«Io non avevo mai letto l’Amleto e nemmeno l’avevo mai visto, eppure mi sono trovato subito a mio agio. Nella scrittura del testo non abbiamo tradotto letteralmente ma preso i concetti di Shakespeare per riformularli in napoletano e cercando di portarli nel presente. All’inizio dello spettacolo si sente la “poesia cruda”, il linguaggio delle mie parti: Scampia, Piscinola, Marianella. La “mia” Area Nord, insieme alle mie emozioni personali».
Gianni “‘O Iank” De Lisa è uno degli Mc reclutati da Davide Iodice per il suo Mal’essere, andato in scena al teatro San Ferdinando in questo inizio di febbraio. Una riscrittura dell’Amleto che sin dalla sua ideazione è un’operazione felicemente sfrontata, nel confrontare la complessa architettura metrica del testo addirittura con la “poesia della strada” e coinvolgendo alcuni esponenti del rap campano. «Sembra paradossale ma Shakespeare ha una scrittura che sento molto vicina a noi», continua ‘O Iank, che insieme al suo compagno di strada dei Fuossera, Pasquale “Sir” Fernandez, ha lavorato al testo. «Poesia lontana nel tempo che usa metafore e incastri metrici incredibilmente vicini ai metodi espressivi che usiamo noi quando facciamo rap. Scrivendo abbiamo lavorato molto sul ritmo. Abbiamo dato i nostri Bpm al testo».
Una scommessa audace quella di Iodice, che si è affidato alla scrittura di un gruppo di Mc campani formato, oltre ai Fuossera, da Ciro “OpRot” Perrotta dei Ganjafarm, Damiano “Capa Tosta” Rossi, Alessandro “Joel” Caricchia e Paolo “Sha One” protagonisti della stagione originaria dell’hip hop napoletano. Alla fine la pericolosa macchina messa in piedi da Iodice funziona, tirando fuori il testo dal suo tempo per gettarlo con energia direttamente nel presente, in un napoletano in versi che alterna classico e contemporaneo. Un linguaggio meticcio che apre lo spettacolo nelle voci di Vincenzo “Oyoshe” Musto, Gianni ‘O Iank De Lisa e Giuseppe “Pepp-Oh” Sica, nei panni di Bernardo, Marcello e Orazio sorpresi dal fantasma sulle torri di una Elsinore frustata da un vento sinistro. Siamo in un territorio che da vicino ricorda certe desolazioni delle nostre lande avvelenate, dentro cui si muovono Sha One nei panni di Polonio e Capa Tosta che interpreta Guildestern, in coppia con Salvatore Caruso, oltre a un affascinante duo di stralunati becchini. Dotato di un ritmo “cardiaco”, proprio come il verso classico, il testo napoletano di questo Amleto segna un punto d’arrivo importante per il rap campano. La capacità di confrontarsi con un’opera come questa è, infatti, un chiaro segno di maturità per una forma espressiva che in tempi di predominio dei suoi surrogati sfornati dall’industria ha avuto la capacità, nel corso di quasi tre decenni, di tenere al centro la ricerca di stile e l’originalità.
«È stato un lavoro difficile dal quale è venuto fuori uno spettacolo crudo, comico, tragico». Giuseppe Sica è uno dei giovani talenti del rap nostrano, reclutato come attore e presente in scena con le sue doti vocali da “cantante di rap”, come si intitola il suo album del 2013. «La lingua napoletana trasmette emozioni diverse dall’inglese, ma dal punto di vista metrico ci siamo trovati a nostro agio. Shakespeare era un rimatore come noi, vissuto in un’epoca in cui ci si esprimeva in versi in una maniera che è vicina all’arte del freestyle che ci ha formati». Il lavoro di Iodice mostra una particolare abilità proprio nell’integrare gli ingredienti di questa operazione, facendo muovere questi neofiti del palcoscenico in sintonia con una squadra di attori come Luigi Credendino, nei panni dolenti di Amleto, e Veronica D’Elia, una Ofelia straziante e fragile come una bambola di cristallo. La sua voce sottilmente carica d’angoscia è una delle tracce sonore portanti nella favola cupa che si snoda in un atto unico dai ritmi serrati, scanditi dal pianoforte di Massimo Gargiulo e conclusa da un cypher, un cerchio di Mc che “sputano” rime.
«È importante, però, dire che questa non è un’operazione rap – ricorda Sha One –. Noi veniamo da quel mondo ma si tratta di un lavoro differente. Sulla trama originale abbiamo utilizzato le rime ma non è rap. Abbiamo utilizzato una nostra idea di scrittura per un testo che personalmente mi aveva affascinato già in passato, quando avevo scritto la mia versione del monologo “To be or not to be”, che poi ho inserito in questo testo. Il nostro lavoro è stato costruire rime in un linguaggio originale che viene dal rap ma non c’entra niente, non puoi metterci un beat sotto. È una scrittura in versi che viene dalle nostre origini ma diventa qualcosa di diverso, un linguaggio teatrale». Quel linguaggio che lascia trasparire dall’ambiguità del termine che dà il titolo allo spettacolo una chiave di lettura che comprende il “mal’essere” in quanto presenza individuale ma anche un malessere senza apostrofo, come condizione umana che non descrive, a dispetto della lingua, una condizione soltanto “napoletana”.
È estraneo a ogni localismo questo lavoro di Iodice, e non mette in scena il male di una città ma, piuttosto, un canto dolente che scorre attraverso la città e la sua lingua come in un filtro, per raccontare passioni e miserie che riguardano tutti. Una condizione non trascendente ma figlia di un tempo disseminato di orrori e miserie storicamente prodotte, come le “cape di morto” sul palcoscenico. Fuori da qualsiasi idea di spleen individuale, è invece un malessere figlio di responsabilità personali e collettive, contraddizioni che il rap ha sempre affrontato e che porta dentro un testo classico strappandolo al “classichese” e confermando di essere, più che un semplice genere musicale, un’importante forma di poesia civile contemporanea. A Napoli più che altrove. (antonio bove)