Corrono questi anni come cani. Corrono come gli anni dei cani, come anni da cani. E mordono, lacerano tutto ciò che trovano; e sfiniscono con il loro latrare, mostrando i denti. Avevo iniziato questi appunti in ottobre, quando la situazione era, fa ridere dirlo, molto più serena di oggi. Il titolo sotto cui li avevo posti era: Normalità. Scrivevo: eccola qui la nuova normalità. Quella in cui il governo dichiara che devi tornare a lavorare, che la pacchia del telelavoro è finita; e allo stesso tempo dice che l’emergenza non è finita affatto, e quindi per andarci, al lavoro, ti serve il Green Pass. Normalità: un pezzo di società va avanti, costretta e poi via via abituata a mostrare il codice qui e là, quando capita. Alcuni lo fanno con fastidio; ma c’è anche chi lo fa con orgoglio, con un senso di adesione a valori superiori.
Un altro pezzo della società invece, e mica insignificante, mica piccolo, rimane coi piedi impantanati nel fango. La sua vita è un percorso da giochi di guerra. E siamo solo a ottobre, mica a dicembre, quando arriverà il Superpass. Hai fatto il tampone, a che ora? Alle 9:00 di martedì? Allora per mercoledì sei a posto, sei come un cittadino qualsiasi di un paese in cui vigono, bah, le libertà civili, ma giovedì devi marcare il cartellino del lavoro entro le 8:40, per stare sul sicuro, almeno finché il governo concede di avere il Green Pass valido anche solo al momento dell’entrata in servizio. Bontà sua, eh, per fortuna mica solo a Stoccolma gli aguzzini sono generosi. Il venerdì son cazzi, se non hai prenotato un tampone per tempo. Nella tua routine i ritardi dei mezzi, la panne della macchina, gli imprevisti d’ogni sorta non sono ammissibili. Hai figli piccoli che urlano e ti fan perdere la corsa delle 7:40? Hanno il raffreddore e devi aspettare chi li badi prima di andare al lavoro? Ricazzi tuoi, non dovevi prenderti tanta libertà, peraltro formalmente concessa.
E poi ci sono le prenotazioni. Li hai prenotati i tamponi fino a Natale? E per dopo? Mica crederai che la fanno finita con il 31 dicembre… figurarsi se tutta quest’emergenza sfavilla via nel rogo del vecchione. Così si sapeva già a ottobre. Dottoressa, l’ha aperta già l’agenda del ventidue, per i tamponi? Non ancora? Ah cacchio, ora chi ci fa i conti con l’ansia? Quasi quasi mi faccio sospendere, pensa chi può permetterselo, cioè chi ha un posto davvero fisso; ma poi anche così, da abbastanza garantiti, come si fa a farlo, se non sai quando finirà tutto questo? C’è una vecchissima vignetta di Altan in cui si leggeva, vado a memoria: “Altro che Gulag, qui in occidente andiamo dove ci pare”. A dirlo era un operaio gravato dagli anni di lavoro, con un basco inelegante calcato in testa, senza grazia. In mano aveva un volante; ma un volante da solo, senza l’automobile attaccata. Altro che Gulag, qui andiamo dove ci pare, basta potersi comprare la libertà di farlo, o avere il certificato giusto.
Un’immagine, vignetta o commento da bar che sia, che va invece per la maggiore ora, è quella del non vaccinato che si lamenta del tampone, del fastidio al naso oppure dell’attesa fuori dalla farmacia. Comunque la si presenti, anche ben impacchettata, questa storiella è aggressiva e conformista, aggressiva in quel modo che solo il conformismo sa fare. Quella del tamponato è una vita pressata, costretta, ingabbiata tra i meccanismi a orologeria dell’infame certificato, che vanno ad aggiungersi a quelli che già prima tutti ci sovrastavano nel gioioso impero del capitalismo realizzato, che già prima ci ammalavano, di cuore e di testa e di pancia e di disperazione. E questo, tutto questo, me lo dicevo a ottobre, poi all’inizio di novembre, cioè negli ultimi giorni di un regno che pare, se lo riguardo nello specchietto, colmo di libertà sopraffina, ultimi attimi di un tempo che al confronto di oggi sembrano di concordia, di lupi e agnelli che giacciono insieme sorridenti nei cestoni dei peluche dell’Ikea, ognuno con il suo QR Code ben cucito addosso da una lavoratrice con gli occhi stanchi, da qualche parte del sudest asiatico.
NORMALE O SUPER?
Poi si annuncia il Supergreenpass, e passa anche la voglia di raccontarlo. Le prenotazioni dei tamponi raddoppiano, fioriscono come i pruni in un’ingannevole primavera; le farmacie aprono le agende del nuovo anno, e in pochi giorni sono già usurate e ciancicate come se fossimo a dicembre sì ma ventidue; anzi a ottobre del ventidue, chissà perché questa data mi dice qualcosa, boh. “I can’t forget – cantava Leonard, l’indimenticabile Leonard –. I can’t forget, but I don’t remember what”. Qui funziona invece che dobbiamo ricordare, ci viene ripetuto a ogni anniversario utile, ma non possiamo volgere al presente ciò che ricordiamo, un po’ come Cassandre al contrario che si voltano indietro, gridano l’orrore, vedono l’incendio ma non possono dire che Troia brucia per noi, qui e ora.
Due parti della società scorrono parallele, ben distanziate. Una cammina sull’argine, con tutte le sue solite difficoltà, le sue abissali ingiustizie. Un’altra ha i piedi sempre più nel fango, si trascina. Anch’essa è attraversata da ingiustizie: c’è chi (pochi) ha buoni e caldi anfibi, ma soprattutto c’è chi va in scarpette del mercato, di plastica scadente. La composizione di classe di questa marcia è interessante, c’è chi la interroga nel suo farsi, discutendone come accade da mesi su Giap. Altri invece hanno deciso una volta per tutte, senza esitazione né incertezza: chi manifesta contro il pass, e segnatamente chi non si vaccina, è l’“individuo proprietario […] che vediamo scorrazzare per le piazze infettando il prossimo in nome della ‘libertà’”; e questa figurina malamente abbozzata coincide, sorpresissima, con il “maschio bianco”. Il dito indica il pupazzo di paglia; e lo sguardo sul pupazzo di paglia conferma la direzione del dito: non è lampante questa prova del nove? Maschi bianchi diventano così anche le donne che manifestano, e con un colpo di spugna sono cancellate le loro motivazioni, criticabili come quelle di chiunque altro e altra, ma spesso legate al proprio specifico femminile. Perché invece in piazza ci sono così pochi e poche migranti? Può darsi che, in blocco, condividano la narrazione ipocrita della “cura” fatta dal governo, visto che di esperienze di governi buoni e anzi migliori ne hanno certamente tante, sia nel paese di origine che in questo. Certo, sarà così, chi sono io per dire di no. Dunque non io, ma una molesta talpa marxista potrebbe però scavare sotto questa apparenza, rodicchiando i bulbi dei tulipani ancora a riposo, e chiedersi se per caso altri migranti, disallineati dal governo o scettici, non abbiano però invece subodorato, da subito o via via, che la loro condizione esistenziale e di lavoro e di documenti era già così ricattabile da non potersi permettere un ulteriore fronte di discriminazione. Non lo dico io eh, è stata la talpa. E ciò non vale solo per i migranti, ma per chiunque sia tenuto dallo stato e dalla società vicino al punto di esclusione, sul ciglio del burrone.
Normalità, canticchiavo tra me parafrasando Claudio Lolli, “ci punta un dito sulla schiena”; supernormalità, dal giorno 6 dicembre. Riapre la Scala, ci sono belle mostre in giro, al lavoro si organizzano pranzi aziendali, insomma tutto è normale, ma non tutti sono normali. Il problema ovviamente non è il cinema, dove peraltro qualsiasi pellicola distopica impallidirebbe, il problema è che gli anormali devono programmare persino quando dovranno salire su un mezzo pubblico, devono prevedere quando foreranno una gomma, non sono concesse sbavature, non è concesso, insomma, che la vita accada. “Cura” significa così infine e propriamente oppressione, come nelle migliori famiglie disfunzionali. Ma ancora: una società divisa in due caste non sa starci compostamente, la tentazione di lanciarsi oggetti è irresistibile. E i lanci, per colpa di Newton, vengono meglio dall’alto verso il basso, perché chi sta sotto si comporta male, ha uscite di merda, compagni di strada impresentabili. I discriminati hanno pur sempre fatto qualcosa per meritarsi d’esserlo, no? E se non lo hanno fatto prima lo faranno poi, alcuni per idiozia e malafede, altri perché gli umani, come le altre bestie, quando si sentono in trappola perdono come minimo il senso della misura, e dell’opportunità. E in trappola lo sono, basta sentire le definizioni di chi li giudica: “fanno schifo”, sono grossomodo assassini per le massime cariche istituzionali, dovrebbero pagarsi le cure ospedaliere, sono come appendici, nel senso di quella intestinale da rimuovere quando infiammata, e così via, giù per abissi.
Pur ben rappresentati tra i personaggi pubblici, gli arroganti e gli imbecilli non sono che una rumorosa minoranza tra i dotati di Superpass, proprio come lo sono tra chi ne è privo (è antica legge di Cipolla che gli stupidi siano equamente distribuiti). Ma la differenza è che i secondi vivono con la costante paura che complottisti e mestatori diventino il pretesto per un’ulteriore stretta repressiva. Gli sprofondati nel fango, come forse ogni altro gruppo discriminato nella storia, sperano infatti che mostrandosi ragionevoli e pacati, magari anche accettando il piano del discorso medico o virologico imposto dai persecutori, si distoglierà dal proprio cranio il piede che spinge nella mota. Speranza illusoria, come si potrebbe facilmente dimostrare se si potesse chiamare la storia a testimonianza del presente, cosa che invece è stato ben chiarito non è lecito fare, perché le storie delle precedenti persecuzioni devono essere ben incapsulate, sterilizzate, sigillate in teche di vetro dotate d’allarme di prossimità.
Se ne potesse discutere senza anatemi, le persecuzioni del passato avrebbero molto da insegnare su quella di oggi; per esempio sul fatto che nella costruzione dell’identità dei perseguitati è quasi sempre presente il contagio. La malattia è una seconda natura per una categoria stigmatizzata: essa è stirpe insana che in virtù del proprio semplice riprodursi intorbida il sangue della nazione, quando poi non pratica omicidi rituali e avvelenamenti. E si ricordi che perfino gli eretici ammalano, infettando con le loro teorie la parte più intima della persona, e la più importante perché eterna, cioè l’anima immortale. Più di recente non portavano forse i migranti le peggiori malattie, stando alla retorica fascio-leghista nonché alle prime pagine di grandi quotidiani, compresi quelli da cui oggi prendiamo per buona la base informativa sulla pandemia? In mancanza della peste, cioè del Covid ancora inimmaginabile, bastava persino una noiosa ma curabilissima parassitosi come la scabbia ad assegnare il titolo d’untore. E gli ambulanti che solcavano le spiagge, trascinandosi sotto il caldo, che cosa nascondevano “all’interno delle loro borse? Probabile anche che ci sia dell’esplosivo”, diceva al Messaggero un rappresentante dei balneari (9 agosto 2017). E se non lo facevano loro direttamente, era ciò che vendevano che minacciava la salute, come avvertivano gli stessi enti che oggi ci vogliono così bene, e a esser sincero non ho mai capito come potesse una borsa col marchio taroccato avvelenare qualcuno. Se non, appunto, in virtù di una lunga tradizione d’intossicamenti attribuiti ai capri espiatori del momento.
Già in quello che ho scritto c’è di che indignarsi, lo so bene, perché oggi, dicono i benpensanti, basta acconsentire a un trattamento sanitario per non essere più discriminati, non puoi fare il paragone con chi il marchio dello stigma lo ha per ciò che è irrevocabilmente, non per ciò che fa o non fa. Ma pure, domando sottovoce, nell’incipit di grandi persecuzioni non c’è forse stata la promessa di una conversione, o di un accomodamento, che le avrebbe fatte cessare? Conversione che invece sarebbe diventata via via insufficiente, perché ciò che si cercava di eradicare si costituiva infine come un quid che era visibile e irrinunciabile molto più ai persecutori che ai perseguitati stessi. Davvero date così tanta importanza, così tanta importanza da risultare sospetta, all’identità dei perseguitati quando invece il problema, dovremmo averlo capito, è nella volontà dei persecutori?
Il fango avanza. La normalità perduta ci viene restituita trasformata, cioè deturpata, in stadi successivi di prevenzione sanitaria. Essa si estende nel tempo e nelle occasioni. Anche per l’influenza stagionale il governo usa ormai gli stessi dispositivi morali del Covid, invitando alla prevenzione per proteggere “te stesso e gli altri”, e non più puntando alla riduzione delle giornate di malattia sul lavoro come negli anni scorsi: si prefigura così facilmente un tempo in cui ogni influenza sarà drammatizzata come un Covid in minore. Di conseguenza, la possibilità di produrre pass diventa virtualmente replicabile all’infinito, e quindi altrettanto infinita la produzione di sans papier, di capri espiatori. Ogni volta, pass dopo pass, essi saranno invitati a scrollarsi di dosso il ruolo, ma anche via via si farà strada l’invenzione di un tratto comune, identitario, da cui infine non potranno più emanciparsi. Da parte loro, specularmente, gli stigmatizzati tenderanno a cercare un baricentro interno, isolandosi; e un passaggio fondamentale avrà luogo quando sarà reso ancor più difficile di oggi fare cose obbligatorie, come mandare i figli a scuola. Di conseguenza sorgeranno scuole autogestite e simili esperimenti, e questo sarà considerato non il frutto della discriminazione ma la prova di una pervicace volontà auto-escludente, e di conseguenza si udiranno voci che, magari in nome del primato astrattamente giusto della scuola pubblica, chiederanno ulteriore discriminazione, un bisturi più affilato per rimuovere l’appendice.
Che questa sia la strada, quella di un congelamento identitario praticato addosso ai discriminati, lo dimostrano già oggi le categorie farlocche utilizzate dal Censis nel suo rapporto 2021, come al solito molto più ideologico che descrittivo: “Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità. È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico”. Di seguito si affastellano, con un semplicismo imbarazzante, i pensieri che caratterizzano i mostri, gli assonnati della ragione, plasmando una categoria sociale là dove non esiste, e mettendo insieme per crearla i seguaci delle teorie più assurde a chi invece magari ha solo espresso all’intervistatore i propri dubbi sui dogmi della medicina e della tecnologia.
Giunge così a un punto elevato ciò che da anni era in opera, ovvero la costruzione da parte dei sociologismi di regime del personaggio dell’ignorante anti-scientifico, incapace di vivere nel capitalismo realizzato, in prospettiva inoccupabile (ovvero disoccupato “per colpa”), inadatto a tenere il passo con le continue innovazioni tecnologiche e linguistiche e comportamentali che il gioioso regime produce e sottilmente impone. Di stigma in stigma l’ignorante assomiglierà sempre più alla parodia che ne fanno i suoi persecutori, perderà l’uso di parole condivise, parlerà una lingua gergale e delirante; e quando griderà che la città brucia lo dirà male, in modo stupido e offensivo, con argomenti volgari e risibili, e sarà quel grido stesso a condannarlo. Eppure Troia brucia ancora. (wolf bukowski)
3 Comments