Una virgola a metà strada, un salto dalla sella per la riconquista del fiato. È così che Ciro fa il più delle volte: la salita la spezza come un periodo pesante da reggere, o da leggere. A fine pendenza Santa Maria degli angeli, alle croci. E gli si accosta Genny, una dozzina d’anni di voce esile e sintassi adulta, più che biondo bruciato dal sole. Che non è uno sprovveduto glielo fa capire con poche frasi e molti intercalari, reggendo con sicurezza la sua biciclettina blu oltremare. Genny ha visto la catena abbracciata al tubo di ferro che regge la sella di Ciro, e gliela chiede, senza esitazione: «Me la regali?». Ciro si rende conto che il moccioso non si rende conto, lui gliela darebbe pure, ma po’ isso comme l’attacca ‘a bicicletta? Però si ricorda che poco tempo prima un’altra catena, più piccola, l’ha trovata in un paesotto di mare del nord italia.
«Facciamo così, vieni appresso a me, te ne regalo una».
Casa di Ciro è nel vico a sinistra, dove sta l’altare a Sant’Antonio Abate, il re indiscusso del quartiere. Però sopra a tutto, cento scalini e un nome che è promessa mantenuta.
«No no, je nun ce vengo llà ‘ncoppe, ci stanno gli spiriti».
Ciro non riesce neanche a dargli torto; è vero, pensa, qualcosa di intangibile ma che senti ti sfiora abita il vicolo e le sue case decrepite sedute una sull’altra. Se la natura lì prevale non è tanto per i residui squarci di terra coltivata, piuttosto per quello che di contorno si riaffaccia in ogni anfratto. Laddove c’è un buco nel tufo fanno capolino gli occhi preistorici di una lucertola, e non è raro risalendo le scale aggrappati al passamano sbiadito dalle piogge, camminare fianco a fianco di scarabei affaticati non meno di quelli che s’arrampicano sudati alla conquista della loro fetta di piccolo paradiso. Le api e le lucciole, i gatti gli uccelli e il muschio, talvolta i pappagalli che risalgono dal vicino orto botanico a squarciare granate succose tra le bestemmie gracchiate dai vecchi che le aspettano da mesi perché premute – dicono – fanno bene al fegato, purificano.
Genny dice che la catena gli serve perché nel suo palazzo hanno provato a fottergli la bicicletta. Era stato un gigante di sedici anni che però non c’era riuscito. Ché lui gli aveva chiavato un cazzotto in faccia. Tira a me e votta a teCiro riesce a convincerlo a salire, non senza lasciarsi strappare la promessa di riaccompagnarlo almeno fino alla metà strada del ritorno.
«Ammò ma mica mi stai portando sopra perché ti vuoi vendere i miei organi?»
«Ma chi se li compra piccoli come sono? Ci faccio uno spiedino tuttalpiù!», sfotte Ciro. «E poi se tieni paura puoi aspettarmi giù al palazzo». Risalgono le scale tra curiosità reciproca e diffidenza: tu quanti anni tieni, trentatrè, maro’ si cchiù gruoss ‘e mammà, e dove stai di casa tu, non ti sei messo paura di quello più grande, ma un motorino non te lo compri, e lo sai chi è mio cugino, ah, lo conosci il limone, diglielo che mi hai fatto ‘stu regalo e via risalendo. Ciro cerca le chiavi, apre e a tentoni schiaccia l’interruttore. Mentre la lampadina lentamente s’infoca ha già intravisto la catena, nera e senza maglie, su una mensola soffocata da libri e bollette da pagare. Chiude la porta ma non la luce. Scende e consegna la catena al suo nuovo proprietario. Genny sorride, è contento e ringrazia. Forse in quel momento a entrambi batte il cuore. Poi fanno il vicolo a retromarcia fino alla panchina di pietra, pure lei virgola per chi fà pausa d’ascesa o discesa al Paradisiello. Si salutano battendo la destra e con Genny tremante che l’implora di aspettare almeno che scenda gli ultimi gradini. Ciro resta in cima mentre il ragazzino di tanto in tanto si gira e saluta, poi lo vede sparire in fondo alle scale, come quegli spiriti che tanto lo spaventano.
Ciro adesso è stanco e si trascina sugli scalini come certe lumache che non dimentica mai d’osservare, lasciando dietro di sé la bava di una giornata calda e asfissiante. Quando rientra in casa anche se la lampadina è al massimo della sua luminosità non riesce a far luce sui misteri di cui noi, uomini e donne di questa terra, avidamente continuiamo a nutrirci. (cyop&kaf)