La settimana scorsa piazza Castello è stato il punto di ritrovo di tre iniziative lanciate da movimenti con genesi, rivendicazioni e pratiche molto diverse tra loro. Ho partecipato da spettatrice, in mezzo alla folla.
LE SARDINE
Martedì 10 dicembre. Le strade che convergono su piazza Castello sono affollate, tutti vanno verso il centro. È difficile orientarsi, un quadrante è occupato dai mercatini di Natale. Il chiacchiericcio generale si mescola con una voce amplificata che presto si disperde. La piazza è piena, ma ci si muove con facilità, nonostante i tg raccontino di persone “vicine che più vicine non si può”.
Mi perdo nella folla. Tanti cartonati di sardine, selfie, sorrisi e provocazioni: «Ma come, porti tuo figlio tra le sardine?», «Alla faccia della Bestia!», «Siamo quattro gatti, neh?». Percorro tutto il perimetro della piazza e mi posiziono vicino ai cancelli di Palazzo Reale. Il palco, modesto, sta vicino al porticato che porta alla Prefettura; ai lati c’è un impianto addobbato con sardine e bandiera della pace. La voce amplificata raggiunge le prime file per poi svanire, le persone attorno a me non sembrano essere infastidite dalla mancanza di acustica, anzi parlano tra loro, sorridono e scattano foto. È importante il momento, l’esserci, più che il discorso.
La composizione della piazza non sorprende: pensionati, ceto medio genericamente di sinistra, giovanissimi, curiosi, militanti in incognito e politici alla ricerca di consenso e post su Facebook. Con leggero ritardo rispetto alla tabella di marcia inizia il presidio sulle note, a bocche serrate, di Bella Ciao per ricordare le donne a cui la voce è stata tolta. Nel fine settimana la stessa piazza ospiterà il flash mob femminista mondiale El violador eres tu. Chissà se le Sardine aderiranno.
Riesco a cogliere solo alcuni passaggi dell’intervento di apertura: «Ci dicono che abbiamo idee diverse, sono così allineati che non sanno comprendere la bellezza della contaminazione e la serietà del disordine che si mette a confronto». L’intervento si chiude con il saluto della senatrice Liliana Segre: una citazione, si scoprirà successivamente, che è una mezza fake news.
Un pallone aerostatico sovrasta il palco: “6.000 sardine Torino” con il logo ormai ufficiale, nero su bianco. Il coordinamento torinese, spontaneo ma celermente organizzatosi su scala nazionale con coordinatori territoriali e regionali, decide di lasciare la parola ai giovanissimi, strizzando l’occhio ai Fridays For Future. Sara, la più piccola a intervenire, vuole un futuro a colori e che la politica torni a dare il buon esempio alla gente, come hanno raccontato anche le sardine più anziane, con leader in grado di indicare la strada del miglioramento per tutti. Dopo le note di Fiume Sand Creek in una versione straniante, arriva l’esortazione alla libertà contro ogni forma di fascismo e discriminazione di un’altra sardina poco più che ventenne, Francesca, che da torinese ricorda con orgoglio l’abitudine sabauda di fare le cose con rispetto alzando la voce solo se costretti. Torino che è bellezza, lavoro, innovazione, scoperta e coraggio.
Sono proprio queste le motivazioni per cui inizialmente era stata richiesta per la manifestazione la piazza davanti al mercato ittico di Porta Palazzo, quartiere in “rigenerazione”. Non sembra affiorare alcuna riflessione su quanto stia costando questo cambio di look agli stessi “deboli” a cui si riferiscono gli interventi dal palco. L’immancabile La Storia siamo noiintroduce Mattia, sempre giovanissimo, che si concentra sulle convergenze di questa piazza eterogenea. Crede «nei valori sociali, nei principi del vivere comune, principi che non possono essere connotati come di destra o di sinistra, ma che devono far parte di una politica in cui ognuno possa tornare a riconoscersi e a cui ognuno dovrebbe aspirare». La richiesta è il ritorno della politica fedele alla Costituzione, quella con la P maiuscola ricordando alla piazza, con le parole di Nelson Mandela, «che ogni cosa sembra impossibile finché non è realizzata».
Il simbolico diventa azione quando nella piazza inizia lo scambio di libri contro odio, ignoranza e razzismo. L’onda comincia dal palco e poi si diffonde tra la folla, nonostante il messaggio si mantenga sempre su linee generali. Forse la genesi di un movimento dal basso, come viene definito in qualche intervento, passa anche dalla capacità di generalizzare su grandi questioni per attivare il maggior numero di persone possibili. In questo senso unirsi contro razzismi e discriminazioni, per libertà, uguaglianza e politica seria è una formula pigliatutto. Giorgio ricorda come fino a qualche mese fa le mobilitazioni contro il signor S. raccoglievano poche decine di persone circondate dalla polizia, mentre adesso le cose sembrano cambiate. La polizia sorveglia la manifestazione dalle balconate del palazzo della Regione.
L’unica istituzione a intervenire è la chiesa, con il carismatico Fredo Olivero. Una presenza importante, da parte di chi in questa città si è impegnato in prima persona per gestire, per esempio, la liberazione dell’Ex Moi smistando i suoi abitanti in strutture disseminate in tutta la regione. Immancabile è la testimonianza di Ayoub, migrante impegnato nel sociale. Tra la folla intanto spuntano sardine colorate di rosso che entrano nel dettaglio delle rivendicazioni: abrogazione del decreto sicurezza, del Jobs Act e della legge Fornero. Il quorum delle mobilitazioni torinesi gentili pare sia stato raggiunto: dal palco s’annuncia che «siamo quarantamila», dato che verrà confermato all’unisono dai mezzi stampa che nelle ultime settimane hanno coperto tutti le fasi della mobilitazione.
Un’ora è già passata quando le sardine iniziano a disperdersi, complici il freddo, e l’acustica che fa partire in differita applausi e slogan. Prima però c’è il gran finale con l’inno di Mameli. Qualcuno parla dell’imminente confronto televisivo tra Rizzo e Santori, il portavoce nazionale delle sardine; una ragazza mi chiede se per caso ho con me un sacco per raccogliere la spazzatura: la piazza bisogna lasciarla pulita come l’abbiamo trovata.
GRETA CON I FRIDAYS
Venerdì 13 dicembre. Nella prima mattinata nevica, c’è chi dice sia un segno per l’arrivo di Greta Thunberg in città, presente al consueto sciopero settimanale per l’ambiente assieme agli attivisti torinesi di Fridays for Future. L’annuncio è arrivato a sorpresa, a ridosso della data diventata happening in poche ore: la prima volta dell’attivista svedese in Italia sarà nella sua città più inquinata. Per la politica cittadina e regionale, nonostante le recenti dichiarazioni negazioniste di quest’ultima sull’emergenza climatica, la visita sarà un’occasione per ascoltare il messaggio di Greta, percepito ormai come messianico, e lavorare conseguentemente a provvedimenti più incisivi sulla questione. Sulla balconata di Palazzo Civico per l’occasione è appeso un banner verde: Welcome to Turin, Greta.
Alle 14:30 la piazza inizia a riempirsi di giovanissimi, militanti, politici, curiosi e giornalisti. I Fridays per questa settimana, la cinquantesima, hanno optato per un presidio statico con palco e impianto recuperati nelle ultime ore, grazie al supporto dei centri sociali della città. Il risultato è decisamente più efficace di quanto visto nello stesso angolo della piazza tre giorni prima.
L’arrivo di Greta concede al movimento una copertura mediatica che non si vedeva da mesi, da quando lo stesso è entrato in una fase più consapevole e critica nei confronti dei responsabili del cambiamento climatico: istituzioni e multinazionali per semplificare; da quando alcune posizioni sono diventate più nette e meno digeribili dalla narrazione ingenua che i media hanno imposto al movimento da subito.
La presenza dei giornalisti è impressionante. Greta accompagnata costantemente dai Fridays sabaudi partecipa a una breve conferenza stampa sotto il palco. Le prime file sono una ressa, tutti si sbracciano per uno scatto, i giornalisti lanciano istericamente i microfoni agli organizzatori per arrivare al tavolo attorno a cui sono seduti i ragazzi. Per fortuna per i Fridays, questa tortura è breve, e poco dopo si preparano a salire sul palco, addobbato nei suoi quattro angoli con le bandiere del movimento. Si decide di non fare intervenire l’ospite subito ma di lasciare spazio agli interventi degli attivisti locali.
L’iniziale e più generico “Cambiano il sistema, non il pianeta” si declina ora in critiche mirate alle multinazionali, in un ottimo vademecum di tutti i crimini di Eni e nella spiegazione della connivenza da parte del governo italiano; per i mezzi di informazione e per i governi nazionali e internazionali la richiesta è arrabbiata: iniziare a dire la verità sui disastri ambientali, su conseguenze e colpevoli, e prendere atto del carattere autoassolutorio e insufficiente delle politiche attuate finora. La sferzata va anche al pubblico esortandolo a un’attivazione coerente, capillare e costante.
Arriva poi il momento che tutti stavamo aspettando, e Greta sale sul palco con la sua iconica mise in impermeabile giallo. In una frazione di secondo la piazza cambia attitudine: i telefonini si alzano verso il cielo, ci si pesta i piedi per vedere un briciolo di palco in più; in tanti urlano nervosamente: «Voce! Voce!», e ancora ossessivamente: «Non si sente! Shhhh», quasi a diventare dei cori.
L’immagine che ho davanti è violenta, empatizzo con la ragazza in giallo sul palco, visibilmente a disagio, che ha il peso di una narrazione mondiale sulle spalle. L’intervento, conciso, è disturbato dall’isteria generale: «Voce!», «Non si sente!»; applausi, «Shhh»; applausi, «Microfono!».
Il discorso non è fondamentale come l’esserci, ancora. Ci si aspetta qualcosa di rivelatore, che lo possa essere di più degli interventi precedenti in questa occasione è difficile, ma anche se questo accadesse sicuramente non si sentirebbe. «Greta! Greta! Greta!». Oggi i presenti sono cinquemila, solitamente agli scioperi del venerdì sono duecento. Senza interferenze è solo la chiusura: «Are you with me?». «Yes!»
Finito il discorso, subito dopo la foto rivolta verso la piazza con attivisti e cartello “Sciopero per il clima”, Greta riparte verso altre città, verso altri bagni di folla, prima di tornare a casa dove dichiara si prenderà cura di sé per qualche settimana.
IL FLASH MOB TRANS-FEMMINISTA
Domenica 15 dicembre. Alle 15 la piazza è invasa dal flash mob trans-femminista mondiale El violador eres tu, “il violentatore sei tu”. Una performance collettiva imperfetta e potente, parole chiare che superano i problemi di amplificazione precedenti con la sola voce delle partecipanti.
La capacità generale di ascolto e attenzione è notevole, in questo caso quello che conta è il discorso, ogni frase uno schiaffo a patriarcato e violenze di genere, versi e passi passepartout diffusi in tutto il mondo partendo dall’America Latina. “El patriarcado es un juez, que nos juzga por nacer y nuestro castigo es la violencia que no ves”; e ancora: “Y la culpa no era mía, ni dónde estaba, ni cómo vestía. El violador eras tú. El violador eres tú”.
La potenza dell’immagine supera le precedenti, le persone posizionate a scacchiera nella piazza, bendate con della stoffa nera sugli occhi con al collo l’immancabile paňuelo fucsia, si muovono a ritmo scandendo con forza e ad alta voce il testo. Al termine vengono accesi fumogeni viola mentre la piazza s’abbraccia lanciando il coro: «Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce!». A terra, vicino allo striscione “Non una di Meno” si intravedono la bandiera cilena e quella del popolo Mapuche.
Nelle edizioni locali delle grandi testate, le stesse che nelle settimane precedenti hanno coperto a tappeto le mosse delle Sardine e nel fine settimana quelle di Greta, dell’iniziativa non c’è traccia. Alla forza impetuosa della sorellanza sono preferiti gli approfondimenti sul preoccupante fenomeno di vandalismo notturno ai danni dei nuovi sharing monopattini. (ilaria magariello)
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