Il ragazzo fa dei gesti, cercando di richiamare la mia attenzione. Il vetro del pullman attutisce i suoni e riflette il sole che scalda l’asfalto, cosicché non capisco chi sia, né perché stia chiamando proprio me. Sono di fatto l’unico civile tra la cinquantina di poliziotti, soldati e carabinieri sciamanti attorno alla postazione di frontiera tra l’Italia e la Francia, a Ponte San Luigi, cioè a Ventimiglia, in quella che è chiamata frontiera “alta” (al contrario della “bassa”, che si affaccia sui balzi rossi e sul lungomare per Mentone).
Mi avvicino al bus cercando di non farmi notare. Il ragazzo indica verso la sua spalla sinistra. Passa una nuvola, per un attimo il riflesso del sole sparisce e riesco a riconoscerlo: è Ishaq (non è il suo vero nome), un giovane migrante africano; quando ci eravamo conosciuti, qualche giorno prima, mi aveva mostrato un tatuaggio che si era fatto fare appunto sulla spalla. «Ishaq! Che ci fai li? Quando ti hanno preso?», provo a chiedergli. Fa cenno che non mi sente. Eh, lo so, manco io ti sento. Allora Ishaq prova a scrivere in arabo, nell’aria del pullman, col dito, un messaggio che ovviamente non capisco.
Un carabiniere non tarda a notarmi e a cacciarmi via con la gentilezza tipica del suo mestiere. Nel frattempo, una colonna di migranti respinti durante la notte precedente sta salendo dal lato francese verso quello italiano, inquadrati da poliziotti francesi. Entrano nella dogana, poi escono uno a uno e vengono fatti salire sul bus. Subito prima di mettervi piede, un agente li inquadra con la telecamera in dotazione, filmandoli con uno strano movimento di macchina da capo a piedi.
Più volte alla settimana, da ormai parecchi mesi, la scena si ripete sempre uguale. I migranti arrestati nelle notti e nei giorni precedenti, dal lato italiano come da quello francese, vengono identificati tramite impronte e documenti e poi caricati su bus diretti principalmente a Taranto, o a volte ad altri hotspot del sud Italia. Impacchettati e spediti all’altro capo del paese.
Da Ventimiglia a Taranto sono 1188 km (fonte: Google Maps), e quasi ventiquattro ore di viaggio (in bus). Una volta arrivati, viene chiesto ai migranti di depositare la domanda d’asilo; per chi si rifiuta quella è la porta, cioè un viaggio estenuante, che può durare settimane, fino alla casella di partenza, Ventimiglia.
«Chi c’è su quei pullman?», chiedo a un’agente di polizia al bar vicino alla frontiera. «Ci sono richiedenti asilo?». «No – risponde categorica –, cosa lo rimando a fare, se è in regola?». Spiega che vengono rimandati a Taranto e agli hotspot del sud Italia solo i clandestini, cioè quelli senza i documenti, o coloro i quali «hanno i permessi scaduti, non hanno presentato ricorso, cose di questo genere; tutto il lavoro che facciamo a priori serve ad accertarlo». Il “lavoro”, spiega mimando il gesto di un dito premuto contro il tavolo, è il controllo delle impronte digitali e serve «a sapere chi è la persona, e in base a quello la sua posizione». È l’unico modo, dice, «perché tanto arrivano e un giorno ti dicono che si chiamano Babbo Natale, il giorno dopo sono la Befana e quello ancora dopo Ferragosto».
I trasferimenti coatti verso il sud Italia sono di dubbia utilità, concede l’agente, a meno che «non servano a fare qualche respingimento». D’altronde, aggiunge poi, «non è che possiamo piegare in quattro il Nordafrica e metterlo in Italia».
C’è una ragione se chiedo queste cose a una poliziotta che ha abbassato le tradizionali difese di fronte a una tazzina di caffè. Il giorno prima, avevo intervistato un ragazzo che chiamerò David (non è il suo vero nome). Lui è richiedente asilo. Ha avuto un primo parere negativo, ha fatto ricorso e attende il responso. Non avendo altro posto dove andare, mi ha spiegato di essersi stabilito a Ventimiglia dove può dormire al campo della Croce Rossa. Tanti altri fanno come lui: a Ventimiglia non solo si può stare alla CRI, ma c’è sempre movimento; e in ogni caso, ad alcuni conviene aspettare i documenti italiani, coi quali, poi, ci si può muovere in Francia con più facilità.
Un giorno di metà agosto, David aveva lasciato i documenti al campo. Una volante l’ha fermato per strada, e gli agenti hanno deciso di portarlo in commissariato a Ventimiglia. Lui ha spiegato che i documenti li ha, che è richiedente asilo. «Hanno controllato e hanno visto con le mie impronte chi ero», racconta. «Hanno visto – assicura – che sono richiedente asilo, e che come tale ho la libertà di circolare sul suolo italiano. Tant’è che hanno detto che mi avrebbero lasciato andare, dopo aver concluso il loro giro in frontiera alta (cioè, ponte San Luigi)». Alla fine del giro si è ritrovato imbarcato sul bus, e quando la porta si stava chiudendo ha capito che la prossima fermata sarebbe stata Taranto, e che forse non si sarebbe dovuto incazzare durante l’ennesimo controllo d’identità alla dogana. «Avevo detto al poliziotto che ero di fretta, e se poteva sbrigarsi che dovevo andare via – ricorda –. Allora l’agente mi ha detto: Ah si? Ora vediamo…».
«Il viaggio è durato quasi ventiquattr’ore, con tre pause», racconta. Durante le pause, potevano andare a pisciare uno a uno scortati dalla polizia. Nel corso del viaggio, un ragazzo non riusciva a sopportare l’idea di essere inviato cosi lontano dalla frontiera, e aveva cominciato a protestare. Picchiava contro la porta pretendendo di uscire. Quando poi ha cercato di aprirla, l’autista si è dovuto fermare. La scena, secondo David, si è ripetuta varie volte. A ogni occasione, gli agenti della scorta salivano sul bus per cercare di placare il ribelle. All’ennesimo tentativo di fuga, David racconta di come i poliziotti siano saliti sul bus, abbiano picchiato il ragazzo e l’abbiano ammanettato. «Ha fatto il viaggio in manette». Si è calmato, dice.
I respingimenti e i trasferimenti coatti non sarebbero possibili senza una presenza massiccia e capillare delle forze dell’ordine sul territorio di frontiera, in termini di mezzi e metodi. Un cartello stradale che indica l’inizio del comune di Ventimiglia, invece del classico “comune d’Europa” o “città dei fiori,” recita: “città videosorvegliata”.
Uno degli effetti di questa situazione è che ogni atto di ribellione, anche minimo, appare inutile ancor prima che impossibile. Ciascuno sa che si può passare, in qualche modo, e che comunque la gente passerà; lo sanno i poliziotti e i dirigenti, lo sanno i politici, i giudici e i ministri, lo sanno i passeur e i mafiosi e i migranti; l’importante è che si faccia in silenzio, come direbbe Marzullo, sottovoce. La frontiera, che è un artificio umano, è prima di tutto ciò che appare: l’importante è che sotto al ponte o per le strade di Ventimiglia non vi siano troppi disperati.
Arrivati a Taranto, David è stato rilasciato subito, dopo i controlli di rito. Da lì, ha dovuto ingegnarsi per ritornare a Ventimiglia: «J’ai du voler un train», dice, “ho dovuto rubare un treno”, ovvero prenderlo senza biglietto, scendere al primo controllo e ricominciare. Gli ci è voluta una settimana.
Uscendo dal caffè e dalla conversazione con la poliziotta, incontro un ragazzo che è stato appena respinto alla frontiera. Per motivi noti solo alla burocrazia poliziesca, non è stato imbarcato verso Taranto, ma gentilmente accompagnato all’uscita alla dogana (che si trova a otto chilometri dal centro città). È in piedi sul muretto a strapiombo che dà sui balzi rossi e la frontiera bassa. Tiene in mano un telefono, col quale si sta facendo un video. «Li dietro c’è Mentone – dice, indicando a non so chi il panorama alle sue spalle –. Neanche oggi si passa, senza documenti…».
Uno degli agenti incaricati di scortare il pullman non fa niente per nascondere il suo scetticismo. «Ne portiamo giù circa quattrocento a settimana… Di questi, quanti tornano a Ventimiglia? Quanti vengono respinti?», dice, mentre si interroga sul costo dell’operazione, «visto che è a carico dei contribuenti…».
Oltre agli straordinari e alle trasferte dovuti al personale di polizia, bisogna aggiungere la tariffa per la compagnia di trasporti e i loro autisti. Per ogni trasferimento con due bus, secondo l’Ansa, lo stato spende circa diecimila euro. Una stima confermata dal giornalista di Repubblica Pietro Barabino.
Con la telecamera sto filmando un drappello di carabinieri assiepati attorno all’ingresso del pullman. Uno degli agenti si sposta rivelando al centro dell’inquadratura un migrante seduto di spalle, intento a fumare una sigaretta. Il carabiniere che gli sta davanti guarda nell’obiettivo, sorride e dice al migrante, indicandomi: «Smile». L’uomo si gira, mi vede e rimane qualche secondo a sorridermi. Poi alza le braccia in cielo, incrociate a mo’ di manette e grida: «Me, Dublin!» (si riferisce alla convenzione di Dublino, che disciplina, tra le altre cose, i respingimenti all’interno dell’Unione europea). Il carabiniere non è contento, ma fa finta di niente.
Finalmente, la porta si chiude. Il poliziotto della scorta saluta i colleghi, che ricambiano distratti. Filmo il bus che parte accompagnato da una nutrita scorta di carabinieri e polizia. Poi zompo nella macchina sgommando alla sua rincorsa. Il convoglio emerge dal tunnel che riporta a Ventimiglia, s’infila in direzione autostrada, e da lì, verso il sud Italia. Io mi fermo prima, all’altezza del cavalcavia, sotto al quale dormono a centinaia tra scatole di cartone appiattite e nella polvere.
Epilogo
Ishaq è riuscito a tornare a Ventimiglia. Qualche giorno dopo è passato in Francia e si è presentato al commissariato di una cittadina troppo lontana dal confine perché la polizia lo rinviasse immediatamente in Italia. Si trova ora a Parigi da alcuni parenti. (filippo ortona)