Da lunedì 10 luglio comincia a rimbalzare sui social media la notizia di un vasto incendio nel Parco del Vesuvio: cinque giorni dopo il fuoco ha distrutto cento ettari di macchia mediterranea.
Nei giorni successivi a lunedì, mentre le fiamme si levano alte, una densa cortina di fumo avvolge i comuni vesuviani e le immagini si moltiplicano sui giornali nazionali e stranieri, la pagina Facebook del presidente della regione Campania dà risalto a due eventi culturali: un convegno su una mostra a Capodimonte e un concerto di Ennio Morricone alla Reggia di Caserta. Notato da più di un commentatore, il silenzio si interrompe solo con un post del 12 luglio in cui De Luca comunica che la regione è impegnata a “fronteggiare il disastro provocato da incendi dolosi”.
Il silenzio e la strategia minimalista di De Luca meritano attenzione perché utili per riflettere su alcune dinamiche della comunicazione politica nei momenti emergenziali. Facciamo, però, un salto indietro nel tempo. Uno degli elementi che con più evidenza emerge quando si studiano le calamità naturali del tardo medioevo e dell’età moderna (diciamo dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento) è il legame tra i disastri e la comunicazione politica.
Questo legame non è sorprendente: un disastro si pone all’intersezione tra natura e cultura, e deriva dal collasso di quelle protezioni materiali e culturali cui si affida una comunità per difendersi dalle forze che la minacciano. In una prima fase, i disastri interrompono l’accesso alle informazioni e determinano l’isolamento di specifiche aree o singoli gruppi; progressivamente “l’irruzione dell’eccezionale” nella quotidianità stimola la ricerca di notizie e spiegazioni, facilita la diffusione d’interpretazioni, lascia emergere punti di vista tra loro in conflitto. Nelle fasi successive al disastro, le comunità colpite avvertono il bisogno psicologico di condividere sentimenti ed esperienze, di dare e ricevere informazioni; in questo modo prendono forma richieste e proposte d’intervento e si rielabora collettivamente quanto è accaduto.
Che i disastri possano far emergere i malesseri del corpo sociale e aprire spazi all’agire politico era ben presente agli attori politici del passato; perciò, costruire narrazioni in grado di orientare la percezione collettiva dell’evento disastroso ha spesso avuto un ruolo non inferiore all’elaborazione di strategie d’intervento nelle zone colpite; anzi, era parte integrante di quelle strategie. Se, da un lato, il disastro alimentava il bisogno d’informazioni da parte delle collettività colpite, allo stesso tempo, esso rendeva necessaria la produzione di testi anche da parte di soggetti istituzionali che si trovavano nella necessità di dare direttive per far fronte al disastro.
Non è solo di oggi, allora, l’esplosione testuale che segue un disastro; già per la fine del Quattrocento e ancor più per i secoli successivi, leggendo “cronache” e “testi del disastro” ci si accorge che le notizie si rincorrevano e stratificavano, rendendo spesso difficile accertare il grado di affidabilità di quanto si diceva o narrava.
Quando, nel corso del Seicento, i “racconti del disastro” diventano un’autentica moda e una ridda di testi di diverso valore e livello invade il mercato del libro a stampa, le dinamiche comunicative s’ingarbugliano: cellule narrative adatte per ogni nuovo evento si spostano da un testo a un altro, titoli che promettono “vere relazioni” o narrazioni di casi sensazionali si contendono la curiosità dei lettori; al contempo, per sacerdoti, letterati, giuristi, scienziati assumono piena centralità culturale i temi legati alla gestione degli effetti delle calamità naturali, che diventano parte del dibattito politico.
Sbaglieremmo, allora, a liquidare prediche, cronache o poemetti agiografici che celebravano nel Seicento il potere salvifico del pantheon dei santi cattolici; ciò che era in gioco in quelle narrazioni era anche la possibilità di esaltare il ruolo delle istituzioni religiose. Perché, come scriveva il gesuita Giulio Cesare Recupito, all’indomani dell’eruzione vesuviana del 1631, “gli animi presi da temenza maggiore non si reggono più colle leggi, e coll’imperio, essendo solita, dopo il primo turbamento del volgo, rivolgersi la paura in seditione”.
Pur nella profonda differenza dei contesti, questo nesso potente tra disastri e dimensione politica è stato messo in luce in più d’un caso per l’aftermathdei disastri degli ultimi decenni. Analizzando il contesto politico dopo l’urgano Katrina, Lonna Rae Atkeson e Cherie D. Maestas hanno osservato che “i disastri rafforzano e creano un contesto pubblico che permette cambiamenti politici che sarebbero difficili o improbabili durante tempi normali”.
Torniamo all’incendio del Parco nazionale del Vesuvio, per il quale la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta per disastro ambientale e distruzione di habitat. Se si leggono in serie i silenzi e le dichiarazioni di diversi protagonisti della vita politica regionale e nazionale, qualche dato forse emerge. Il silenzio di De Luca e i suoi post su mostre e concerti sembravano voler suggerire che nulla di “straordinario” stava accadendo, nulla che meritasse un commento o una “presa in carico” da parte del presidente della regione Campania. Una strategia minimalista esplosa sulla stessa pagina Facebook di De Luca, andata via via riempendosi di commenti “decentrati” rispetto al tema “concerti” o “mostre”: una sorta di collettivo back to the cruel world, Mr. President! In sostanza, un invito, rabbioso e disperato, a prendere atto del fatto che stesse andando a fuoco un Parco Nazionale, un bene da tutelare per la sua flora e fauna, e per il suo valore simbolico.
Già, perché anche facendo finta che quello del Vesuvio sia un marginale episodio di cronaca locale, c’è un aspetto emotivo, culturale e identitario trascurato da chi cura la comunicazione politica del presidente. Proprio a partire dall’eruzione del 1631 si è determinata una delle più potenti riconfigurazioni dell’imagery di Napoli e della sua provincia, che da allora, nell’immaginario collettivo, sono state legate al Vesuvio in modi che hanno inciso per secoli sul modo in cui sono state percepite e narrate. Ma, oltre alla secolare forza dell’immagine del Vesuvio, ad acuire la percezione dell’incendio come evento disastroso sono le vicende connesse alla cosiddetta “emergenza rifiuti” del primo decennio del nuovo secolo. La storia è troppo nota per doverla qui ricordare, basterà dire che i problemi causati dalle discariche e dallo smaltimento illegale dei rifiuti hanno determinato, in una porzione non marginale delle persone che abitano nella provincia di Napoli e in Campania, un’acuta e dolorosa coscienza del ruolo che le comunità locali possono e devono avere per tutelare il territorio.
Tuttavia, le richieste d’informazioni e le manifestazioni (non contro gli incendi, ma contro la “dismissione” della tutela del territorio) sono state accolte con fastidio da più di un esponente politico, così come sono state in alcuni casi ignorate da testate e siti d’informazione, gli uni e gli altri più interessati a rafforzare stereotipi e a scovare, al pari dei poligrafi e degli stampatori del Seicento, casi sensazionali e aneddoti in grado di suscitare compassione e disgusto (è il caso delle fake news sui gatti bruciati vivi, smentita dalla giornalista Stella Cervasio). Su questa linea sembra essersi mosso anche il vicepresidente della Camera, il pentastellato Luigi Di Maio, che ha provato a costruire una personale “narrazione di successo”, presentandosi come colui che ha contrattato con la Francia l’invio di alcuni Canadair: un’altra bufala, secondo quanto ricostruito dal Foglio.
L’infondatezza della storia di Di Maio conferma come il bisogno di accreditarsi faccia ritenere legittimo perseguire una strategia comunicativa fondata sull’invenzione di storie, piuttosto che su discorsi ben argomentati e solidamente costruiti. Se a questo si affiancano gli slogan in dialetto con cui i Cinque Stelle hanno chiamato a raccolta “il popolo”, sembra proprio che l’incendio del Parco del Vesuvio non sia stata per ora molto più che l’ennesima occasione per esibire quell’insieme di narrazioni a basso costo e di slogan “di pancia” che, come ha efficacemente messo in evidenza il linguista Giuseppe Antonelli, contraddistingue la “volgare eloquenza” e il “gentese” del movimento di Grillo.
Non sorprenderà, allora, quanto si scopre attraversando gli articoli e le dichiarazioni che giornali e politici hanno pubblicato in questi giorni. Da un lato, non si è persa occasione per rispolverare l’adagio secondo cui tutti i napoletani sono “rassegnati”, conniventi con le organizzazioni criminali e “a carico” del resto d’Italia (da cui non meritano solidarietà perché “si incendiano da soli”, come recitava il titolo di Libero); dall’altro, più volte si è ricorso alla narrazione stereotipizzante secondo cui i movimenti ambientalisti sono “inopportuni” in quanto fomentatori di polemiche non necessarie. Come se non fosse legittimo domandare se le istituzioni (e la regione in primo luogo) hanno fatto nei mesi passati quanto era necessario per intervenire efficacemente in caso di incendi o se, per esempio, la Campania è dotata di un piano antincendio boschivo per il 2017 (e in un’intervista a Repubblica, apparsa il 15 luglio, il capo della polizia Gabrielli – non un attivista dei centri sociali – precisa che «il tema della lotta agli incendi boschivi è, in via primaria, una responsabilità delle regioni»).
Evidentemente non sanno i nostri politici quanto avevano compreso i gesuiti nel Seicento e quanto Rae Atkeson e Maestas hanno verificato per Katrina: le violente emozioni provate in occasione di un evento disastroso possono essere “potenti motivazioni” per promuovere dibattiti pubblici e per intensificare l’impegno politico, soprattutto quando accompagnate dall’attribuzione di colpe alla comunità colpita. (chiara de caprio)
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