È di questi giorni la notizia che la Torre Galfa, il più antico grattacielo di Milano, verrà gestita dall’operatore Halldis, che affitterà sessantatré appartamenti esclusivi all’interno della torre per periodi brevi, attraverso la piattaforma Airbnb. Pubblichiamo a seguire un articolo di Gloria Pessina, comparso sul n.1 (ottobre 2018) della rivista Lo stato delle città, che trattava anche della Torre Galfa tra le tante proprietà acquisite da Salvatore Ligresti tramite le proprie società. L’articolo metteva in luce le relazioni tra dismissione di immobili per uffici periferici, speculazioni nelle aree centrali e azioni di lotta per la casa da parte di abitanti sfrattati e in attesa di un’abitazione.
Anche di questo si parlerà domenica 16 febbraio a Milano, in occasione della presentazione del numero 3 de Lo stato delle città. Durante l’incontro pubblico organizzato presso lo Spazio Ligera (via Padova, 133) si discuterà in particolare di esclusione abitativa e strumenti di analisi e di lotta.
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“Milano, gli attivisti di ‘Aldo dice 26×1’ occupano la torre Ligresti”, titola La Repubblica del 5 settembre 2018. “Gli sgomberati di Sesto San Giovanni occupano Torre Ligresti”, fa eco Il Giornale, spostando l’accento sull’azione delle forze dell’ordine nella ex Stalingrado d’Italia. Nel giro di poche ore il fatto viene ripreso dai principali mezzi d’informazione e in tutta Italia si viene a conoscenza delle oltre cinquanta famiglie che dal 2014, con il sostegno di Unione Inquilini e Clochard alla Riscossa, trovano sistemazione temporanea in edifici dismessi o mai utilizzati a Milano e dintorni.
Sfrattati per morosità incolpevole dalle loro abitazioni, i nuclei familiari di Aldo dice 26×1, in prevalenza stranieri, sono in lista per l’assegnazione di una casa popolare. Nell’attesa, animano un “residence sociale” informale. L’amministrazione meneghina lo sa, apprezza l’esperienza, ma non condivide la prassi delle occupazioni – sei nel giro di quattro anni, di cui tre tra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Il collettivo, che prende il nome da una frase in codice usata dai partigiani in tempo di guerra, nel 2014 occupò un edificio dismesso a Sesto San Giovanni, a nord di Milano. Sfrattati dopo poco più di un mese, si stabilirono in un palazzo dell’Alitalia nelle vicinanze, vuoto. Da lì nel 2016 le famiglie si spostarono a Milano, zona Corvetto, in uno studentato finito ma mai collaudato. Fino all’ultima settimana di agosto 2018, quando si sono mossi verso un altro quartiere di Milano, poi di nuovo verso Sesto San Giovanni, per approdare infine alla Torre Ligresti.
Per chi conosce poco Milano la Torre Ligresti non sarà poi molto diversa da uno dei tanti edifici apparsi in città negli ultimi anni o ancora da finire: Torre Hadid, Torre Isozaki, Torre Libeskind, Torre Generali, Torre Unicredit, Torre Diamante, Torre Unipol… Per chi invece Milano la frequenta almeno dagli anni Ottanta, la Torre Ligresti evoca un’immagine molto chiara e un dubbio: quale tra le tante? Edifici piuttosto alti, tra i dieci e i venti piani, non proprio slanciati, interamente ricoperti da vetri specchiati tendenti all’azzurro o più spesso al marrone. Torri mai sole, sempre a grappoli di tre, cinque, sette, a volte anche otto, spesso ai margini della città, o meglio ai suoi ingressi. Queste sono le torri per uffici costruite dall’ingegnere di Paternò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta a Milano e che gli valsero, già dal 1985, il titolo di “re del mattone”.
ALLE PORTE DELLA CITTÀ
Alcuni degli articoli sull’occupazione aggiungono un dettaglio importante: il gruppo di famiglie di Aldo dice 26×1 si è spostato nella Torre 3 del complesso di via Val Formazza, dalle parti di via Stephenson, in zona Expo. Riesco ad andarci solo il sabato successivo all’occupazione, alle sei del pomeriggio. Per arrivare carico la bici sul Passante ferroviario alla stazione Garibaldi: Lancetti, Villapizzone, Certosa, tre fermate e dopo neanche venti minuti scendo dal treno dalle parti di Quarto Oggiaro. Pedalo tra le case di via Mambretti verso l’ospedale Sacco e appena posso giro sulla sinistra per infilarmi nel passaggio buio sotto l’ingresso in città dell’autostrada dei laghi.
Quando esco dall’altro lato, la luce mi sembra molto più forte di prima, diversa dai soliti tramonti di Milano. Il sole illumina una distesa di binari e qualche treno fermo, carico di cumuli di pietre. Mentre mi lascio alle spalle il sottopassaggio mi abituo a un silenzio surreale, che sostituisce in fretta il rumore delle macchine sull’autostrada. Supero un lungo edificio argentato per la vendita all’ingrosso di moquette, una concessionaria di auto di lusso e un hotel. All’improvviso c’è una pista ciclabile nuova di zecca, eredità di Expo, che si srotola tra capannoni abbandonati e macerie. La lascio nel punto in cui scende sotto i binari e va verso quel che resta dell’Esposizione Universale, mentre alla mia destra sento di nuovo un brusio d’auto. Lo seguo fino a trovarmi a pochi metri dal punto in cui l’autostrada dei laghi forma un groviglio d’asfalto con la Torino-Venezia. Finalmente incontro qualcuno! C’è una famiglia rom intorno a una roulotte bianca. Appena mi avvicino gli adulti si allontanano, mentre i figli continuano a giocare per strada. Chiedo se hanno visto altri bambini e ragazzi lì vicino, dovrebbero essercene molti tra gli occupanti di Aldo dice 26×1. Indicano qualcosa alle loro spalle, senza parlare per non interrompere il gioco: ecco le torri, coperte da una fila di alberi forse pensata per proteggerle dall’autostrada.
Proseguo per cercare l’ingresso: la prima torre è diventata un hotel con ristorante ai tempi di Expo, ma ora non sembra molto frequentata. Alle sue spalle, quasi in fila indiana, ne compaiono altre due. Le tre torri sono collegate tra loro da una struttura in cemento all’altezza del secondo piano, una terrazza forse. Un unico cancello racchiude lo spazio aperto alla base delle torri. C’è una porta accostata e, poco oltre, una donna seduta su un muretto. Sembra stanca, mi fa segno di entrare. «Aldo dice…? Sì, ma io non parlo bene l’italiano, vai da Laura». Si sentono le urla di ragazzini che giocano a calcio tra i pilastri della torre, dove sono accatastati materassi e scatole. Una ragazza ferma la palla per un istante: «È dentro Laura!», e subito ricomincia la partita. La trovo, le suona il telefono in continuazione, ripete il numero delle famiglie. Non ha molta voglia di mettersi a raccontare un’altra volta la loro storia. Mi dice solo che lì i proprietari non hanno mai staccato l’acqua e la luce anche se la torre, che ha più di vent’anni, non è mai stata usata. C’è pure un giardiniere che taglia l’erba regolarmente e un custode che fa la guardia alle torri, ma Aldo dice 26×1 si è già proposto come “custode sociale”: «Così la proprietà risparmia pure!».
Due uomini ci passano davanti trasportando stoviglie e attrezzi vari da ferramenta, uno di loro prova a spiegarmi: «Ma sì, continuavano a tenere tutto in funzione per poter prendere i finanziamenti dalle banche. Come si dice? Fanno parte del tesoretto di Fondiaria queste torri, roba di Ligresti…». L’altro aggiunge: «Sì, magari con queste riescono pure a pagarsi i lavori della Torre Galfa…», ma il primo lo interrompe e mi chiede: «Domani non ce le hai un paio d’ore libere per aiutarci a fare il trasloco da via Oglio? Zona Corvetto. Abbiamo ancora un sacco di roba là e ci hanno dato il permesso di svuotare tutto tra le otto di mattina e le otto di sera. Vieni?».
Ci andrò. Mi rimetto a pedalare e passo davanti ad altre due torri identiche, vuote, circondate da un cancello che le separa da una fila di almeno venti roulotte. Forse è il gruppo di rom che è stato sgomberato il giorno prima in un’altra zona ai margini di Milano, chissà se resteranno qui pure loro o se si sposteranno altrove. È quasi buio quando mi lascio alle spalle via Stephenson e dintorni, la futura “Défense milanese”, come la definì nel 2008 l’allora assessore allo sviluppo del territorio del comune di Milano. Attraverso il sottopassaggio e continuo a pedalare fino a casa nel traffico impazzito del sabato sera.
IL RE DEL MATTONE
Cerco qualche notizia sulle torri di Ligresti, ne ho lette tante in questi anni, sui giornali, su qualche vecchio libro di urbanistica dell’università, nei comunicati dei collettivi che hanno occupato edifici di proprietà di “mister cinque per cento”. Morto lo scorso maggio all’età di ottantasei anni, Salvatore Ligresti veniva soprannominato così per la propensione a partecipare con percentuali molto basse alle attività di una moltitudine di società e banche, la stessa inclinazione che lo spingeva a comprare lotti di terreno sparsi, anche di piccole dimensioni e spesso di poco valore, ma sempre in posizioni strategiche della città.
Queste cose a Milano le sanno tutti, non vale la pena scriverle. E poi a ricostruire i fatti si perde solo tempo, a Milano è il futuro che conta. Però ancora non ho capito cosa c’entra la torre occupata da Aldo dice 26×1 in periferia con la centralissima Torre Galfa, adesso in ristrutturazione per diventare un albergo di lusso. Non riesco a dormire, tanto vale leggere.
Attivo a Milano dall’inizio degli anni Sessanta, Ligresti inizia presto a lavorare per Michelangelo Virgillito, allora proprietario di Liquigas, società chimica specializzata nella produzione di Gpl. A intercedere per il giovane ingegnere appena arrivato a Milano è Antonino La Russa, a quei tempi direttore generale della società. Tutti e tre provengono da Paternò, in provincia di Catania. Nel ’76 le attività di Liquigas e delle varie società controllate dall’azienda passano a Raffele Ursini, delfino di Virgillito, ma nel giro di meno di un anno una di queste, la Società Assicuratrice Industriale (SAI), passa a Ligresti e con questa l’ingegnere ottiene anche il controllo di un’attività industriale di produzione di ceramiche. L’industria è la Pozzi-Ginori, esito di una fusione avvenuta nel ’75 tra la Pozzi e la Società Ceramica Italiana Richard-Ginori, ceduta nel ’73 a Ursini da Sindona, che la controllava dal ’70 attraverso la sua Finanziaria Sviluppo.
A partire dal momento in cui Ligresti controlla SAI e la Pozzi-Ginori inizia una nuova epoca per Milano. E qui entra in gioco l’urbanistica.
Sono gli anni in cui viene discusso il nuovo piano regolatore. Al governo della città c’è la giunta socialista guidata dal sindaco Tognoli. Nonostante le attività industriali stiano manifestando già da qualche anno segnali di crisi, la giunta, dopo vari confronti con i sindacati, conferma la destinazione industriale delle aree occupate dalle fabbriche (millesettecento ettari) e aggiunge altri centosessanta ettari per attività produttive, dichiarando di voler così tutelare la componente operaia della città. Il piano, nella sua prima versione, prevede anche che il venti per cento dell’edificabilità prevista nelle aree industriali possa essere destinato ad attività terziarie strettamente legate all’attività produttiva, ma già nel ’78, quando il Comune approva il piano, le cifre cambiano. Nelle aree classificate come industriali si passa dal venti al cinquanta per cento di edificabilità da destinare a terziario. Di questa quota il trenta per cento può essere destinato a terziario non direttamente collegato con l’attività produttiva principale. Quindi?
Secondo Federico Oliva, urbanista recentemente scomparso, il nuovo piano avrebbe innescato “la proliferazione di mini-centri direzionali all’interno di molte aree industriali più o meno dismesse, torri di vetro in mezzo alle fabbriche abbandonate […] come nel caso della Richard-Ginori lungo via Ludovico il Moro e via Morimondo, delle Cartiere di Verona in via dei Missaglia, dei vecchi insediamenti industriali lungo via Cavriana, nella zona di viale Forlanini e di via Stephenson, all’ingresso in città delle Autostrade Nord”. Ecco le famose torri di Ligresti sparse per la città, tra cui c’è anche quella ora occupata da Aldo dice 26×1.
Nel corso degli anni diventerà evidente, continua Oliva, che la bassa “qualità edilizia di questi insediamenti terziari (quasi un milione di metri quadrati di superficie utile), la loro localizzazione casuale, la loro scarsa accessibilità soprattutto da un trasporto collettivo adeguato” saranno tra le cause dell’insuccesso di queste torri, che spesso resteranno inutilizzate.
Nel 1985, proprio nel momento in cui scoppia lo scandalo per alcune aree agricole di proprietà di Ligresti su cui il Comune avrebbe dovuto edificare nuovi quartieri di case popolari, l’ingegnere viene incoronato dalla stampa come il “re del mattone”. Franco Stefanoni nel libro Le mani su Milano. Gli oligarchi del cemento da Ligresti all’Expo (2014) scrive di quegli anni: “A Milano ormai il mattone lo vede come assoluto protagonista: l’ottanta per cento del nuovo terziario è opera sua, ha in corso lavori per due milioni e trecentomila metri cubi; i cantieri aperti in città targati Ligresti sono trentasei così come sue risultano dodici delle ventitré imprese edili attive sul territorio. A fidarsi di lui sono soprattutto investitori come i fondi pensione delle banche e gli enti previdenziali privati, che comprano un po’ ovunque. Se poi certe strutture rimangono invendute e vuote per anni, a volte per decenni, non importa: fanno da garanzia per costruirne altre”.
E così andrà per le torri di via Stephenson, e per molte altre sparse per Milano. Intanto l’impero immobiliare di Ligresti si estende, così come l’attività imprenditoriale, che si diversifica, nonostante le condanne per lottizzazione abusiva dell’87 e per abuso urbanistico e interessi privati in atti d’ufficio dell’89, seguite dal sequestro di vari edifici già conclusi o ancora in costruzione.
Nel ’92 Ligresti viene arrestato nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite per corruzione aggravata e continuata in concorso, ossia per tangenti sui lavori della metropolitana milanese. Milano diventa Tangentopoli, per usare il neologismo introdotto dal giornalista Piero Colaprico. In seguito a un secondo mandato di arresto per tangenti legate all’attività della compagnia assicurativa, nel ’96 Ligresti perde il requisito di onorabilità necessario per dirigere le sue società e al suo posto subentrano i tre figli.
Sono gli anni in cui prendono forma a Milano due grandi progetti urbanistici che avrebbero cambiato il volto della città: la trasformazione dell’area della Fiera Campionaria, che sarebbe stata trasferita fuori Milano e la creazione di un centro direzionale tra la stazione Garibaldi e piazza della Repubblica. I progetti sono visti con entusiasmo dall’amministrazione e da vari investitori, mentre molti abitanti e tecnici, che ne valutano l’impatto sociale e ambientale, esprimono preoccupazione, in particolare nei quartieri della Fiera e dell’Isola. Dal 2001 inizia una stagione di conflitti che incrocia i percorsi di alcune esperienze politiche di occupazione come Pergola, Metropolix, Bulk, tra Isola e Garibaldi, in dialogo con gruppi attivi in altre parti della città come Cascina Autogestita Torchiera SenzAcqua. All’Isola, dove dovrebbe sorgere parte del progetto del nuovo centro direzionale di Garibaldi-Repubblica, viene occupata la ex fabbrica Brown Boveri e nasce la Stecca degli Artigiani.
Il 2004 è l’anno della svolta: la Fiera Campionaria viene trasferita a Rho-Pero e al suo posto parte un grande progetto di trasformazione in quartiere residenziale di lusso, promosso da Citylife, un consorzio formato da diverse società di assicurazioni tra cui la Progestim Spa del gruppo Ligresti. Nello stesso anno vengono riuniti quasi tutti i proprietari dei lotti di terreno del futuro centro direzionale di Garibaldi-Repubblica, tra cui figura anche il gruppo Ligresti, che oltre al compenso economico richiede la garanzia di essere coinvolto nello sviluppo dell’intero progetto, diventando in seguito azionista di Hines, il gruppo texano che avrebbe poi guidato la trasformazione.
Nella frenesia di quei mesi i progetti corrono e chi si vuole opporre deve fare in fretta. Qualcuno, attivo tra l’università e le lotte in città, invita a rallentare per capire come agire meglio, ma gli eventi vanno più veloci di ogni possibile riflessione. Nel 2006, mentre le proteste contro il progetto di Garibaldi-Repubblica raggiungono il momento più intenso, Fondiaria Sai (gruppo Ligresti) rileva dalla Banca Popolare di Milano la Torre Galfa, edificio per uffici costruito negli anni Cinquanta nei pressi della stazione centrale.
Le trasformazioni urbanistiche procedono, senza lasciare ulteriore spazio alle proteste di chi immaginava un modello diverso di città. Mentre cresce il Bosco Verticale, la Stecca degli Artigiani viene demolita, la Torre Galfa resta vuota per anni e il Palazzo Milano Assicurazioni (gruppo Fondiaria Sai) in costruzione all’Isola (Garibaldi-Repubblica) non viene completato a causa del fallimento di buona parte delle società del gruppo Ligresti nel 2012.
A maggio dello stesso anno la Torre Galfa viene occupata da un folto gruppo di artisti e attivisti raggruppati sotto il nome di Macao. L’occupazione dura dieci giorni e segue di un paio di mesi quella di uno spazio nel quartiere Isola, Piano Terra, animato dal collettivo Off Topic. C’è una nuova ventata di attivismo in vista di Expo 2015. A maggio 2013 Off Topic organizza un’azione di protesta presso il cantiere del Palazzo Milano Assicurazioni. È l’occasione per criticare gli effetti di una politica di sviluppo della città che ha lasciato solo debiti e cemento, gli stessi che resteranno dopo Expo secondo gli attivisti.
Il 17 luglio 2013 Salvatore Ligresti e i tre figli vengono arrestati per “falso in bilancio aggravato, pesante nocumento e manipolazione del mercato” in seguito a un’indagine della Procura di Torino. Nel 2014 Unipol rileva le attività e le proprietà di Fondiaria Sai dando vita a UnipolSai, la seconda compagnia assicurativa d’Italia. Nasce il progetto Unipol UP per la gestione degli immobili ereditati dal gruppo Ligresti: inizia la valorizzazione di edifici centrali come la Torre Galfa, la Torre Velasca e l’ex Palazzo Milano Assicurazioni, mai completato.
Il primo maggio 2015 inizia Expo e il 27 giugno c’è un “blitz di protesta sulle torri di Ligresti” organizzato dal centro sociale Cantiere e dal sindacato inquilini Asia. Si tratta proprio delle torri di via Stephenson e dintorni, le più vicine a Expo, centoventimila metri cubi distribuiti tra quattro edifici sfitti. Gli attivisti dichiarano a Repubblica: “Dal 2013 le richieste di sfratto sono aumentate del quindici per cento, […] a Milano ci sono ventitremila nuclei familiari in lista d’attesa per la casa popolare. Le nostre città sono disseminate di edifici sfitti abbandonati, a Milano possiamo individuare oltre ottantamila appartamenti vuoti, e si stima che nel 2018 solo in Lombardia ci saranno quattrocentomila nuovi alloggi invenduti”.
Anche le torri fanno parte dell’eredità del gruppo Ligresti passata a UnipolSai e probabilmente si riferisce proprio a queste Paola Dezza quando descrive sul Sole 24 Ore il nuovo orientamento della compagnia di assicurazioni: “Della strategia fa parte anche la decisione di razionalizzare il portafoglio, dismettendo asset che rendono meno del tre per cento. Si tratta […] di un pacchetto da cinquecento milioni di euro, composto per il quarantacinque per cento da asset localizzati a Milano e per un altro quarantacinque per cento da immobili dislocati tra Bologna, Torino, Firenze e Roma. Asset a uso misto, anche se la parte del leone la fanno uffici e residenze […]. Ingente è il patrimonio ereditato e da riqualificare nella speranza che il mercato immobiliare si riprenda e la domanda torni vivace anche fuori dal centro”. Secondo i dati del 2016 di JLL, la rete internazionale di consulenti immobiliari, a Milano il tasso di uffici sfitti è in diminuzione: sono trecentododici mila i metri quadrati di superficie per uffici non utilizzata.
Basta, mi fa male la testa. Troppe date, troppi numeri, troppi palazzi vuoti, troppe persone senza casa, troppa impotenza. Meglio andare a dare una mano a spostare le scatole e i mobili che sono rimasti nello studentato di via Oglio, dove stava Aldo dice 26×1 fino a qualche giorno fa.
IL TRASLOCO
«Gloria al bravo pueblo!», mi canta Carlito rompendo in una risata che risuona per tutta la rampa delle scale. «È l’inno del mio paese, il Venezuela, lo sapevi?». Lo aiuto a trasportare scatole e oggetti vari che erano rimasti al secondo piano dello studentato occupato fino a pochi giorni prima. Rispondo cantandogli Go, move, shift, che non è l’inno di nessuno, è solo una canzone di Christy Moore dedicata ai traveller, gli “zingari d’Irlanda” come li chiama qualcuno. La cantano i cori vicini alle lotte per la casa nel Regno Unito in questi anni.
Enrico ci sta aspettando sotto, non si sa come è riuscito a tirare fuori dal salone al piano terra il pianoforte che usavano per le serate del “social club” di Aldo dice 26×1. Era pesantissimo.
Rahma non sta ferma un secondo, domani è il primo giorno di scuola, andrà in prima media in Bovisa, non vede l’ora di conoscere i suoi nuovi compagni. «Qui sono tutti musicisti, anch’io voglio diventare musicista. Oppure fotografa, va bene anche quello», e prende la macchina fotografica di Andrea, che tra un’ora deve andare a scattare per un quotidiano e non sa dove si farà la doccia. «Se la mia ex mi apre la porta, la faccio da lei». Poi dopo il lavoro andrà a prendere i figli, che staranno un po’ anche con lui.
Mohammed vorrebbe trasportare i pesi che sta portando Manuelito ma è troppo piccolo, la sorella gli dice di levarsi di torno che dà solo fastidio. La mamma invece conta le scatole chiuse per essere sicura di non aver dimenticato niente. Arrivano con un furgone da caricare anche Laura e Wainer, le anime di Aldo dice 26×1. Wainer, fondatore di Clochard alla riscossa, mi spiega che Aldo dice 26×1 occupa spazi abbandonati finché la proprietà non ha intenzione di farci qualcosa. «Siamo un progetto di residence sociale di tipo risolutivo, cioè dialoghiamo con l’amministrazione. Queste sono famiglie sfrattate per morosità incolpevole e sono in lista per l’assegnazione di una casa popolare. Non sono famiglie che vogliono occupare per tutta la vita, anzi se riescono ad avere una casa decente in tempi brevi siamo solo contenti tutti quanti». Oltre alle strutture di accoglienza temporanea previste dal comune di Milano e spesso gestite da cooperative, associazioni o enti religiosi convenzionati, Aldo dice 26×1 è una delle poche “esperienze abitative di movimento” nate a Milano dopo l’ondata di sgomberi dei primi anni Duemila, come raccontano Jacopo Lareno e Alice Ranzini all’interno del libro For rent, esito di una ricerca universitaria sull’alloggio in affitto a Milano. Cerco di ricordarmi quali siano le altre, Spazio di Mutuo Soccorso, Spazio “Noi ci siamo! con Abd del Salam”, Casa Loca, ma arriva Manuelito di corsa: «Venti euro per le birre! Offre Teresa, poi le diamo una mano a portare su le scatole nella torre. Dai che abbiamo quasi finito e appena è sistemato tutto torna il social club!». Quando torno a casa andrò a leggere qualche altro dato, ma ora non c’è altro da fare che bersi una birra tutti insieme tra scatole, mobili e strumenti musicali. (gloria pessina)