Spesso ritornano. In realtà non se ne sono mai andati, questi “ragazzi” dell’hip hop partenopeo, lontani dalle luci della ribalta. Bring the funk back di Ekspo è una voce che riporta senza moralismi l’attenzione alla “matrice”, l’attitudine di una scuola che ha prodotto tanto in questi anni. Probabilmente è questa, più che le chiacchiere da social, il miglior supporto al rap partenopeo. Piuttosto che richiamare alla “purezza”, feticcio dal vago sapore religioso, è il “fare” che costituisce il fondamento, nello spirito della competizione che si fa rotolando sui pavimenti, violentando i vinili, colorando gli angoli grigi delle metropoli o facendo rime.
«A parte la nostra generazione – racconta Ekspo – quelli che sono rimasti a fare questa roba con una certa mentalità sono pochi. Ma va bene così. Quello che non capisco è questo equivoco per cui quello che facciamo dovrebbe essere rapportato a situazioni dalle quali siamo proprio lontani come questa commistione tra musica neomelodica e trap, o questo nuovo fenomeno latin trap, che mo’ si porta. Sono generi di tutto rispetto, ma che c’entriamo noi? Non è che se ti esprimi in rima hai a che fare con l’hip hop e credo non interessi nemmeno a loro. Siamo frutti diversi di una radice comune che possono sicuramente convivere ma non vedo perché dovremmo confrontarci come dice qualcuno. A me non interessa. Noi abbiamo sempre fatto questo solo perché ci piace, senza smanie di successo. Intanto stiamo ancora qua, invece tanti fenomeni “commerciali”, sono spariti in una stagione».
Ekspo è uno dei “vecchi” della scena, in campo dalla stagione aurea dei cypher ante litteram intorno a un bidone a piazza San Domenico, da cui è originato tutto. Una vita densa di percorsi artistici, dai 13B a Sangue Mostro, decine di collaborazioni e un’intensa attività ai giradischi, nel segno di quel fare che è il modo migliore per affermare la propria presenza all’interno di una cultura.
Il brano nasce dal progetto Kingo, laboratorio di idee nato dall’ispirazione di Kaf e Parni, anche loro una vita sui marciapiedi dietro questa passione. Era stata preceduta, questa uscita, dalla strana presenza di sticker in giro per la città, raffiguranti un inquietante alieno dalla folta pelliccia che accostava la sua presenza al nome di Ekspo. Tutto lasciava presagire che qualcosa si stesse muovendo, nei bassifondi dai quali da sempre l’hip hop targato NA ha dato il meglio delle sue produzioni.
«L’intenzione – spiega Parni – era di creare qualcosa che riuscisse a far esprimere le “nostre” forme creative: la street art, il rap, il djing, la progettazione di video, la grafica. Io e Kaf abbiamo pensato alla figura di un ominide che arriva dallo spazio e in modo virale si moltiplica nella nostra società per ricondurci sulla giusta strada nel campo della musica e dell’arte. Una critica verso l’omologazione di tutti quei progetti che si vedono in giro oggi, basati sull’apparire, il sesso, la droga e la malavita. Abbiamo attaccato manifestini e poi adesivi per strada, in contemporanea abbiamo creato una T-shirt e una shopper. Ekspo è il primo, l’idea è di continuare con altri personaggi che riteniamo significativi, creando una vera e propria collezione».
Arriva da un pianeta rumoroso e irriverente, Kingo, a portare il funk sulla terra come in una missione salvifica, dentro la melassa dei ritmi contemporanei e l’inconsistenza di molti dei progetti che transitano sulle piattaforme digitali. “Tutt virtual’ tutt’ tale e qual’/ Stess’ suon’ a fint’ criminal’/ Sess’ oral’ co tatoo/ Ma stu rap nunn’è o cantatu!”.
Bisognerebbe farlo tra cinquant’anni, il bilancio di quello che è accaduto alla musica, osservando quale sia l’eredità dei singoli fenomeni. Quello che sappiamo, ora, è che la trentennale storia dell’hip hop napoletano, pur nella sua precarietà, ha lasciato una traccia profonda nella storia cittadina. Nata con l’entusiasmo dei primi anni Novanta, ha saputo costruire una scuola in grado di marcare una forte presenza proprio quando, all’inizio del nuovo secolo, prima della spinta propulsiva di 8th Mile, si pensava che fosse suonata la sua ora. Una popolazione di writer, ballerini, dj, rimatori e semplici appassionati riuniti dal calore della “paranza”, continuavano invece attraverso le jam e una fitta rete di scambi, co-produzioni e graffi dello spray a tenere in vita “la Cultura”.
Kingo arriva direttamente da quel mondo, che sembra essere stato esiliato su un altro pianeta ma in realtà è vivo e vegeto, e reagisce alla tristezza degli scazzi tra protagonisti dei social sul numero di copie vendute (quasi fosse un parametro di dignità artistica), tornando con un’astronave uscita da un B-movie americano a riportare il funk in mezzo a noi. Non è un caso che dietro l’operazione ci siano Kaf e Parni, come Dj2Phast e Breakstarr cui si devono le sonorità che accompagnano le rime. Perché l’hip hop e il funk che Kingo ritrasmette all’umanità idiotizzata attraverso il fascio di luce della nave spaziale non è solo una questione musicale, anzi. L’elemento che tiene insieme il tutto è l’artigianato. La capacità di costruire linguaggi e prodotti artistici non in un asettico laboratorio ma dentro la polverosa penombra delle botteghe, dove da decenni si fa musica assemblando idee originali e spezzoni provenienti da un baule pieno di ritagli emozionali. Il funk, appunto, ma anche l’elettronica, il repertorio classico napoletano dalla cui mescolanza e cottura a fuoco lento viene fuori il sugo, per dirla con Speaker Cenzou. Un artigianato che nella sua semplicità e ostinazione è una forma di resistenza all’arte seriale fagocitata dal sistema produttivo, ai suoi stilemi ripetitivi e alla sua omologazione all’ordine costituito, seguendo l’unica legge possibile, quella dello stile, che ti rende diverso dalla massa e preserva la tua identità e libertà espressiva. Proprio il contrario della moda. (antonio bove)