Il 10 settembre di un anno fa le forze dell’ordine hanno sgomberato le poche baracche di un’area abbandonata accanto a via Reiss Romoli, a sud della Stura. La giunta comunale a cinque stelle ha chiesto e sostenuto l’operazione. Gli abitanti avevano costruito le abitazioni da poco, dopo lo sgombero della baraccopoli di via Germagnano. L’amministrazione torinese ha continuato così una politica di distruzioni e vane promesse sperimentata già dalla giunta precedente. Intanto, tra meno di un mese, si vota di nuovo per il consiglio comunale: i ricordi di baracche distrutte sono un antidoto alle parole sparse in campagna elettorale.
Via Reiss Romoli, notte tra il 9 e il 10 settembre 2020. Sono le cinque e mezzo del mattino, nel nuovo campo si dorme ancora. È stato occupato quasi un mese fa, dopo lo sgombero del campo di via Germagnano. Arrivo in bicicletta. Ci sono limitazioni agli spostamenti per via della pandemia. Scelgo la bici per essere meno visibile. Pedalo con lo zaino sulle spalle. Ho la videocamera. Speriamo non ci sia nulla da riprendere, ma da giorni gli agenti della polizia municipale parlano di sgombero, di nuovo.
Qui gli abitanti chiamano burghej gli agenti in borghese che tutti i giorni controllano le baraccopoli della città e da anni chiedono i documenti sempre alle stesse persone. Chi vive nelle baracche rivolge ogni giorno ai burghej una sola domanda: «Quando vengono a spaccare?». E le risposte sono sempre le stesse: «Domani»; oppure: «Non lo so, ma vi conviene andare via»; o ancora: «Da martedì si inizia a spaccare. Iniziamo dalla tua». Sono risposte vaghe, quasi sempre menzogne, perché è importante cogliere gli abitanti impreparati e creare il panico. Se non hanno informazioni certe, non possono organizzarsi, ma solo scappare, cercare un altro posto dove rifugiarsi.
L’alternativa è la celere, e questo lo dicono sempre gli stessi agenti della municipale: «Tanto ve ne dovete andare da qui, con le buone se ci siamo noi, con le cattive se mandano loro [i celerini]». Ogni funzionario o agente è sicuro che non sarà mai chiamato a giustificare procedure o azioni che sarebbero impensabili se rivolte contro un comune cittadino, eppure risultano la norma per i baraccati. Perché sono dei “nomadi”, sono poveri e da decenni non si oppongono alla violenza delle istituzioni.
Sto vagando per il campo. È ancora buio. Sento qualche colpo di tosse da una baracca. Le auto corrono veloci su via Reiss Romoli, parallela a questo piccolo terreno. Guardo il sentiero in leggera salita che porta alle baracche più in alto e vedo una luce che avanza nella mia direzione. È Jean ed è teso: è uscito di corsa e ha il telefono quasi scarico.
Decidiamo di uscire in strada e fare un giro intorno al campo per controllare che non ci siano già macchine appostate di burghej in attesa dello sgombero. La loro presenza sarebbe un segnale inequivocabile. Per ora nulla. Jean inizia a filmare. Inquadra la strada gialla illuminata dalla luce dei lampioni e inizia a raccontare di questo nuovo campo disperato e del suo possibile, imminente sgombero promesso dal comune e dalla municipale. Eppure gli agenti di polizia, pochi giorni fa, sono entrati nel campo e hanno detto alle persone nelle baracche appena costruite: «Se vi comportate bene, potete rimanere qui». Questa informazione è sembrata molto strana alla maggior parte dei baraccati appena sgomberati da via Germagnano. La solita strategia: il caos di informazioni disorienta, il campo inizia a rarefarsi e gli ultimi resistenti possono essere sgomberati con la forza.
La luce dell’alba non arriva. Jean filma la strada e racconta ad alta voce cosa è successo poche settimane prima in via Germagnano. Ripete, così come ripeteva in quei giorni di agosto, un pensiero: «I deboli se la prendono con i deboli. Questo è quello che fa il comune di Torino che sgombera le persone povere senza casa. Lo fa da mesi, l’ha fatto anche quando per la pandemia tutto era chiuso; a marzo, aprile, ha sequestrato le baracche e ha lasciato le persone per strada». Poi Jean descrive un mondo che conosce e verrà di nuovo fatto a pezzi e distrutto. Gli sfollati cercheranno casa in un altro luogo. Ma per ora nulla. Forse oggi non ci sarà lo sgombero.
Anche io continuo a ripensare alle ultime settimane trascorse in via Germagnano. Era piena estate, allora non era chiaro a nessuno quando i funzionari comunali, gli agenti della municipale e gli emissari della questura avrebbero iniziato a spaccare, così mi svegliavo prestissimo per entrare nella grande baraccopoli prima delle forze dell’ordine ed essere sicura di filmare dall’interno. In quelle mattine di attesa bevevamo tantissimi caffè.
Poi la tensione, tra le sette e le otto, iniziava a calare. Se non erano ancora arrivati, voleva dire che quel giorno non si distruggeva. Altri abitanti ci raggiungevano all’entrata del campo davanti alla baracca dove eravamo riuniti dalle cinque, dalle sei, e preparavamo a turno altri caffè. Il tempo a quel punto iniziava a scorrere più veloce e la videocamera, pensavo, non serviva più. Si chiacchierava di tutto. Le persone, spesso preoccupate e tese, cercavano alternative a uno sgombero ormai inevitabile. Per la maggior parte degli abitanti iniziavano le attività quotidiane e la ricerca nei bidoni in giro per la città. La ricerca non s’era interrotta nemmeno durante la pandemia di primavera, nonostante il virus e la sospensione dei mercati di poveri oggetti ritrovati e riciclati.
Nei mesi più difficili, quanto tutta la città era chiusa, gli abitanti delle baraccopoli cercavano da mangiare nei bidoni o andavano a chiedere alimenti invenduti nei pochi mercati rionali aperti. Molti di loro venivano fermati e multati da vigili, carabinieri e polizia con verbali di centinaia di euro per essere usciti fuori dal ghetto. Poi, ad agosto, hanno sgomberato via Germagnano. Un momento davvero propizio per cacciare tutti i baraccati! In strada non c’era nessuno. Non c’erano testimoni, non c’erano solidali, nessuno. C’era una pandemia in corso e tutti erano costretti a muoversi il meno possibile. Le persone vive dovevano sparire nel più breve tempo possibile.
Per la memoria pubblica restano i video di rappresentanti comunali per una propaganda su uno sfondo di macerie. Si vedono passeggiate di amministratori e sindaca tra cumuli di resti e promesse di nuovi sgomberi. Questa è la lingua delle ultime amministrazioni comunali torinesi: promesse di sgomberi, sgomberi e poi ricordi di sgomberi per un bilancio di fine mandato.
È l’alba. Quasi tutti gli abitanti sono svegli. Ci sediamo con alcuni amici intorno a un grande tavolo tra le baracche. Le facce sono tirate. Sono stati giorni di lavoro molto duri e tutti sono stanchi. Una volta pulito il terreno pieno di rovi e colmo di rifiuti, i lavori per costruire le nuove baracche di via Reiss Romoli non si sono fermati un momento. Chi non riusciva a costruire autonomamente veniva aiutato dagli altri sfollati. Ho passato alcuni giorni ad aiutare nelle costruzioni, a raddrizzare grossi chiodi recuperati dal campo distrutto di via Germagnano. Abbiamo preparato anche le travi per fare i tetti, per fissare assi e pezzi di armadi e chiuderli con i teloni, prelată. Le assi usate come tetto devono resistere da subito alla pioggia e di pioggia in questi primi giorni di occupazione ne è caduta molta.
Un ricordo di pioggia. In un giorno di distruzione in via Germagnano decine di persone erano rimaste a dormire in strada, nei parcheggi dei supermercati, senza un posto dove andare. Quella notte scoppiò un forte temporale e gli sgomberati in poco tempo si ritrovarono completamente fradici. Alcuni avevano cercato riparo dentro il furgone di un abitante del campo, ma non ci stavano tutti. Jean li aveva chiamati, poi era partito a cercarli e aveva portato tutti a casa sua per farli riposare e dar loro un caffè, far passare la notte. La pandemia in quei giorni non era la mia principale preoccupazione. Ero turbata dalla pioggia, dalla possibilità che fossero aggrediti da razzisti e fascisti nei parchi pubblici, nei parcheggi, sulle panchine o sotto i portici della città. Senza riparo, non avere più vestiti asciutti. «Restate a casa», dicevano le istituzioni, ma la Città di Torino aveva distrutto la casa a centinaia di persone in una manciata di giorni.
Per la costruzione di questo campo in via Reiss Romoli i baraccati hanno recuperato molto materiale da via Germagnano. Alcune parti sono state smontate prima della distruzione, altre non appena i cingolati e le ruspe sono andati via. È stato un lavoro febbrile, continuo. A volte mi fa stare male filmare tutto quel che accade dopo la distruzione, le persone che selezionano e riciclano senza fermarsi un attimo. In via Germagnano avevano messo via le loro poche cose in borse dei discount o dentro qualche carretto. E subito dopo iniziava il vaglio dei materiali recuperabili: teloni di plastica, pezzi di mobili, piccoli oggetti, acciaio, legno. Una parte di materiale nuovo, necessario per tirare su queste baracche, è stato invece acquistato in un discount del fai da te. Hanno usato soldi che il comune ha offerto per lasciare via Germagnano, mille euro per abbandonare senza resistenza baracche vissute per decenni.
Siamo seduti intorno al tavolo. Alcuni fumano. Barbu è molto agitato, mi dice: «Manu, io non so cosa faccio se distruggono anche questa baracca. Ho lavorato tanto. Io non so cosa faccio se spaccano anche qui». Qui lo sgombero sembra sicuro. Se non vengono oggi, verranno un altro giorno. Victor ha preparato il primo giro di caffè. Volano poche battute, proviamo a scherzare, a ridere, ma non ci riusciamo. Forse questa volta gli agenti del RIME hanno detto la verità. Esiste un reparto speciale della polizia municipale, il RIME (Reparto Informativo Minoranze Etniche). È il nucleo dedicato ai rom poveri, ma anche ai poveri senza casa e privi di etichetta etnica.
L’altro giorno Barbu, mentre lavoravamo alle baracche, mi ha detto che ci sono agenti molto aggressivi che entrano in questo campo per controllarli di continuo e volano parole grosse, «parlano brutto» (insultano, usano parolacce volgari davanti tutti), minacciano. La stessa cosa accade in altri campi, da molto tempo, e molti agenti più o meno attempati si vantano del numero di sgomberi eseguiti, anche con metodi violenti e arbitrari. Barbu mi racconta che uno di loro ha detto più volte durante i controlli di avere una pistola e che avrebbe sparato, se avesse potuto.
La luce del giorno sta aumentando. Lascio gli amici seduti al tavolo e vado verso i campi, verso le Basse di Stura. Scatto alcune foto ai campi avvelenati pieni di rifiuti e residui tossici dell’industria pesante di Torino, rilasciati dalle ferriere, dagli altoforni della Fiat, e dopo della Teksid. Ma non solo. Ci sono centinaia di ettari di terreno dove sono stati interrati per decenni scarti di lavorazioni altamente inquinanti. Inquadro la vecchia cascina poco lontana, ancora immersa nella nebbia. Sembra tutto così calmo ora. Sembra pulito.
Le Basse di Stura si trovano all’interno di una specie di trapezio irregolare delimitato dal torrente Stura di Lanzo a nord, dalla superstrada per Caselle a est, da via Reiss Romoli a sud e da strada Lanzo a ovest. Il trapezio tossico include al suo interno anche il più grande “campo nomadi” autorizzato tuttora esistente, denominato Aeroporto. È stato creato dal comune di Torino nel 1988 in seguito allo sgombero di altri tre campi: strada dell’Arrivore, strada Druento e via Reiss Romoli. Nei servizi della stampa non vengono mai menzionati i nomi delle industrie e acciaierie che hanno utilizzato illecitamente, per circa sessant’anni, quest’area come enorme discarica di scarti tossici delle proprie lavorazioni. Puntualmente, però, i giornalisti fanno riferimento all’inquinamento prodotto dalla presenza di “campi rom”, di “campi nomadi”. Dimenticano che i campi sono nati qui per volere dello stesso comune a partire dagli anni Settanta. Nel 2004 addirittura il sindaco Chiamparino ha inaugurato una serie di casette in muratura all’interno dell’insediamento autorizzato di via Germagnano 10, destinate a una parte di popolazione rom originaria della Bosnia. Forse, per le istituzioni, i poveri senza casa sono rifiuti di scarto da lasciare in questa terra guasta – e da sgomberare prima delle elezioni.
Arriva subito Toni a dirci che tre agenti della polizia municipale sono qui fuori e aspettano i rinforzi per entrare. Li ha visti attraverso le lamiere che fanno da recinto tra il piccolo campo e via Reiss Romoli. Oggi ci sarà un altro sgombero di persone senza casa, stremate da un mese di distruzioni e pressioni da parte della polizia. Chi avrà firmato la denuncia di occupazione e la richiesta di sgombero? Guardando le mappe dei terreni, noto un labirinto di nomi e proprietà di molte imprese che non esistono più da decenni, o di improbabili eredi di fazzoletti di terra in cui forse un tempo si coltivava qualcosa di commestibile da vendere in città. I vigili mostrano solo la denuncia con i nomi degli occupanti abusivi, mentre il nome della proprietà denunciante è stato coperto. Come sempre, anche nelle questioni amministrative, i baraccati non sono tenuti a conoscere tutti i dati perché sono poveri e non possono difendersi; possono soltanto sottrarsi a una maggiore repressione.
La celere si è posizionata lungo il tratto di terreno che costeggia via Reiss Romoli. In particolare i funzionari della Digos e un gruppo di celerini molto grossi stanno davanti alla piccola entrata del recinto di lamiere. La porta del campo era un pezzo di lamiera che veniva appena sollevato ogni volta che si entrava o si usciva. Ora è stato tolto e il varco è libero. Un agente in borghese si affaccia con una scala sulle lamiere per vedere se gli abitanti hanno preparato una resistenza. La celere è lì solo per mettere paura e per scortare la municipale insieme ad alcuni funzionari pronti a offrire a poche famiglie sistemazioni precarie e brevi in dormitorio. Gli anziani già da alcuni minuti hanno posizionato le sedie di fronte all’entrata. Con loro ci sono anche dei ragazzi in piedi, osservano con curiosità i movimenti degli agenti in tenuta antisommossa che presidiano il varco del campo. Alcuni occupanti fumano in silenzio, altri parlano tra loro. Jean con il suo telefono continua a registrare e commenta l’operazione poliziesca.
Da una fessura tra le lamiere vedo aprirsi il muro di celerini: fanno spazio al gruppo di agenti della municipale che dovrà occupare tutto lo spazio tra le baracche e mandare via i baraccati. Urlo: «Entrano! Stanno entrando!». Gli agenti del RIME entrano impacciati in fila indiana, si dispongono dove non ci sono baracche e sembrano insicuri. Sanno di essere filmati. Un agente della Digos entra subito dopo e dice alle persone assembrate: «Lo spostate sto furgone?». Il furgone è di uno degli abitanti. Qualcuno risponde: «Adesso arriva il ragazzo». «Dai, così non si fa male nessuno». Ora la Digos è entrata e sta filmando noi, come al solito. Un agente della municipale avanza: «Chi sono gli occupanti di queste baracche qua? Chi è che sta occupando queste baracche qua? Bisogna prendere la roba e portarla fuori, eh? Dobbiamo buttare giù le baracche. Forza, se collaborate non succede niente».
Le donne lo fissano, ascoltano in silenzio ma non si muovono. L’agente spiega che hanno un’ora di tempo, come se fosse una grande concessione. Alterna un tono di voce alto e sbrigativo a uno più basso e conciliante, gesticola parecchio. Crede di saperci fare. Le persone dentro al campo reagiscono in modo diverso. La maggior parte è rassegnata, ma la rabbia per alcuni è alle stelle. Un anziano osserva l’invasione dei vigili conosciuti e invecchiati insieme a lui. Alcuni sfollati si sono messi a scegliere le cose più importanti da portare via. Le prima cose da salvare sono vestiti e coperte. Qualche pentola. Generatori grandi e piccoli. C’è chi fuma nervoso, chi si guarda intorno, chi impreca, chi si arrabbia mentre tira via gli oggetti dalla baracca e mi grida: «Vedi che vita? Di merda! Una vita di merda quella che viviamo noi stranieri in Italia! Siamo invecchiati qua, sono più di vent’anni che siamo a Torino!». Questo per lui è il terzo sgombero dopo quello di Lungo Stura Lazio nel 2015 e quello di via Germagnano. Un altro amico passa di fianco a noi carico di borse e dice: «Siamo fottuuutiiii!». (manuela cencetti)
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