Napoli è una città che sa come mettersi in posa. La sua postura, che sia nello spettacolo naturale dei luoghi o nella forza sfacciata dei volti, ha sempre generato un desiderio di contemplazione. Il cinema, fin dalle sue origini, non è rimasto immune a questo fascino. Ce lo ricorda Marco Bertozzi nella sua Storia del documentario italiano: nelle vedute Lumière, Roma sembra essere sottostimata, Napoli, al contrario, si offre da subito alla macchina da presa. A stregare i primi operatori “dal vero” non sono le meraviglie storiche, ma l’ingranaggio cittadino con la sua vita pulsante.
A questo pensavo poche settimane fa, mentre uscivo dall’Auditorium Parco della Musica di Roma, dopo aver assistito alla prima assoluta di Posso entrare? An ode to Naples, il documentario diretto da Trudie Styler (attrice, regista, “moglie di Sting”, secondo epiteto patriarcale) e prodotto da Big Sur e Mad Entertainment di Luciano Stella (in collaborazione con Rai Cinema e in coproduzione con Luce Cinecittà, che concede l’uso di alcuni materiali d’archivio). Ancora mi risuonano nelle orecchie le parole gridate da Clementino, in mezzo alla sala scrosciante di applausi: «Grazie per aver rappresentato in questo docufilm la bella Napoli!». La frase, pronunciata a favore di telecamera dal rapper, assume un’ironica pregnanza di significato: la bella Napoli evocata, infatti, più che a una sedicente città reale, affrancata dalle sue contraddizioni e dai suoi peccati, sembra richiamare il nome di una di quelle trattorie turistiche a menù fisso. E l’opera di Trudie Styler, in effetti, sembra venir fuori proprio da lì, da quell’immaginario fatto di icone profane e cartoline ingiallite appese vicino al tavolo apparecchiato.
Il prologo del film è affidato al videoclip di Neapolis, un bignami (versione rap) della storia di Napoli scritto per l’occasione da Clementino insieme ad Amedeo Palumbo e con la produzione di Giuseppe Caliendo in arte “endly”, ma la vera soglia d’ingresso ha la forma del cliché: una panoramica verticale su Spaccanapoli e sui panni stesi nel vicolo. Da quel momento, per un’ora e quaranta circa, Styler attraversa luoghi e intervista persone (e personalità) che trasmettono un’idea panglossiana della città: da Roberto Saviano, che esalta Napoli per aver saputo preservare la sua “identità”, qualsiasi cosa questo significhi, ad Alessandra Clemente, che gioisce perché “prima i ragazzi avevano le mani sporche di droga e adesso, invece, sporche di farina della pizza”, passando per la testimonianza delle donne dell’associazione Forti Guerriere montate in sequenza con Gennaro, anziano caldarrostaio che si fa vanto di non aver mai esercitato violenza verso la moglie Immacolata. E poi lo street artist Jorit, la stella del nuoto Nora Liello, il partigiano delle Quattro Giornate Antonio Amoretti, il direttore dell’Orchestra Sanitansemble Paolo Acunzo, il tipografo Carmine Cervone, il pittore Lello Esposito, l’attore Francesco Di Leva, il regista Vincenzo Pirozzi, l’acquafrescaio Poppò (al secolo Antonio Guerra). Una variegata accolita che trova il suo vertice pop nella performance di Sting nel carcere di Secondigliano e il suo centro morale nel rione Sanità e nella figura di padre Antonio Loffredo. È a lui (e alla città, attraverso di lui) che Styler rivolge la domanda del titolo (“Posso entrare?”) ed è a lui che viene conferita la sintesi virtuosa della “bella Napoli”.
In realtà, nonostante la regista britannica affermi di partire dalla Sanità perché considerata “una Napoli al quadrato”, le implicazioni produttive sono più complesse di così. Styler, infatti, inizia le sue riprese alla fine del 2021, nello stesso periodo in cui tra le strade del rione Mario Martone gira Nostalgia. Entrambi i film vedono tra i produttori Stella e la sua Mad Entertainment, che soltanto nel 2020 produceva con Sky Arte Rione Sanità, la certezza dei sogni, un documentario di Massimo Ferrari in cui si celebrava (con toni agiografici) la figura di padre Loffredo come promotore del “sistema Sanità”, ovvero quel modello di riqualificazione urbana guidata dal terzo settore e fondata su una natura imprenditoriale.
Per giudicare Posso entrare? An ode to Naples, allora, forse bisognerebbe partire da qui. Perché se si può contemplare l’idea che Styler possa aver sentito il desiderio di girare un film su Napoli ispirandosi alla visione romantica di Percy Shelley (autore dell’ode richiamata nel titolo), il nucleo di una simile operazione risiede piuttosto nelle finalità produttive, inserendosi in quel filone di narrazioni ormai dilaganti, confezionate in serie con il beneplacito di Regione e Film Commission, che spacciano come documentarie, assolute, rappresentazioni della città a dir poco parziali, che banalizzano le contraddizioni e addomesticano la realtà per consegnarla allo sguardo del turista-spettatore. Visioni destinate a rafforzare una retorica artificiosa, che utilizza certi territori, e l’aura che li circonda, come un fondale su cui proiettare “l’immagine di una rigenerazione”.
D’altro canto, Styler, britannica trapiantata in America, riconosce, con onestà, di essere un’outsider. È forse comprensibile che le sue domande siano mancanti, ma il suo sguardo ricorda troppo da vicino quello dell’osservatore coloniale, che s’illude di vedere nel popolo nativo una creatura infantile, un buon selvaggio da invidiare (a riprova di ciò, basta ascoltare le sue dichiarazioni in cui contrappone la disumanità di New York al senso di comunità di Napoli). Sotto questo aspetto, Posso entrare? è il film che ogni turista transitato in città negli ultimi dieci anni avrebbe voluto e potuto girare. Vedendolo, da napoletani, si ha la percezione di essere rimasti intrappolati in un universo artificiale, distorto (esperienza, d’altronde, non dissimile da una passeggiata nel centro storico degli ultimi anni).
La domanda del titolo andrebbe dunque ribaltata: da questa giostra di immagini posso uscire? La Napoli ripresa da Styler, infatti, appare come un corridoio di specchi da luna park, in cui intuisci una base di realtà, ma quel che si offre allo sguardo è solo un insieme di riproduzioni alterate, a tratti grottesche, a tratti perturbanti. Eppure, il mondo non è una cartolina né una parete riflettente e le immagini prodotte a partire da questo non sono mai innocenti. Scegliere di sospingere acriticamente la propaganda rigenerativa e di eclissare i “non detti” più spinosi vuol dire fermarsi a una pigra, ideologica rappresentazione. È dietro lo specchio, invece, che bisognerebbe ricominciare a stare. Per attraversare quell’eccedenza che è traccia di complessità. (roberto p. ormanni)