Ho trentatré anni, da quattro ho terminato la specializzazione, attualmente non sono titolare di uno studio ma collaboro con i cosiddetti “medici di base” come sostituto. Lavoro anche con Emergency all’ambulatorio di Ponticelli.
Già nella fase di formazione la medicina generale viene considerata una branca di serie B. Esiste un corso di formazione regionale che non è universitario come le altre specializzazioni, al termine del quale si viene ammessi nelle graduatorie. È un sistema simile a quello della scuola: accumuli punti attraverso le sostituzioni, le guardie mediche, le attività nelle Asl, con i vaccini… finché non ti chiamano per un posto in una zona definita “carente”. Io di solito partecipo alle graduatorie di Lazio, Emilia Romagna, Toscana, Lombardia, oltre a quella della Campania. Sono molti i medici che si spostano dal meridione, perché le graduatorie qui sono bloccate, non solo per il numero alto di medici ma per una forte disorganizzazione. Attualmente in graduatoria ci sono circa duemilacinquecento persone ma gli studi e quindi i contratti a tempo indeterminato si assegnano molto difficilmente, si tende a spostare i pazienti di un medico che va in pensione su altri già in carica, anche contro la loro volontà. Da sostituto costi molto meno a una Asl piuttosto che da titolare, perché vieni pagato solo a “quota capitaria”, in base al numero degli assistiti, non prendi un fisso come accade invece quando diventi titolare. Il medico di base guadagna una quota dello stipendio come fisso mentre un’altra parte dipende dal numero di pazienti. Lavora con partita Iva, è un convenzionato col sistema sanitario pubblico e non un suo dipendente, e questo crea molte divisioni. Esistono dei sindacati, ma non si riesce ad aggregare coloro che lavorano sul territorio.
Molte persone della graduatoria con il tempo diventano titolari della guardia medica, altri inevitabilmente finiscono nel circuito privato, anche perché in alcune regioni come la Lombardia si esternalizzano anche i servizi di assistenza primaria e di medicina generale, attraverso soprattutto i centri che si occupano di pazienti cronici, come diabetici, ipertesi, eccetera. Ma anche quello è un sistema che non funziona, perché diventa specialistico più che generale. Tu non sei solo un diabetico o un iperteso, sei un paziente che deve essere seguito nella sua complessità, e poi anche economicamente è dannoso: per il paziente, perché deve fare delle assicurazioni e questo aumenta le disuguaglianze nell’accesso alla cura; e per i lavoratori, che nei convenzionati non hanno contratti a tempo indeterminato e fanno molte più prestazioni rispetto al dovuto, perché il guadagno di una struttura convenzionata è il risparmio sulla forza lavoro. Avere una medicina territoriale efficiente sarebbe importante anche economicamente, perché ridurrebbe la corsa all’ospedale e al pronto soccorso che c’è ora.
La quantità di pazienti per ogni medico è quasi sempre è eccessiva, e questo pregiudica sia la cura che la prevenzione, che richiederebbero un tempo adeguato per ogni assistito. Spesso i medici chiedono alle Asl di non caricarli di troppi pazienti, ma non vengono ascoltati. La maggior parte di loro hanno dai sessant’anni in su: la stanchezza si fa sentire, in più ci sono difficoltà con le nuove tecnologie, le visite domiciliari… In altre regioni le Asl hanno istituito le Case della salute, aggregazioni di più medici che funzionano anche come presidio territoriale, con specialisti e con psicologi, assistenti sociali, infermieri. È importante mettere insieme più medici per farli lavorare in un edificio specifico, adatto alla cura, piuttosto che negli appartamenti, ma in Campania non esistono strutture di questo genere.
La parte burocratica, a cominciare dal rilascio delle impegnative, ha finito col sottrarre tempo alla parte clinica, molte persone non conoscono nemmeno il loro medico, soprattutto tra le nuove generazioni. Le persone prenotano direttamente ai centri privati, tanto il ticket costa più o meno uguale, quindi siamo completamente scavalcati. Lavorando con la popolazione straniera ho una percezione diretta del fatto che negli ospedali del centro città molti servizi legati alla diagnostica, quindi le risonanze, le tac, ma anche gli esami del sangue, le visite odontoiatriche, sono inesistenti. Peraltro ogni struttura funziona in modo diverso, di quartiere in quartiere, e questo disorienta molto le persone. In questi casi l’unica cosa che puoi fare è rimandare i pazienti a strutture convenzionate, molto più diffuse sul territorio. La privatizzazione è stata una scelta precisa di questi anni. Ci sono ambulatori pubblici che ancora funzionano bene, ma la scelta politica è stata di spostare tutto sul privato. In questo modo l’Asl non solo paga il convenzionato ma non ha più il controllo diretto. È un suicidio, da un punto di vista economico oltre che politico.
Emergency è arrivata a Ponticelli cinque anni fa nell’ambito del Programma Italia, pensato per le fasce che hanno più difficoltà di accesso alle cure del sistema pubblico, quindi soprattutto i migranti. In Campania ci sono due strutture, a Ponticelli e Castel Volturno, quest’ultima è diventata solo sportello di orientamento ai servizi da quando l’Asl ha avviato un ambulatorio per stranieri, con dei percorsi per donne in gravidanza, per i bambini, eccetera.
A Ponticelli l’utenza è in larga parte migrante ma vengono anche napoletani. Il quartiere, come tutta l’area orientale di Napoli, è abbandonato a sé stesso, carente di servizi, punti di aggregazione. Facciamo ambulatorio di medicina generale, psicologico e infermieristico, quest’ultimo per evitare che le persone debbano ricorrere a infermieri privati anche per un ciclo di iniezioni, perché questo tipo di strutture pubbliche mancano. Gli italiani, un venticinque per cento circa dell’utenza, vengono soprattutto per questo, mentre gli stranieri per l’ambulatorio di medicina generale, un po’ perché sono senza documenti, ma anche perché spesso, anche avendo il medico di base, non riescono a comunicare con lui perché questo non parla altre lingue. Il mediatore culturale nel servizio pubblico sanitario è una figura inesistente, molti stranieri non riescono a capire nemmeno come funziona il nostro sistema sanitario: si trovano in mano delle impegnative ma non sanno cosa farci, dove andare, nessuno gli spiega come muoversi. L’idea è quella di stare in un posto e lasciarlo dopo un po’, facendo in modo che l’Asl svolga i suoi compiti come è successo a Castel Volturno. Purtroppo per l’Asl Napoli 1 il processo sembra molto più lento.
Faccio parte anche di un Presidio di salute solidale che era nato qualche anno fa nel centro sociale Zero81 e che poi abbiamo portato avanti fino all’arrivo della pandemia nello spazio di Santa Fede Liberata, sempre al centro storico. Facevamo un ambulatorio di orientamento ai servizi e uno di cura comunitaria, una sperimentazione avviata da un medico brasiliano che si chiama Barreto: partendo dal racconto delle esperienze personali, non per forza legate alla salute, si arriva alla condivisione dei malesseri, in maniera tale che la comunità possa trovare insieme delle soluzioni. È il concetto di resilienza, unito a quello di lavoro in gruppo.
Dal punto di vista della medicina generale, l’emergenza Covid ha evidenziato le carenze di un sistema che da più di vent’anni non investe nulla sulla medicina territoriale. Esistono tanti studi che ci dicono che investire sulla sanità di prossimità è la cosa migliore per uscire dalla pandemia. Se prima poteva sembrare semplice disorganizzazione adesso è chiaro a tutti che c’è un preciso disegno politico. Le Usca, Unità speciali di continuità assistenziale, potrebbero essere uno strumento di avvicinamento al territorio, ma sono una cosa minima rispetto al bisogno reale. Lo scoppio della pandemia era il momento ideale per investire nella cura domiciliare, non abbandonare i pazienti a loro stessi come è successo, o sentirli solo al telefono, rimbalzandoli da un servizio all’altro. Si doveva investire non solo sulle Usca, ma su un sistema che creasse un collegamento, una continuità tra le Usca, i medici di base e poi eventualmente gli specialisti ospedalieri. In questo modo potevi tenere una parte dei pazienti a casa senza doverli per forza ospedalizzare, quindi potevi incidere in positivo sullo scenario pandemico e allo stesso tempo poteva essere un’occasione per incentivare la medicina territoriale. Un’occasione che, tanto per cambiare, si è persa. (a cura di riccardo rosa)
LEGGI ANCHE:
L’emergenza ordinaria della sanità campana #1. Dalla parte degli infermieri
L’emergenza ordinaria della sanità campana #2. Le bugie di De Luca e la prima volta dei medici