Domenica 29 gennaio alle ore 10,30 al museo Madre di via Settembrini era prevista una assemblea dei lavoratori della cultura napoletani, che hanno scelto il simbolo della Balena per designare il loro movimento. Era in programma tra gli altri anche l’intervento di esponenti del teatro Valle occupato di Roma. Al momento, sabato mattina, pare che il presidente della Fondazione Donnaregina, Pierpaolo Forte, che controlla il museo, abbia vietato l’incontro. Di rimando, alcuni figuri, tali De Cristofaro, Borrelli, ecc. affiliati a organizzazioni di partito dai nomi altisonanti, “sinistra, libertà, ambiente”, ma di fatto estinte nel mondo reale, hanno protestato con Forte invitando il movimento degli operatori culturali a occupare il museo. Restiamo in attesa di sviluppi, auspicando che la Balena non si faccia infiocinare dalle forze a lei ostili ma nemmeno dai suoi ambigui compagni di viaggio.
Aggiornamento: l’assemblea è confermata per domattina al Madre
Che significa lavorare nell’industria culturale? E nello spettacolo? Oppure nello spettacolo dal vivo? E nel cinema? Nei festival? Nelle compagnie di giro o in quelle stabili? Nella musica? Un concertista è uguale al dj? Se la cultura deve essere un bene comune può essere anche un lavoro comune? Con un contratto nazionale unico magari garantito dall’articolo 18 esteso alle aziende con meno di quindici dipendenti? E i grafici, gli illustratori, gli editor, i drammaturghi e gli sceneggiatori, i direttori della fotografia, i tecnici delle luci, i fonici sono anch’essi lavoratori della cultura o del settore di produzione immateriale?
Una ridda confusa di interrogativi agita, ormai da mesi, il settore della produzione culturale italiana (non tutto vedremo…). A partire dall’occupazione del Teatro Valle di Roma (14 giugno 2011) che tutt’oggi rappresenta l’apice di un movimento restio a prendere un’unica forma, un solo divenire, ma che anzi sembra incamminarsi su sentieri e rivoli paralleli e affini. Sul Valle e sulla sua multiforme esperienza sono stati scritti fiumi di inchiostro, ciò che preme sottolineare è l’effetto che quest’azione ha generato in alcune parti del paese.
Il 16 dicembre 2011 a Catania un gruppo di cittadini e operatori della cultura ha occupato il Teatro Coppola, uno stabile storico della città etnea da anni in attesa di ristrutturazione e nuova apertura. Ne hanno preso possesso per ultimare i lavori mai finiti e riprenderne l’attività. Il 6/7/8 gennaio 2012 a Palermo, un movimento composito di operatori della cultura ha temporaneamente utilizzato gli spazi dei Cantieri Culturali della Zisa (uno dei fiori all’occhiello del rinascimento palermitano) per difendere gli ormai abbandonati capannoni riconvertiti a spazio culturale, da un progetto speculativo dai tratti confusi quanto torbidi.
A Napoli, sembra che la palude della transizione dal bassolinismo a qualcosa d’altro, non si riesca a bonificare. La città è culla di produzioni culturali composite, sede del Teatro Festival Italia nonché di uno dei teatri stabili più attivi degli ultimi anni (Mercadante/San Ferdinando), sede di progetti innovativi (Arrevuoto, Punta Corsara), e non ultimo del teatro “del popolo” Trianon che sotto la gestione di Nino D’Angelo ha vissuto una stagione di successo. Tutt’oggi vive la rinascita (l’ennesima) del San Carlo ed è prossima a ospitare un evento come il Forum delle Culture 2013, che al momento non è altro che un contenitore vuoto. Il settore dell’arte contemporanea ha avuto un forte impulso con l’apertura di due strutture ad essa dedicate (MADRE e Pan), nonché un embrione di tessuto di gallerie (Museo Nitsch, per esempio). Napoli, inoltre, è un luogo dove storicamente si sviluppano esperienze di produzione e ricerca teatrali, cinematografiche, letterarie e culturali in senso lato capaci di esprimere personalità (collettive e individuali) con un importante riscontro nazionale.
Ci troviamo, dunque, in un territorio che potrebbe esprimere un quoziente di possibilità lavorative per gli operatori della cultura di dimensioni uniche, una risorsa importante in un periodo di perdita di centralità del lavoro manifatturiero che dovrebbe permettere alla città di divenire un magnete di produzioni, progetti e attività capaci di competere con le brillanti (ma per molti aspetti devastanti) realtà europee (Barcellona, Berlino, ecc.).
“C’è sempre un però”, diceva Salvo Randone, il Militina della Classe Operaia va in Paradiso del compianto Elio Petri. E il però nel settore della produzione culturale napoletana assume tratti assai sconfortanti. Nonostante l’insediamento della giunta comunale “arancione” guidata da Luigi de Magistris, la politica culturale della città tentenna. Il Forum delle Culture 2013 ha visto il succedersi di presidenti grotteschi, dal bassoliniano Oddati al cantautore Vecchioni, che finora hanno dimostrato l’inconsistenza del progetto e l’assenza di una strategia legata al territorio. Lo Stabile napoletano, nonché il Festival, sono stati affidati (dalla Regione) alla direzione di Luca De Fusco, molto attivo nel finanziare spettacoli propri o di suoi sodali e svuotare ulteriormente le casse del denaro pubblico per la cultura. Il Madre si avvia alla chiusura, il Pan è diventato il luogo delle frustrazioni intergenerazionali di operatori dell’arte improvvisamente orfani di un superego politico capace di assicurare fondi e cartelloni. La Fondazione Campania dei Festival è sull’orlo del fallimento con prospettive di sopravvivenza davvero magre (ma con molti debiti sul groppone). Le discussioni intorno alla “nuova via” auspicata dall’assessora Di Nocera si sono limitate a consultazioni (dall’alto verso il basso) a proposito di “nomi” da proporre per i diversi consigli di amministrazione (del Forum, del Mercadante, ecc.). In più la situazione debitoria del comune ha fatto sì che, per quanto riguarda le politiche culturali, si sia passati dalla cooptazione diretta di artisti in progetti pagati, alla richiesta di “militanza per la città” non pagata, come dire di cultura non si mangia, o almeno non tutti possono mangiare.
L’ambiente sembra spaesato per la perdita di referenti politici forti,capaci di assicurare commesse, finanziamenti, produzioni. I teatri di ricerca vagano inebetiti dai debiti e dall’assenza dichiarata di risorse pubbliche che in passato hanno alimentato tanto produzioni quanto caste artistiche incapaci di dar vita a un sistema di cooperazione tra generazioni, stimolando invece rancori, gerarchie e pretese di dominio stucchevoli. C’è disordine sotto al cielo, ma per molti la situazione non sembra eccellente.
La suggestione del Valle Occupato, tuttavia, ha stimolato la riunione di gruppi inattesi di individui finora distanti, che provano a immaginare un possibile intervento che dovrebbe mettere insieme soggettività creative oltre gli steccati di categoria (i teatranti con i teatranti, i musicisti con i musicisti, ecc.) più che insistere in una sterile riproduzione dell’esperienza del Valle Occupato alle nostre latitudini. Un intervento che metta in crisi le prassi abituali della politica culturale cittadina. Singolarità unite dalla richiesta di trasparenza e di prospettiva, in grado di immaginare criteri di selezione e produzione di progetti indipendenti da eredità e continuità artistiche, da familismi più o meno dichiarati. Un soggetto attivo di una trasformazione non ancora immaginata, che si appropri di luoghi critici, tentando di concretizzare un fare condiviso che non significa immergersi nel crogiolo del “bene comune”, ma provare a sparigliare le carte di un mazzo ancora eterodiretto.
Il problema non sono i nomi che riempiono delle caselle, piuttosto le pratiche che condizionano un processo. Il problema non è l’assenza di garanzie per lavoratori fino a oggi abituati a lavorare nell’incertezza, ma sistemi di costruzione di lavoro incentrati sulla qualità, sulla necessità di lavorare seriamente e con continuità a progetti che oltrepassino le individualità. Capire che il settore del lavoro nella cultura e nello spettacolo è un territorio da disegnare e non da colonizzare, comprendere la necessità di mettere in moto meccanismi che permettano alle diverse generazioni di poter decidere i propri errori e i propri meriti. Mettere un punto finale con le filiazioni politiche e artistiche e provare a costruire un terreno comune (questo sì comune), in cui costruire l’autonomia dell’arte, della cultura e della creazione da un’ingombrante presenza partitica.
C’è la necessità oggi di non lavorare sulle emergenze che di volta in volta si presentano in città ma sull’urgenza comune di dar vita a processi in divenire. Non mettere pezze a colori su vuoti altrui. Non contestare gestioni attuali senza aver fatto i conti con gli errori di quelle precedenti, e soprattutto, sottrarsi alla facile cooptazione, alle scorciatoie, e provare a immaginare sentieri su cui incamminarsi per costruire qualcosa che resti, al di là di noi. Un approdo possibile per chi naviga in un mare indefinito è la coesione dei concetti, delle pratiche e l’abbandono del particulare mefitico che caratterizza il divenire del nostro territorio. (-ma)