Wissem Ben Abdellatif era arrivato a Lampedusa il 3 ottobre scorso, mentre sull’isola si celebravano le cerimonie istituzionali dedicate alla “Giornata della memoria e dell’accoglienza”, in ricordo delle vittime del naufragio del 3 ottobre 2013. Il 28 novembre successivo, a ventisei anni, Wissem è morto in un ospedale romano, legato mani e piedi al letto di un reparto di psichiatria, in seguito a circa un mese di detenzione amministrativa nel centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria. Veniva dalla città di Kebili, nel sud tunisino povero e battagliero da cui partì la rivoluzione del 2011, ma che resta tra le aree meno sviluppate del paese. Chi lo conosceva lo descrive come un ragazzo sportivo, semplice, bravo a giocare a calcio, convinto di poter fare fortuna in Europa. Dopo aver perso il lavoro in un supermercato, Wissem aveva deciso di imbarcarsi per l’Italia alla volta della Francia, partendo con un barchino salpato il 2 ottobre dal porto di Kerkennah.
Una volta in Italia, Wissem viene portato nell’hotspot di Lampedusa, in quel momento stracolmo. A causa del sovraffollamento, secondo gli attivisti di LasciateCIEntrare, è costretto a dormire a terra, circondato da una rete. Il giorno stesso dello sbarco viene trasferito nel porto di Augusta per una quarantena obbligatoria che dura due settimane, a bordo della nave GNV Atlas, anch’essa al massimo della capienza, con quasi un migliaio di persone a bordo. A questo periodo di confinamento vengono sottoposti tutti i migranti, anche quelli che, come Wissem, risultano negativi al Covid-19. Se nell’hotspot presentare domanda d’asilo è estremamente difficile, nell’isolamento della GNV Atlas è del tutto impossibile.
«Sulla nave quarantena stava ancora bene», racconta Houssam Ben Fraj, uno dei due cugini del ragazzo che in questi giorni stanno tenendo i contatti con i media. I problemi inizieranno più tardi, a Ponte Galeria, quando il giovane comincia a denunciare maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine.
Già a bordo della nave, tuttavia, la situazione è causa di non poche preoccupazioni: «Alcuni sono stati rilasciati ma noi siamo ancora in quarantena», dice Wissem nel primo di una serie di video che ha girato lui stesso e che poi sono circolati su Facebook. «Dio solo sa cosa ci succederà. Per favore, cercate delle informazioni e rassicurateci», continua la sua voce fuori campo, mentre la telecamera inquadra il porto di Augusta. Siamo intorno al 13 ottobre. Niente, in quel momento, fa pensare che Wissem possa avere problemi psichiatrici, tanto che prima del trasferimento a Ponte Galeria gli viene rilasciato un certificato di “idoneità al trattenimento”. Documenti come questo, spiega Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare, dovrebbero escludere qualsiasi patologia che possa essere aggravata dalla reclusione, compresi disturbi psichici o psichiatrici. Di fatto, però, si tratta di passaggi meramente formali che accertano che i migranti non abbiano contratto malattie contagiose.
Una volta a Ponte Galeria Wissem registra altri video con il cellulare che è riuscito a portare, di nascosto, all’interno del centro. Racconta di essere stato diviso da altri sessantotto compagni di viaggio e di essere stato portato prima a Catania, poi nella prigione romana. «Siamo stati scortati in aereo da tre osservatori, ci hanno preso i telefoni, ci hanno lasciato senza cibo e senza nulla per coprirci. Le nostre famiglie non sanno niente di noi», afferma, mentre la telecamera inquadra le sbarre del centro.
In un terzo video Wissem racconta delle proteste iniziate insieme ad altri compagni di reclusione, con cui dice di avere indetto uno sciopero della fame per chiedere di essere scarcerati e fare richiesta d’asilo. Nel quarto e ultimo video parla anche dei rischi a cui si espone facendo le riprese, vietate all’interno della struttura: «So che mi metto in grave pericolo, ma voglio dire la verità». Nel frattempo, i familiari spendevano centinaia di euro per assicurare la tutela legale di Wissem in Italia, ma sembra che l’avvocata li abbia contattati soltanto dopo la morte del ragazzo, senza fornire nessun supporto reale durante la sua detenzione. A Ponte Galeria, raccontano i testimoni, Wissem continua a fare esercizio fisico, viene descritto come una persona tranquilla. La documentazione medica acquisita dal garante per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, parla di “buone condizioni psico-fisiche” all’indomani dell’arrivo. Dieci giorni più tardi, tuttavia, una psicologa del centro riferisce di sofferenza e disagio psichico, e richiede una visita con uno specialista in psichiatria della Asl. Il consulto si svolge circa due settimane dopo e Wissem inizia una terapia farmacologica che probabilmente sortisce effetti indesiderati. Passano altri dieci giorni, e lo psichiatra chiede il ricovero in ospedale. Il giovane tunisino viene portato al pronto soccorso del Grassi di Ostia, il 23 novembre. Due giorni dopo, al momento del trasferimento di Wissem nel servizio psichiatrico della Asl Roma 3, all’ospedale San Camillo, un documento sanitario parla della necessità di “contenere” il paziente perché “aggressivo”. La durata della contenzione non viene specificata, ma le informazioni a disposizione fanno supporre che Wissem possa essere rimasto legato ininterrottamente per oltre sessanta ore.
La notizia della morte arriva il 2 dicembre, quando la famiglia contatta il deputato tunisino Majdi Karbai per chiedere spiegazioni in merito a una telefonata ricevuta dal consolato tunisino a Roma, in cui si fa riferimento alla morte di Wissem per cause naturali. È Karbai stesso, dopo una serie di verifiche, a informare la famiglia sulle circostanze del decesso. Alcuni familiari sprofondano nella disperazione, mentre la sorella Rania, una studentessa di vent’anni, inizia uno sciopero della fame a oltranza nel tentativo di ottenere verità e giustizia.
Nelle ore immediatamente successive alla morte del ragazzo, le persone recluse nel Cpr che potrebbero testimoniare vengono rimpatriate rapidamente, in una prassi già collaudata in altri casi, come quello di Vakhtang Enukidze, georgiano morto nel Cpr di Gradisca all’inizio del 2020. Alcuni riescono comunque a testimoniare, parlando agli attivisti delle violenze che Wissem avrebbe subito dalla polizia all’interno del Cpr.
Il 4 dicembre, l’ingresso nel centro viene negato all’avvocato Francesco Romeo, che difende la famiglia di Wissem, a Majdi Karbai e al senatore Gregorio De Falco. Per giorni i familiari attendono di capire cosa ne sarà della salma, senza sapere se ci sarà un’autopsia o meno. Solo ieri l’avvocato Romeo comunica in una nota che la perizia medica è già stata svolta, all’insaputa sua e dei familiari, senza la possibilità di nominare un medico legale di parte. Un nuovo esame potrà essere eseguito soltanto adesso da un consulente della famiglia, ma a oltre dieci giorni dal decesso e dopo una prima autopsia, la sua attendibilità rischia di essere compromessa.
Intanto in Tunisia e nella comunità tunisina in Italia la notizia sta suscitando grande attenzione. Si organizzano manifestazioni a Kebili e Tunisi, e diverse persone che hanno subito il respingimento dall’Italia raccontano la loro esperienza tra hotspot, navi quarantena, Cpr e rimpatri, trovando il coraggio di mettere da parte la vergogna che spesso accompagna il fallimento dei progetti migratori. Nella capitale, un presidio dell’associazione La terre pour tous si svolge davanti all’ambasciata d’Italia. La protesta non è rivolta però solo alle istituzioni italiane, ma anche a quelle tunisine, criticate per non essersi attivate né aver preso posizione sulla vicenda, e più in generale complici dell’Italia nella politica sui rimpatri. “A uccidere Wissem sono stati gli accordi sulle migrazioni”, denuncia Imed Soltani, fondatore di La terre pour tous.
Dopo avere assunto pieni poteri e sospeso il parlamento, a luglio il presidente tunisino Kais Sayyed si è assicurato il sostegno italiano anche attraverso la sua politica di cooperazione sulle migrazioni, che del resto si fonda su oltre vent’anni di accordi in materia. Negli ultimi due mesi sono state rimandate in Tunisia quasi cinquecento persone, più di mille e cinquecento dall’inizio dell’anno, a fronte delle circa quattromila totali che sono state rimpatriate ogni anno, negli ultimi anni. Molto più dei numeri, però, dicono le parole di Wissem, rinchiuso a Ponte Galeria, che parla di nascosto dal suo cellulare: «Vogliamo solo essere liberati. I rischi a cui volevamo sfuggire nel nostro paese li stiamo vivendo qui, ora. Dove sono i diritti umani? Sono tutte bugie. Non torneremo in Tunisia. Resteremo qui, oppure moriremo». (giulia beatrice filpi, con la collaborazione di ibrahim ezzat)
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