Quando l’epidemia generata dal nuovo virus 2019-nCoV ha toccato l’Italia, si era diffuso tra i sanitari campani un certo tetro sarcasmo. Sai che succede se arriva qua. Tutti i medici e gli operatori della sanità campana conoscono bene le condizioni in cui lavorano e ciascuno ha immaginato, di fronte all’emergere dell’epidemia e ai suoi dati impressionanti, cosa sarebbe potuto accadere su un sistema sanitario come il nostro, in cui convivono ottime figure professionali e un baraccone organizzativo reso ancora più traballante da una situazione finanziaria costantemente critica.
Quando è arrivato il dato sulla popolazione deceduta, che vedeva fin dai primi giorni una netta predominanza dei pazienti anziani e con patologie pregresse, è stato facile fare il lugubre parallelo. Se in Lombardia, dove almeno formalmente esiste un sistema sanitario eccellente, la situazione è diventata subito drammatica, la stessa violenza d’impatto avrebbe travolto un sistema sanitario vecchio e malato, che gestisce l’ordinario con grandi sacrifici e non avrebbe potuto reggere quell’onda d’urto.
In questo momento sono quasi 200.000 i casi accertati nel mondo e 8.000 i morti, cui si aggiunge un totale di circa 80.000 pazienti ricoverati, di cui circa 6.000 in gravi condizioni o comunque dipendenti da un respiratore, che rappresenta per ora l’unico presidio salvavita per una malattia per la quale non abbiamo cure. In Italia i bollettini parlano di 27.000 positivi e un totale di vittime che ha superato le 2.500, con 2.060 malati ricoverati in terapia intensiva.
In questo quadro la Campania conta quasi 500 casi, che aumentano ogni giorno, concentrati nella città e nella provincia di Napoli e in misura inferiore a Caserta e Salerno, a testimonianza del ruolo determinante giocato dalla densità abitativa nella diffusione del contagio.
Siamo lontani dal tetro scenario della Lombardia ma la dinamica delle pandemie non ci permette di stare tranquilli, le connessioni del mondo globalizzato e la velocità con cui questo virus si diffonde non permettono a nessuno di pensare che il peggio sia passato, anzi.
Il terremoto di quarant’anni fa, a parte la breve stagione del colera del ’73, è stata l’unica occasione, dal secondo dopoguerra, in cui ci siamo misurati con una tragedia collettiva e pensando a come è stata gestita quell’emergenza, sia nell’immediato che negli anni a seguire, non c’è nessun motivo per sorridere.
“Fate presto!” titolava il Mattino dopo il sisma del novembre ’80 e lo stesso titolo sarebbe stato opportuno qualche settimana fa quando, in vantaggio (per quanto macabro possa esserlo) su altre aree del paese colpite precocemente e colte impreparate, si poteva mettere in campo un’azione preventiva che avrebbe sicuramente ottenuto risultati migliori di quelli che avremo. I “manovratori”, in primis il presidente De Luca, gradiscono poco le critiche, che provengono da diversi settori sociali, prima di tutto dagli operatori sanitari, ma se è vero che produrre panico è una colpa grave in situazioni di questo tipo, è anche vero che lo “stato d’eccezione” determinato da questo flagello non può mettere a tacere il dibattito pubblico e la critica a ritardi, disfunzioni ed errori nella gestione della pandemia. In fondo, ciascuno di noi pensa che dopo questo incubo sarà necessario tornare alla normalità e che, quindi, il terreno del confronto pubblico debba rappresentare ancora oggi un presidio di “salute collettiva” se non proprio al pari dei respiratori comunque imprescindibile.
Il presidente De Luca, preso atto della gravità della situazione ma anche del fatto che non sarebbe precipitata velocemente come in Lombardia, ha indossato subito i suoi abiti preferiti, quelli dell’autoritario e paternalista satrapo meridionale, provando a capitalizzare da questa tragedia eventuali consensi per le future elezioni. Dietro le sue tirate moralizzatrici contro i “trasgressori” dei provvedimenti di distanziamento sociale, peraltro giusti nella sostanza, si cela, però, la sua paura. Conosce bene, De Luca, una rete sanitaria e un sistema di prevenzione pieno di falle, lento e macchinoso che ha bruciato in poco tempo il vantaggio ottenuto in dote dalla sorte. È sempre più chiaro che la voce grossa del presidente e le sue minacce anticostituzionali a chi oserà trasgredire l’obbligo di dimora e di asocialità, nasconda la volontà di “truccare” una situazione che è tutt’altro che sotto controllo. In questa prospettiva si comprende bene come il coprifuoco trascenda la sua funzione preventiva per divenire una foglia di fico dietro la quale si nascondono le disfunzioni del sistema che le “cazziate” di De Luca provano a immunizzare dalle critiche.
L’ESEMPIO CINESE
Ci hanno provato un po’ tutti a usare l’epidemia come arma per denigrare “l’antidemocratico” regime cinese, eppure, nel pieno rispetto del dramma e delle migliaia di morti, il fatto che l’outbreak sia stato proprio in quel paese ha reso possibile che le prime misure di contenimento siano state efficaci come nessun altro paese al mondo avrebbe fatto. Questo è avvenuto in Cina, che conta (a dispetto dei denigratori che attribuiscono l’efficacia delle misure all’autoritarismo del regime) su un sistema sanitario capillare, organizzato, efficiente e strettamente correlato con la macchina statale attraverso numerose articolazioni. Un sistema che Xi Jinping sta riformando dopo il disastro dell’era Deng Xiaoping.
Ma il contenimento dell’epidemia è avvenuto anche nella iperliberista Corea del Sud, segno del fatto che il punto è l’organizzazione del sistema sanitario e la sua capacità di collegamento con la macchina dello stato, proprio quello che qui in Italia, con la nostra sanità spezzettata e guidata solo formalmente da un ministero centrale, non è accaduto lasciando libero spazio alle iniziative dei singoli governatori.
La Corea del Sud, investita insieme alla Cina in prima battuta, è riuscita a contenere per quanto possibile il contagio, mantenendo la quota dei decessi al di sotto dell’1%, cifra significativa se comparata alle percentuali degli altri paesi. Un risultato, con quello cinese, frutto di una campagna organizzata e basata su linee di comando rapide ed efficaci, un collegamento agile ed efficiente fra organismi sanitari centrali e strutture periferiche e un notevole sforzo tecnico ed economico basato sulla ricerca dei contagiati mediante tamponi effettuati su vaste porzioni di popolazione e un numero di posti letto di gran lunga superiori a quelli che ci ritroviamo in Italia dopo decenni di de-finanziamento della sanità pubblica e de-ospedalizzazione senza una corrispettiva azione di potenziamento delle strutture sanitarie territoriali di base.
In Italia i posti letto di terapia intensiva sono circa 5.000, di cui in Campania 272 nelle strutture pubbliche, 72 in quelle private e 10 negli istituti religiosi. A questi si aggiungono 206 posti nei reparti di malattie infettive e 156 in reparti di pneumologia, risorse che, ovviamente, sono destinate anche ai pazienti non affetti da Covid-19. L’insufficienza di tale dotazione viene mascherata in condizioni “normali” ma mostra chiaramente la corda nella situazione attuale e si somma alla grave carenza di operatori del settore, impoveritosi in dieci anni di commissariamento seguiti a circa trent’anni di de-finanziamento.
Certo, gli eventi si sono succeduti rapidamente. La conta degli infetti, degli ammalati in condizioni critiche e dei decessi ha dipinto subito, a Wuhan, un quadro fosco all’interno del quale sono stati segnalati fin dalle prime fasi, a gennaio 2020, i problemi relativi alla prevenzione e controllo dell’infezione tra gli operatori sanitari, quando sono stati registrati casi di infezione contratta all’interno degli ospedali e il contagio di operatori sanitari, registrati dalle autorità sanitarie cinesi e pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet.
Nonostante le misure adottate, la Commissione salute nazionale della Repubblica Popolare Cinese ha riportato, il 24 febbraio 2020, 3.387 casi di infezione accertata e 22 decessi dovuti alla patologia Covid-19 tra i lavoratori della sanità. Le autorità sanitarie cinesi hanno stilato una lista di ragioni per spiegare questo fenomeno, includendo l’inadeguata protezione del personale sanitario all’inizio dell’epidemia, l’esposizione prolungata su larga scala ai pazienti infetti, la carenza di dispositivi di protezione e l’inadeguata preparazione del personale alla gestione dei casi clinici.
In pratica un quadro fedele, esposto in anticipo, di quello che accade in Campania che, per sorte, partiva invece col vantaggio dell’esperienza cinese e coreana già avviate da tempo e che aveva davanti agli occhi il disastro della Lombardia, sempre per sorte, malasorte, colpita per prima.
MASCHERINE E PRE-TRIAGE
Quello che ha più colpito l’immaginario collettivo è il disastro della carenza di Dispositivi di Protezione Individuale, i DPI che ormai sono sulla bocca di tutti. Sono passate tre settimane dal primo caso registrato in Lombardia e una settimana dall’avvio delle misure restrittive per il contenimento dell’epidemia ma ancora oggi in tutti i presidi mancano mascherine FFP2, dotate di filtro adatto a bloccare il virus e le FPP3, di livello superiore. È notizia recente quella dei carichi di dispositivi acquistati dalla Regione e requisiti dalla Protezione civile “per necessità superiore”, secondo quanto dice il presidente De Luca, prontamente smentito da Valeria Ciarambino del M5S, secondo la quale la notizia sarebbe falsa.
Il risultato finale non cambia, le dotazioni del nostro personale sanitario sono scarse e inadeguate. La necessità superiore è, in questo momento, bloccare la diffusione del virus all’interno delle strutture ospedaliere per evitare che si creino focolai di infezione proprio dove le persone andrebbero curate e che, in seguito all’infezione, vengano a mancare risorse umane per fronteggiare l’epidemia. Mancano le mascherine ma anche tute, guanti e occhiali per la protezione della mucosa congiuntivale.
All’Ospedale San Paolo sono arrivate, in questi giorni, mascherine che sembrano strofinacci per la polvere con dei grossolani buchi per l’ancoraggio alle orecchie, con sgomento dei medici e della popolazione che ne ha avuto notizia tramite i social. Pressate dall’opinione pubblica, le istituzioni regionali si sono impegnate, il 16 marzo, a fare arrivare, tramite la Protezione civile, 8.000 mascherine FFP2 e altre 35.000 a breve, oltre a circa 350.000 mascherine chirurgiche destinate al personale sanitario. Il consumo di questi presidi in Lombardia è pari ad alcune centinaia di migliaia al giorno, sarà una scommessa capire se e come un fabbisogno simile potrà essere soddisfatto in Campania. Intanto i medici e gli altri operatori si organizzano in proprio, provando a reperire da fornitori privati i presidi di protezione che li aiuterebbero a non contrarre l’infezione, che sarebbe una tragedia personale, come per tutti gli altri cittadini, con l’aggiunta del peso sociale di tali infezioni che sottraggono energie al già esiguo comparto sanitario.
Mentre scriviamo aumentano, a Napoli, le notizie relative a casi di infezione del personale ospedaliero, alcuni dei quali in condizioni critiche, proprio mentre si diffondono le lamentele del personale che segnala con urgenza la necessità di un’adeguata dotazione dei dispositivi di protezione personale che attualmente scarseggiano ovunque. Siamo al paradosso che vede normali cittadini fare la spesa con dispositivi di alta protezione e medici, infermieri e OSS protetti da semplici mascherine chirurgiche.
A queste carenze va aggiunta la mancanza di percorsi standardizzati per la gestione dei casi sospetti e dei pazienti infetti nei diversi ospedali. Le tende di pre-triage, che andavano utilizzate all’esterno dei Pronto Soccorso per la gestione dei pazienti sospetti sono vuote o sottoutilizzate e i pazienti arrivano direttamente in Pronto Soccorso. Il piano prevedeva, invece, che i pazienti arrivassero in queste strutture mobili posizionate all’ingresso, in modo da effettuare, con personale adeguatamente protetto, una prima scrematura dei pazienti da inviare poi in percorsi protetti. A eccezione del Cotugno, unico ospedale di riferimento per le malattie infettive, in nessuno degli altri ospedali cittadini questi protocolli sono stati attuati e rispettati. Ci aveva provato per primo il Cardarelli, ma il ragionamento è semplice, senza dispositivi di protezione individuale chi si sarebbe sacrificato a fare da primo contatto a centinaia di pazienti potenzialmente infetti?
Siamo consapevoli del fatto che determinate misure restrittive della libertà individuale siano condivise dal mondo scientifico per il contenimento di una malattia nei confronti della quale non vi sono, attualmente, cure e che mette a dura prova il nostro sistema sanitario. Ma non vogliamo che la durezza di queste misure copra le disfunzioni presenti nel sistema di controllo dell’epidemia e che il sacrificio di milioni di italiani, in questo momento bloccati in casa senza alcuna misura di sostegno al reddito, sia reso vano o anche prolungato dalla presenza di queste disfunzioni.
Il fattore tempo è determinante nelle politiche di contrasto alla diffusione delle epidemie. Sono passati dieci giorni dall’istituzione della zona rossa, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato l’infezione “International Public Emergency” il 30 gennaio, la Lombardia ha avviato la sua battaglia da settimane. È per questo che i ritardi sono intollerabili, tanto più in una situazione in cui conta, e molto, la capacità di trarre insegnamenti dalle situazioni che ti precedono e la tempestività nell’intervento. Tutto quello che in Campania, partita in vantaggio, non c’è e che la condannerà a correre con handicap. Che significa morti, casi gravi da gestire, enormi difficoltà per il sistema sanitario e il rischio di un collasso per il quale nessun respiratore potrà essere utile. Nemmeno quelli inviati dai tanto vituperati cinesi. (sócrates)