Poco tempo fa a Torino, in Barriera di Milano, ho sentito un uomo parlare al telefono. Era sul marciapiede e aspettava il turno per entrare in un negozio del quartiere. Gli sono passata accanto mentre camminavo verso il mio portone e l’ho sentito pronunciare a voce molto alta: «Tu non immagini dove sono! Sono in estrema periferia! Qui nessuno parla italiano nel raggio di dieci chilometri!». Ho sgranato gli occhi e l’imbecille deve aver visto l’espressione della mia faccia. Per un momento mi ha fissata, poi si è voltato per continuare a dire sciocchezze, ma con un tono di voce più contenuto. L’ho superato, dopo qualche passo mi sono voltata per osservarlo: uomo di mezza età, capelli brizzolati, occhiali con montatura di metallo, uno zainetto sportivo con il logo di una multinazionale dello sport. Aspettava il turno per farsi rifare la sella della moto d’epoca, parcheggiata accanto a lui in mezzo al marciapiede, di fronte a un laboratorio artigianale che ripara selle e sedili dal 1922. Aveva stampato sulla faccia un ghigno.
Avrei forse dimenticato questo episodio, ma nello stesso periodo mi sono imbattuta in una serie di articoli della cronaca torinese che descrivono usi, costumi e crimini degli abitanti di Aurora e Barriera di Milano. Ho pensato che l’idiozia del passante fosse il rispecchiamento del discorso giornalistico sul quartiere e ho trascorso la primavera a raccogliere articoli redatti dai principali giornali. Queste note sono degli appunti sul modo di rappresentare la città a nord della Dora, ma anche un piccolo archivio di stili e figure elaborati dal potere.
L’UOMO CON IL MACHETE
Un evento ha scatenato le cronache più recenti. Nel pomeriggio del primo giugno è avvenuto uno scontro in strada all’inizio di corso Giulio Cesare, un’arteria importante di Torino che collega il centro città alla zona nord. “Machete in strada, scena intollerabile” ha titolato qualche giorno dopo il Corriere della Sera; anche La Stampa e La Repubblica hanno scritto di violenze e machete. Eppure l’oggetto al centro delle cronache della stampa locale si rivela essere, presumibilmente, un coltello da macellaio. Il machete è uno strumento molto diverso da quello mostrato nelle cronache: è ampiamente usato nelle regioni tropicali e subtropicali per aprire sentieri nella selva o utilizzato in agricoltura per tagliare la canna da zucchero o altri tipi di colture.
Quel primo giugno un ragazzo è immortalato in una manciata di fotogrammi con un coltello in mano in corso Giulio Cesare mentre insegue uno dei suoi aggressori. Dalle immagini si capisce che è già ferito. Nella sua ricostruzione avrebbe sottratto l’arnese, per difendersi, a un altro ragazzo che l’aveva aggredito. Dopo una colluttazione che lascia il suo inseguitore ferito, Hamza – questo è il nome del ragazzo – sale sul tram con un suo amico per raggiungere l’ospedale più vicino e farsi medicare. Sul tram viene fermato dalla polizia e subito arrestato. Pochi giorni dopo è processato per direttissima e un giudice decide il suo rilascio in attesa del processo. Dal carcere viene portato direttamente al Cpr di corso Brunelleschi e dopo due giorni è rimpatriato con un volo per il Marocco perché è senza documenti e ha provvedimenti di espulsione precedenti. Seguirà a distanza, dal Marocco, la fine del processo previsto per luglio: “Rimpatriato in Marocco l’uomo col machete, verrà processato a distanza” scrive La Repubblica il 10 giugno.
Dopo la diffusione dei fotogrammi del “ragazzo con il machete” la cronaca torinese è sovraeccitata e dà libero sfogo a similitudini tra le strade dei quartieri e “giungle criminali”. Esistono di colpo “bande” e supposti “padroni delle periferie”, e il plurale è sempre generico. Inoltre vengono stigmatizzati come criminali comportamenti assolutamente ordinari come sostare in strada, stare insieme tra connazionali e parlare altre lingue. Questa operazione di discriminazione razziale, in base a giudizi assoluti su determinati comportamenti sociali di certi gruppi o soggetti migranti, è ripetuta con particolare insistenza.
I titoli de La Stampa di sabato 4 giugno, così come i contenuti, sono magistrali. Recita il titolo di pagina 39: “La giungla criminale. Senza regole né padroni: le bande fluide che tengono sotto scacco le periferie”. Al titolo viene associata una foto in cui due persone non bianche si trovano davanti a un negozio. In realtà, osservando con attenzione, si tratta di un Caf. Una delle persone ritratte è seduta sullo scalino e parla al telefono, l’altra è di spalle e attende il turno per entrare. Perché una foto del genere dovrebbe rappresentare secondo La Stampa la “giungla criminale”? Forse perché nella giungla ci vivono solo le persone nere, le persone di origine africana. Noto che è assolutamente normale mostrare queste associazioni su un giornale, e non su un volantino di un partito fascista o razzista. Nessuno nota nulla perché il mondo bianco di chi legge è lo stesso di chi scrive.
CAOS CRIMINALE E FORME DI REPRESSIONE
La Stampa del 4 giugno scrive a tutta pagina: “Caos criminale”. La parola Caos è scritta in rosso. Una foto mostra uomini africani in piedi vicino alla serranda di un negozio. Accanto a loro un uomo bianco si copre la faccia con la mano. Sul fondo una saracinesca abbassata e il cartello “Vendesi”. Ecco la didascalia sotto la foto: “Sopra pusher in azione nel quartiere Aurora. Sotto i controlli dei carabinieri che solo a maggio hanno arrestato 56 persone nella zona per droga, rapina e risse”. Vi sono due immagini più piccole sotto, mostrano un agente con al guinzaglio un cane fuori da un minimarket e una camionetta dei carabinieri con due agenti che chiacchierano nei pressi della chiesa di via Malone. Il sottotitolo presenta un: “Viaggio nella geografia delle bande fluide che tengono sotto scacco Aurora, dai cult africani alle mafie dell’Est: una democrazia violenta senza regole né padroni”. Si descrive così una “geografia criminale” dove emerge “un suk di bande, di etnie, di affari sempre in precario (e rischioso) equilibrio. Perché qui ognuno comanda il suo pezzo e non sempre è facile restare in bilico nelle trame nere della droga e degli affari sporchi quando uno vale uno. Tutt’altro”. Ovviamente non vi è alcun accenno a povertà estrema, a condizioni di vita durissime spesso insostenibili determinate dal funzionamento di confini, frontiere, polizie, dalla possibilità di essere sempre seguiti, fermati, controllati, di essere deportati o di ricevere un ordine di espulsione. Di risse, accoltellamenti e bottigliate in strada, certo, ne accadono. Ma i luoghi frequentati solamente da “clandestini e pusher” – secondo la ricostruzione dei giornali – sono gli stessi che attraversiamo tutto l’anno anche noi passanti e abitanti dei quartieri: spesso i tipi di violenza che le persone vivono sulla loro pelle sono ben altro rispetto agli scontri più o meno “pittoreschi” che vengono riportati dalle cronache.
È interessante osservare come in quest’articolo de La Stampa, così come in altri usciti negli stessi giorni, non vengano mai analizzati in profondità i tipi di traffici e le economie informali che esistono nelle grandi città e come tali attività siano mutate nel corso tempo. Non si ragiona sull’aumento delle forme di ricatto e sfruttamento ai danni di corpi sessuati e migranti, utili per qualsiasi tipo di tratta e manovalanza, o impiegati in modo strutturale nel mercato del lavoro nero e grigio. Nemmeno si scrive di come siano colpiti ampi settori della popolazione immigrata già presente da anni nel nostro paese o appena arrivata, sempre più esposta a condizioni di vita precarie perché senza documenti, senza contratti, senza diritti, senza la possibilità di avere una casa, ma al massimo un posto in dormitorio o una baracca in un ghetto. E non viene narrata la forma dei poteri all’interno della città, né viene raccontata l’inefficienza cronica e la corruzione all’interno di istituzioni, uffici e questure; scompaiono dalla coscienza borghese la discriminazione e il razzismo sistemico che determinano l’impossibilità di avere uno straccio di documento per lunghi periodi o per anni. I racconti dei giornali non spiegano le contraddizioni, ma legittimano la repressione dei relativi sintomi. Al “caos criminale” si risponde con l’impiego della forza pubblica.
Certo, ci sono anche ipotesi più democratiche per “arginare il disagio sociale”, come ricorda una pagina nazionale de La Stampa, sempre il 4 giugno. Qui appaiono le interviste al prefetto e al sindaco della città, sovrastate dal titolo: “Quei fragili da integrare. Viaggio nel quartiere Aurora dove molte persone sfuggono alla rete dell’assistenza”. Il titolo – posto accanto a un’immagine di “degrado” – ci ricorda che esistono il potere psichiatrico e le cure dei professionisti dell’accoglienza per correggere e normalizzare gli istinti, integrare i fragili. Nello stesso testo interviene l’associazione Gruppo Abele: “Nessuno ha mai investito qui per costruire un futuro diverso”. Dove non arriva la polizia, si presenta il terzo settore.
Questa tendenza s’è resa evidente di recente in merito alle polemiche scaturite dalla presenza di poveri senza casa sotto i portici del centro. Secondo le cronache i senzatetto sarebbero scomparsi in occasione di Eurovision per poi tornare alla fine della sbornia spettacolare: “«I senzatetto durante l’Eurovision erano spariti» – ricorda Gozzi [la titolare di un negozio in via Gramsci]. «Probabilmente erano stati esortati a lasciare il centro, ma da quando è finita la kermesse sono tornati. E, anzi, sono aumentati. Io ho deciso di non percorrere più certe strade, soprattutto la sera quando rientro a casa da lavoro.»” (La Stampa, 2 luglio). Questa umanità in eccesso, fuori posto e povera, si espone senza ritegno e incute timore, provoca paura, sdegno tra i commercianti lamentosi. Pochi giorni dopo alcuni amministratori pubblici camminano lungo i portici e valutano la situazione. Ci sono le foto di questa passeggiata su La Stampa del 9 luglio. L’articolo inizia spiegando quali siano i soggetti che causano un forte impatto sulle passeggiate in centro: “I casi più gravi, i clochard con problemi psichiatrici o di dipendenze, sarebbero limitati, ma hanno un forte impatto sulle passeggiate più frequentate dei portici del centro”. (La Stampa, 9 luglio).
Un confronto tra assessori ai servizi sociali, alla sicurezza e all’igiene urbana decide “un cambio di passo” per tutelare il centro di Torino: “Il cambio di passo è il ritorno alla task force. «Abbiamo deciso di ripristinarla: lavorare in sinergia con un giro settimanale, ogni giovedì, nelle aree dove si concentrano le maggiori criticità dal punto di vista igienico» – dice Rosatelli [assessore alle politiche sociali per Sinistra Ecologista]. «Questo gruppo è composto da una decina di persone: 4 vigili, 2 operatori sociali e 4 di Amiat», [continua Rosatelli]”. (La Stampa, 9 luglio). Se le tecniche di persuasione dell’estate non avranno sortito gli effetti sperati, in autunno si passerà a un più serio protagonismo del potere psichiatrico: “Dopo l’estate dal Comune auspicano anche un rafforzamento del protocollo d’intesa firmato con Asl qualche mese fa. Si vuole riprendere il progetto Stradoc: medici e infermieri psichiatrici in strada per intercettare meglio i clochard con problemi”. (La Stampa, 9 luglio).
ORIENTALISMO TORINESE
Proprio grazie all’ultima edizione dell’Eurovision a Torino, è possibile tracciare finalmente il confine netto tra “Oriente” e “Occidente”, tra modernità e sottosviluppo. Tra la città ordinata e il ghetto. Con l’arrivo della kermesse canora una serie di contrapposizioni conferma la patologizzazione della povertà e soprattutto la nostra superiorità di cittadini europei. Su La Stampa del 12 maggio si legge: “Mille lingue tra i bar del centro, è il momento magico di Torino. In città è tornata l’atmosfera delle Olimpiadi del 2006. Stranieri, flash mob in strada, concerti itineranti: la festa è ovunque”. Chissà quali sono le mille lingue parlate nei bar del centro dove ci si siede ai tavolini dei dehors, si paga caro e con le carte. Quello che conta è che questi sono i veri locali e il vero commercio, non “i falsi negozi di vicinato” (La Stampa, 10 ottobre 2021), ovvero i minimarket aperti da astute persone immigrate che in modo malandrino vendono alcolici, senza essere bar, a poveri e studenti. Le “mille lingue” tra i bar del centro non sono di certo quelle parlate da chi, secondo gli stessi quotidiani, staziona in corso Giulio o al ponte Mosca: arabo, bambara, cinese o pidgin nigeriano. Nulla a che vedere con le lingue parlate dai turisti nordici che vengono per l’Eurovision, gli stranieri che piacciono perché hanno i soldi.
Nell’articolo nostalgico, che rievoca i bei tempi andati, troviamo una descrizione della Torino bianca e poliglotta, senza dimenticare il piemontese: “TORINO. ʻThanks Måneskin, Eurovision in Turin…ʼ. Bisognerebbe conoscere mille lingue per non rompere le scatole a tutti quelli che se ne stanno seduti ai tavoli dei bar del centro e che possono sembrare stranieri. Il lituano forse non serve, ma lo svedese sì, il norvegese idem, e pure un’altra decina di lingue – sebbene tra quelle meno note – sarebbe stra-utile in questa Torino che oggi, 16 anni dopo, s’è riscoperta cosmopolita, poliglotta e felice. Sedici anni dopo e sembra di tornare indietro nel tempo. Soltanto che allora faceva freddo e nevicava. E meno male che era così, visto che si ‘celebravano’ le Olimpiadi invernali in bandiera tricolore e lingua piemontese” (La Stampa del 12 maggio).
Il registro diventa quasi lirico quando a essere descritti sono gli unici stranieri desiderati e desiderabili che portano in giro il loro stile, la cura dei dettagli, che possiedono addirittura moto con selle ricoperte di crine animale. La scrittura è perturbante. Leggendo di questi mondi, della passione che innerva ogni rigo di struggenti desideri sono quasi uscita dal mio corpo: “Svedese? «No Norvegese, mi chiamo Lars». Bermuda rosso mattone, calze alle caviglie. Mocassini legati, eleganti. […] Ecco, lui adesso se ne sta nella galleria Subalpina a fotografare l’architettura liberty. Tutti norvegesi i suoi amici? «No loro sono svedesi». L’olandese con moto Parigi-Dakar dalla sella ricoperta di crine animale, e posteggiata ai giardini Cavour, non è rintracciabile. […] Come le sei ragazze che parlano una lingua sconosciuta e se ne vanno su e giù per via Po: sdegnose e impossibili da fermare”.
Ragazze sdegnose e impossibili da fermare e che parlano una lingua sconosciuta. Ma cosa si può chiedere di più a Torino? Il solito. Tanti soldi, incassi, profitto. Ed ecco che la sensibilità dell’autore non trascura i commercianti, insieme al vitello tonnato: “E così va in archivio il giorno due di Eurovision. Con qualche smorfia, però. Intanto perché i bar del centro s’aspettavano di più. In particolare quelli storici. Ma vallo a spiegare a uno svedese che se non vai da Baratti o Mulassano o Fiorio mentre sei a Torino non respiri l’aria sabauda eccetera – eccetera. E poi: chi era Cavour per un lituano? […] Il resto è festa. ‘Thanks Måneskin Eurovision in Turin. Everybody wants to see Vitel tonnato with tajarin’. Domanda: come si spiega a un turista lettone cos’è il vitel tonnato?”.
Torno ai miei quartieri, Aurora e Barriera di Milano. Ancora, i giornalisti si sono soffermati sul luogo in cui “il ragazzo del machete” è stato filmato e fotografato. Questo l’incipit di un articolo del Corriere di sabato 4 giugno: “L’insegna ʻFarmaciaʼ, verde sullo sfondo bianco, è l’ultimo baluardo in lingua italiana all’imbocco del quartiere Aurora. Si trova in corso Giulio Cesare, una cinquantina di metri dopo le antiche pietre che sorreggono il ponte Mosca e segnano un confine immaginario all’interno della città”. Ultimo baluardo? Superata la farmacia Aurora, sempre su corso Giulio e dallo stesso lato di marciapiede, è possibile raggiungere dopo tre minuti a piedi un’altra farmacia. Anche qui un’insegna enorme e bianca recita in italiano: “Farmacia”. Poco più in là, appena dopo corso Novara, ci sono tante altre farmacie e su tutte è posta l’insegna “farmacia” pronta per essere riconosciuta. Noi abitanti, autoctoni e non, le riconosciamo e vi entriamo spesso. Compriamo medicine, rimedi e cerotti. Se stiamo male, parliamo le nostre lingue, non solo l’italiano; chi lavora dall’altra parte del bancone quasi sempre ci comprende. Capita a volte che ci regali qualcosa per medicarci o che ci dica che pagheremo quando avremo i soldi. Mi chiedo dove abitino gli scrittori e le scrittrici della cronaca cittadina, e di quale tipo di città si sentano parte.
LITTLE LAGOS
Il titolo dell’articolo sul Corriere è “Aurora, spaccio e degrado in una babele di lingue”. Dopo la farmacia come confine viene descritta la gente del ghetto: una persona sosta vicino a una scuola e parla al telefono: “Di fronte alla elementare Parini una giovane donna parla al telefono, colpisce il burqa che la nasconde e dal quale spuntano solo gli occhi di un nocciola intenso.” Perché è così importante in mezzo alla descrizione di un luogo definito da “spaccio e degrado” materializzare di colpo l’immagine di una donna che indossa un burqa (raro da vedere indossato da queste parti, ma utile a rafforzare stereotipi e pregiudizi)? Dopo una breve descrizione di un presunto spacciatore con la felpa dal logo arancio fluo, l’articolo continua così: “rumorosi bivacchi assediano gli ingressi dei negozietti che si susseguono con scritte in arabo, cinese e inglese: minimarket, parrucchieri, gastronomie e bar. In vetrina la pubblicità di prodotti etnici: la tavola calda Grill Turin propone un piatto kebab sotto l’immagine della Mole”.
Ovunque, nello sguardo di chi scrive, pullulano pusher e sfaccendati. Nessuna persona, qui, sembra avere una dimensione esistenziale, una vita spesso piena di difficoltà e di motivi di angoscia. I riti della quotidianità o gli spazi di socialità sono allora sintomo di disordine, sporcizia e criminalità. In altre zone si sta seduti ai tavolini, ma qui, secondo la linea del colore, si diventa subito pusher e si crea “una giungla in cui trovano posto anche gli ubriaconi di strada e le ketane per regolare uno sguardo sbagliato” (La Stampa, 4 giugno). Questo è territorio di popolazioni selvagge (a volte “etnie”, altre volte “bande” o “tribù”) in lotta tra loro o in lotta con lo stato. Scopro di vivere in una foresta tropicale, in un ambiente salgariano.
Ripenso a un articolo letto in precedenza, peculiare perché non vuole essere razzista, almeno nelle intenzioni di chi scrive, anzi propone sogni di inclusione, una città da scoprire: un reportage del Corriere della Sera del 28 marzo. É allora che scopro all’improvviso di vivere in Nigeria, anzi, di vivere come in Nigeria, più precisamente in un’enclave: “Little Lagos, dove si vive come in Nigeria. La comunità nigeriana conta 7 mila residenti regolari. È quella che cresce di più e che risiede più ʻconcentrataʼ in un’enclave che va da piazza Foroni a piazza Baldissera”. Si descrive una comunità straniera che cresce e che delinque: “Dove si è trasferita Lizzy è nata una Little Lagos, un mondo parallelo, spesso in prima pagina per lo spaccio, la criminalità organizzata e la prostituzione, che pone una sfida alla città”. Eppure esiste anche il folklore di una “spiritualità colorata e rumorosa”. E il giornalista dà il meglio di sé: “A Little Lagos la dimensione religiosa è fondamentale. Anche se variegata e multiforme. Il culto degli antenati e degli idols si mescola con un’importante presenza di chiese ʻgospelʼ pentecostali. La maggioranza si trova nelle cantine di un isolato di corso Vigevano, accanto a una palestra e un club per scambisti. È spiritualità colorata e rumorosa che vive come una talpa, con i bodyguard all’ingresso e messe di cinque ore”.
Compaiono anche la cucina nigeriana e la storia di un imprenditore che da poco è riuscito ad aprire un ristorante: “Sei mesi fa Innocente Oguike ha aperto il suo ristorante […] nella Barriera vecchia, dove la discesa dei valori immobiliari è inversamente proporzionale al senso di abbandono. […] Sembra il sosia di 50 Cent, il rapper-spacciatore che nelle sue canzoni campionava gli spari delle pistole”. Anche la descrizione del suo locale deve risultare simpatica e inquietante: “Otto tavoli con le tovagliette di carta, pareti rosse e zebrate, un menù in inglese e nessuna insegna. «L’ho chiamata [la locanda] Solar bar – racconta Oguike – perché io sono una persona solare». Difficile trovare altri motivi validi. Nel ristorante la luce del giorno non entra neanche alle due del pomeriggio. Ha sempre le saracinesche socchiuse e si mangia sotto i laser da discoteca. Il Solar Bar è una metafora perfetta di Little Lagos. Chi ha la pelle bianca è accolto con sorpresa e un po’ di preoccupazione perché i clienti sono solo africani”. I nigeriani mantengono usanze tipiche: “E neanche una forchetta. Si mangia con le mani. Bandito il vino, si ordina la birra o una bottiglia di succo di palma fermentato. «Nel mio villaggio gli anziani lo fanno zampillare dai tronchi» racconta Jude, nigeriano del Delta”.
Per un attimo possiamo viaggiare con la mente, immaginare un rassicurante villaggio d’Africa, tutto è in pace: alcuni anziani a colpi di machete fanno saltare la corteccia e offrono succo di palma al nostro stupore. (manuela cencetti)