napoletani per descrivere la “parte positiva” della periferia nord, che nella serie appare più che altro come lo sfondo in cui si consumano traffici illeciti e fatti di sangue. I cortometraggi dovevano rappresentare una sorta di contropartita per equilibrare la “cattiva immagine” del territorio veicolata dalla tv, ma in uno scambio del genere il più piccolo ha sempre da perdere, anche quando pensa di aver portato a casa il risultato a spese del gigante venuto da fuori. A conti fatti, il confronto tra la serie e i film risulta impietoso.
Al di là della sproporzione dei mezzi e della qualità professionale messa in campo, il problema è nei presupposti alla base delle due produzioni. Da un lato la serie tv, operazione commerciale d’alto bordo inserita in una consolidata tradizione, non solo cinematografica, che ha descritto in mille salse la parte oscura del mondo; dall’altro i cinque corti, nati come controcanto edificante, fondati su un punto di partenza aprioristico e limitante, la descrizione dei “giusti”. Da un lato il ritratto di una famiglia malavitosa, le sue lotte intestine, i suoi affari sporchi, la rivalità con le altre bande, in una messa in scena di sicuro parziale, spesso volutamente prevedibile, in altri casi involontariamente caricaturale, ma capace di assicurare ritmo, azione, colpi di scena, di appassionare il pubblico alla sorte dei personaggi, proprio come in quei romanzi, gialli o neri, magari scritti senza troppe raffinatezze ma dai quali è difficile staccarsi prima dell’ultima pagina. Dall’altro lato i bambini delle Vele, gli immigrati che cercano il riscatto attraverso il calcio, i giovani devianti salvati dalle associazioni, in una galleria di buoni sentimenti – ma c’è anche una parodia della malavita – che non è quasi mai credibile e coinvolgente.
Questo malinteso scatto d’orgoglio che accomuna tanti concittadini ogni volta che qualcuno mostra – in tv, al cinema, in un libro – l’orrore, la bestialità, il marcio che ci circonda; questo “obbligo morale” di contrapporre alla descrizione dell’ombra quella, speculare, della luce, invece di preoccuparsi del “come”, di analizzare la forma, lo stile, i modi di produzione, ha finito per veicolare un racconto della città estremamente schematico, lontano dalla realtà e dalla verità.
Questa par condicio un po’ ottusa, che obbliga a mostrare un presunto segno positivo ogni volta che ne appare uno negativo, ha portato alla ribalta una galleria eterogenea di leader e testimonial che non sembrano toccati dal dubbio ogni volta che affermano o lasciano intendere di trovarsi dalla parte del bene e del giusto. Questo tipo di retorica legittima a sua volta narrazioni che tracciano una linea tanto netta quanto artificiale tra “noi” e “loro”, tra buoni e cattivi, buttando a mare tutta la complessità, le contraddizioni, riempiendo tutti i vuoti che andrebbero lasciati alle domande, ai dubbi di chi osserva.
“Noi togliamo i ragazzi dalla strada. Noi combattiamo la camorra”. Sono affermazioni che abbiamo sentito durante le polemiche su Gomorra la serie, e in mille altre occasioni, da soggetti molto disparati, talvolta improbabili. Sono frasi che ribadiscono a se stessi, prima ancora che agli altri, un’identità forte, ma sono anche frasi che espongono, danno visibilità, posizionano il proprio marchio sul mercato del sociale. Chi lavora sulla strada in quartieri di camorra sa bene che la realtà è molto meno cristallina. Per un ragazzino che si sottrae alle cattive amicizie ce ne sono cinquanta per i quali non si riesce a far nulla. Per un progetto che intercetta le esigenze di un gruppo sociale svantaggiato ce ne sono dieci organizzati in modo paternalista, burocratizzato, dove i soldi si buttano dalla finestra o finiscono nelle tasche dei mediatori di professione. Di questo dovrebbero cominciare a parlare i paladini del bene. Delle difficoltà, delle miserie, dell’insensatezza della loro quotidiana fatica; degli ostacoli e delle ipocrisie; infine, delle inaspettate perle che si incontrano talvolta lungo il cammino. Altrimenti rischiano di contrapporre allo spettacolo del male solo della propaganda o dell’ingenuo ottimismo. (luca rossomando)
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