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11 Settembre 2021

Zona Est Novanta #5. Un racconto a puntate

Monitor
(disegno di simone perazzone)

Che fare?

Ogni volta che penso o sento questa frase mi viene in mente il tizio fuori la cumana di Montesanto, a cui ne abbiamo fatte passare parecchie. Vestito con un completo di velluto a costine anche in pieno agosto, cercava di vendere a chiunque il suo giornalino comunista. Per noi, in cerca di un antidoto alla noia precoce – il più grande avrà avuto dodici anni – il centro storico era un luogo meraviglioso, dove potevamo fare tutto quello che ci passava per la testa senza correre il rischio che un parente o un conoscente portasse spia a casa. Spesso al comunista davamo qualche scozzetta dietro la testa, lui non batteva ciglio, nemmeno a carnevale quando gli versammo nella giacca una fialetta puzzolente. Semplicemente, non accettava le nostre provocazioni. Noi cercavamo lo scontro con chiunque, ma con lui non avvenne mai, finché non ci rimase che lasciarlo perdere.

Sono giorni che mi chiedo da dove iniziare. Forse con i parenti, forse qualcuno di loro è a conoscenza del segreto del tizio che mi ha lasciato il suo cognome e poco altro… non ci riesco già più a chiamarlo papà. Lui era figlio unico e i suoi genitori, i miei nonni, io non li ho mai conosciuti, morti prima che io nascessi. I parenti di mia mamma non li sento da quindici anni. Da quando se n’è andata nessuno dei suoi fratelli e delle sue sorelle si è fatto vivo, nonostante prima, quando mamma lavorava e in casa girava qualche lira in più, fosse una processione continua. Seppi anni dopo che una volta morta, quelle lote dei suoi parenti avevano fatto sparire da casa oltre a gioielli e oro anche dei copriletto fatti da lei a uncinetto, destinati alla sua futura nuora, nel caso mi fossi sposato. Sarnataro senior mi ripeteva fin da quando ero un ragazzino che non bisogna aspettarsi nulla da nessuno, soprattutto “di questi tempi”, ognuno rinchiuso nei propri interessi all’interno dei quali, se non rientri, non conti nulla. Io, nonostante un carattere burbero e una innata diffidenza nel prossimo, ho ancora la speranza nell’esistenza di belle persone, che però di sicuro, se esistono, non fanno di cognome Mazzone, come faceva mia madre.

L’unico parente a cui posso chiedere qualcosa è l’avvocato, zio Nando, il solo che negli anni abbiamo frequentato. Non è un caso, probabilmente: Nando non è sangue del nostro sangue, ma l’ex marito di zia Teresa, sorella di mamma. Così lo chiamo e gli dico che nel pomeriggio passerò a trovarlo, naturalmente portandomi dietro un pacco di freselle integrali della salumeria dei fratelli Caputo.

Sono le quattro precise quando mi incammino verso casa sua. Mi fermo al Bar Leone per un caffè e incrocio lo sguardo di un gruppetto di ragazzi usciti dalla sala giochi a fianco, intenti a prendersi per culo l’uno con l’altro. Se vieni preso per culo da un sangiovannaro, attenzione, non devi prenderti collera. Da queste parti non siamo abituati a prenderci delle libertà con tutti, lo facciamo solo con chi rispettiamo o vogliamo bene. Dopo qualche minuto lascio i ragazzi ai loro giochi sui vestiti e le femmine, procedo in direzione Sperone, ma stufo di scansarmi cacate di cane decido di passare al marciapiede di fronte, molto più pulito a causa della presenza di negozi. Le Wayfarer della Rayban, nella vetrina dell’Ottica Damasco, sono scese a 95mila, probabilmente è arrivato il momento di prenderle, a patto che Tony mi tolga qualcosa e riesca a chiudere a 80mila. Attraverso nuovamente la strada e per poco un Mercedes CLK cabrio, il cosiddetto “quattro fari”, non mi fa volare in aria. A guidarlo è quel cazzone di Ciro Trematerra, il figlio del boss.

Ciro andrebbe messo in un museo a beneficio dei sostenitori dell’impegno a ogni costo, di quelli che ti raccontano che prima o poi se hai qualità emergi, di tutti quelli che credono a queste stronzate meritocratiche. Come monito perenne, a questi coglioni farei vedere il rampollo dei Trematerra, l’esempio perfetto della vita come lotteria, del fatto che ognuno di noi parte da un gradino diverso, mentre tutte le stronzate sul farsi il culo sono puttanate inventate ad arte per farci correre come forsennati verso il successo. Mando a fanculo Ciro senza esagerare, e lui fa lo stesso, dall’alto della sua camicia Castelbajac gialla con Duffy Duck disegnato sopra, da 400mila a salire. Dopo qualche metro arrivo a destinazione, e dopo aver scambiato qualche parola di cortesia con la signora Anna, la moglie del portiere, imbocco la scala dai gradini rotti da sempre. Zio Nando mi sente arrivare e apre la porta senza che io bussi il campanello, poi mi toglie da mano avidamente la busta con le freselle e mi chiede il motivo della visita. Senza giri di parole mi metto in poltrona e gli passo la lettera.

Dopo un paio di minuti Nando si toglie gli occhiali, appoggia la lettera sul tavolino e guardandomi negli occhi, con voce provata, mi dice di non saperne nulla: «Se c’è una cosa che posso dirti, è che sono convinto che anche lui lo abbia saputo da poco, magari solo qualche anno fa, magari quando aveva iniziato a chiudersi sempre più e parlare sempre meno, con noi che davamo la colpa ai farmaci». Poi si prende qualche secondo, mi guarda fisso negli occhi e mi dice: «Forse la cosa migliore è accettare il consiglio che ti ha dato. Fattene una ragione e non cercare spiegazioni».

“Accettare”. “Farsene una ragione”. Queste espressioni da qualche tempo mi mordono il culo e non mi danno tregua. Dovrei accettare una vita di merda e di farmi sfruttare sul lavoro. Dovrei accettare i consigli della lettera. Dovrei accettare che ci saranno sempre i Ciro Trematerra che se la spassano sulle cabrio senza essere un cazzo. Ma io sono un sangiovannaro di merda, o un fottuto indiano con la sua filosofia del fiume che scorre e “prendiamoci quello che ci capita”? La prima, direi. E allora è da qui che devo partire, che per mangiare merda c’è sempre tempo. (gerardo picarelli)

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