Quella che segue è la prima di una serie di interviste che abbiamo in cantiere e con le quali daremo voce agli operatori del sistema sanitario campano. L’idea è di farci raccontare da punti di vista diversi il sistema della sanità regionale, mettendo in relazione le criticità croniche con la situazione di emergenza che la Campania sta vivendo dal mese di settembre. In questa prima intervista prende la parola -GR, infermiere napoletano che con il dilagare dell’epidemia ha fatto rientro in un ospedale cittadino dopo aver vinto un concorso e avere ottenuto un posto a tempo indeterminato in una struttura romana.
Sono un infermiere, lavoro in un ospedale napoletano. Ho un contratto precario, ma dal primo dicembre dovrei passare a tempo indeterminato, probabilmente al reparto Covid. Ho vinto diversi concorsi in Italia, fino a ottobre lavoravo al nord a tempo indeterminato, ma mi sono dimesso e ho accettato il contratto precario a Napoli per tornare a casa, e perché qualche prospettiva di stabilizzazione c’era. Sono stato reclutato con avviso pubblico. L’azienda è in carenza di organico, con un sessanta per cento del personale precario, cosa che la legge proibisce perché la soglia massima è il venti per cento. Fino a venti anni fa le cose funzionavano diversamente, c’erano i sindacati di base che pressavano per fare i concorsi, poi è stata fatta una manovra per estrometterli, creando una quantità enorme di lavoro precario, sempre sotto ricatto. «Se ti iscrivi al sindacato facciamo entrare tuo fratello, tuo cugino, tuo zio con avviso pubblico», dicevano i confederali, e in effetti così è stato per molto tempo, i contratti precari sono stati rinnovati a oltranza, e tante persone sono entrate in questo modo. Sul mio computer ho un file con oltre trecento nomi: tutti dipendenti che appartengono a qualcuno per legami sindacali o familiari. Al momento se lo consegno alla magistratura potrebbero rispondermi: «E perché il figlio di un dirigente non può entrare?», è difficile dimostrare lo scambio. Ma quando entri in questa azienda la prima cosa che ti chiedono è: «A chi appartieni?». La via tradizionale di assunzione è questa.
CONCORSI, GRADUATORIE E PRECARI
Un concorso per gli infermieri ci sarà il mese prossimo, ma con l’emergenza Covid sono stati lanciati tantissimi avvisi pubblici dai direttori generali, per assunzioni da tre, sei mesi, un anno. Probabilmente questi lavoratori non saranno cacciati via dopo, ma in teoria il contratto potrebbe risolversi alla fine dell’emergenza, e questo ha un peso nella quotidianità del lavoro. In questo momento non c’è una graduatoria di personale infermieristico in Campania a cui le aziende sanitarie possono rivolgersi. Nelle graduatorie devono esserci gli infermieri che hanno vinto un concorso e vanno assunti a tempo indeterminato. Ce n’era una per il Cardarelli, uscita a gennaio 2019 e a marzo già esaurita, dopo avere assorbito in tre mesi 1.229 unità, a dimostrazione della carenza di personale cronica. Ma queste unità sono bastate a stento a sostituire quelli che andavano in pensione e durante l’emergenza il buco si è ingrandito: chi è prossimo alla pensione si mette in malattia, qualcuno va via anticipatamente o con la quota cento… Dodici bandi di concorso sono stati lanciati negli ultimi diciotto mesi, ma non sono mai stati espletati, mentre l’estate era il periodo perfetto per assumere personale stabile e arrivare preparati all’autunno. L’unico concorso che è partito è quello del Ruggi d’Aragona di Salerno, che ha fatto la prova preselettiva per 1.500 persone. Ma ci vogliono ancora mesi per completare l’iter.
Quando un’azienda sanitaria fa un concorso, fa una previsione sul numero di assunzioni da fare nel triennio. Può succedere però che un’altra azienda sanitaria si trovi in emergenza perché non ha programmato adeguatamente e chiede delle unità “convenzionandosi”. È successo al Cardarelli, che ha lanciato il suo concorso, convenzionato poi con Napoli 1 e 2 Nord, anche per questo la graduatoria si è estinta in pochissimo tempo.
Nei prossimi anni è prevista una rivoluzione organizzativa: il decreto Cura Italia prevede che si dovranno assumere otto unità infermieristiche ogni cinquantamila abitanti. Questo significa che là dove non hai niente, per esempio in un territorio come il Sud che è stato distrutto (senza consultori, senza medici di base, eccetera), c’è da organizzare tutto da zero: serviranno graduatorie, ma i concorsi non sono mai stati fatti. Questo significa che verranno fatti uno dopo l’altro, si tratta di concorsi a volte gestiti dalle aziende, altre volte da società specializzate, a cui si assegnano attraverso dei bandi per un giro d’affari che può prevedere un preventivo di spesa anche di centomila euro a concorso.
Negli ospedali, in questo momento, c’è un operatore positivo per ogni turno in reparto, queste persone rimangono bloccate anche venti-trenta giorni e nel frattempo i reparti sono senza personale. Se i turni di lavoro prima dell’emergenza erano massacranti, ora sono insostenibili. Prima facevi: mattina, pomeriggio, notte, smonto e riposo. Ora fai: mattina, pomeriggio, smonto, rientro sulla mattina, senza riposo. Oppure fai la notte, non smonti e fai la mattina, fai diciotto ore filate. Si possono verificare episodi in cui non smonti per quattro giorni.
CRISI CRONICA E CRISI COVID
Ogni tre anni l’azienda fa un piano di fabbisogno triennale e lo comunica alla regione. I piani di fabbisogno devono essere coerenti con il piano regionale, che a sua volta recepisce dal piano nazionale le indicazioni in termini di spesa, bilancio e obiettivi, come il raggiungimento dei LEA (livelli essenziali di assistenza). Dietro questa sigla si cela una politica di tagli, che nel linguaggio del management sanitario si definisce “lean organization” (organizzazione snella), un’espressione che serve a giustificare l’aumento dei ritmi, l’allungamento della giornata lavorativa, la riduzione del personale, la diminuzione della spesa complessiva. I piani di fabbisogno triennale sono sempre al ribasso, non corrispondono a verità. In quello del Cardarelli per il 2020 c’erano trentasei unità di personale necessarie, a fronte di cinquecento pensionamenti. Per il 2021-2022 non c’era previsione, zero unità, mentre poi con i concorsi ne sono state assorbite in pochi mesi 1.300. I piani vengono fatti al ribasso per limitare i preventivi di spesa e “dimostrare” lo stato di salute delle aziende. Ma al contrario di quello che sbandiera la politica, la sanità campana non ha ridotto gli sprechi, negli anni di commissariamento non è riuscita a rientrare realmente da debiti che aveva, sono solo stati cambiati alcuni parametri e voci dei bilanci.
Fino all’emergenza Covid si è andati avanti stringendo i denti. Poi si sono dovuti trasformare reparti normali in reparti Covid, i tempi di assistenza necessari per un paziente si sono dilatati e la carenza di personale è diventata più incisiva. L’episodio dell’anziano morto al Cardarelli nel bagno avviene perché ormai non hai più bisogno di sei infermieri ma di trenta, perché per ogni paziente Covid l’infermiere arriva a impiegare trenta-quaranta minuti per fare una prestazione, invece di venti.
Oggi esistono due strumenti per finanziare la sanità. Uno è il ticket, che finanzia le Asl e l’altro è il DRG, il Diagnosis related groups, che finanzia le aziende ospedaliere. Il DRG è un sistema di classificazione americano, di stampo privatistico: se tu hai un ospedale che fa cinquecento interventi di angioplastica coronarica io ti do i fondi per farne cinquecento. Se tu rientri nei costi, perfetto, se sfori, ci rimetti tu. Piuttosto che rimetterci allora cosa fa un’azienda? Taglia: allunga i tempi per non fare assunzioni, toglie i DPI al personale, taglia sui materiali da acquistare e questo genera un crollo nell’assistenza in termini di qualità. L’intero sistema si basa sulla valutazione del numero di performance, per cui più prestazioni ambulatoriali faccio, più guadagno. Con questo sistema gli ospedali tendono a non ricoverare più, tagliano i posti letto scaricando i costi dell’assistenza socio-alberghiera sulle famiglie (per esempio gli anziani fragili con le badanti o le infermiere private).
Una volta uscita dal commissariamento, per la Campania è cominciato il limbo del Piano di rientro: dopo due anni, se non hai rispettato i vincoli, torni in commissariamento. A fine novembre 2021 la conferenza Stato-Regioni determinerà la Campania fuori dal Piano e con tutta probabilità arriverà una marea di soldi di cui solo una piccola parte, un terzo circa, sarà destinata all’aumento del personale (nonostante ci siano da colmare quindici anni di turnover bloccato, con un fabbisogno di oltre cinquantamila unità). La maggior parte di queste risorse servirà alla costruzione di nuovi ospedali, il che si traduce in speculazione edilizia perché lo stato darà anche importanti agevolazioni fiscali per costruire in aree “degradate” da “riqualificare”, magari completamente isolate da un punto di vista infrastrutturale. Lo stesso De Luca ha confermato che verrà programmata la costruzione di quattro nuovi ospedali a Napoli, una speculazione che è sulle spalle degli utenti perché a fronte di queste nuove mega-strutture è stato chiuso il pronto soccorso al San Gennaro, l’Elena D’Aosta e tutti gli ospedali del centro storico, aprendo l’ospedale del Mare con un’efficienza che arriva a malapena al trentacinque per cento: è un ospedale vuoto a dispetto delle varie inaugurazioni. Il ruolo del pronto soccorso è direttamente collegato alla mancanza dei presidi territoriali: fanno campagne di aggressione mediatica perché la gente va troppo al pronto soccorso, ma dove devono andare se non ci sono più gli ambulatori e i servizi di primo accesso?
Sul Covid Hospital la polemica mi pare strumentale. A Napoli hai strutture ospedaliere vecchie, monumentali, ex-monasteri che non sempre possono essere organizzati per terapie intensive o sub-intensive. Per portare l’ossigeno in reparto hai bisogno di una tipologia di tubi che non si possono far passare in determinati tipi di muri. Quindi ha anche senso che tu mi fai un Covid Center, ma deve essere efficiente. E soprattutto ha senso se tu mi converti le strutture esistenti in strutture a carattere intermedio o specialistico dove fare l’ordinario, mentre gli ospedali adatti li utilizzi in modo strategico per affrontare l’emergenza. Invece si sono spesi un mucchio di soldi per una struttura che a oggi non ha personale e non ha riscaldamenti, mentre il Policlinico della Federico II non ha riconvertito nemmeno un reparto perché i baroni della medicina si sono opposti. È lì che devi intervenire con i reparti Covid, non al San Giovanni Bosco, dove hanno tolto un altro servizio sanitario indispensabile alla popolazione.
Il Covid ha avuto un effetto di amplificatore sullo stato della sanità campana. Se al Cardarelli ci sono tre infermieri e sessantadue pazienti Covid ricoverati, è normale poi che si muoia in bagno. In un ospedale non esistono solo infermieri e dottori, ma anche gli operatori socio-sanitari (OSS), che dovrebbero essere più degli infermieri e assorbire il novanta per cento del carico assistenziale e di tipo socio-alberghiero (spostare il letto, aiuto nel lavare, eccetera) di una struttura. Invece in Campania ogni tre infermieri c’è un OSS, quando il rapporto dovrebbe essere esattamente l’inverso.
IL MOVIMENTO PERMANENTE INFERMIERI
Il Movimento nasce in maniera spontanea, nelle chat delle graduatorie di un concorso indetto dall’Azienda ospedaliera universitaria Sant’Andrea, poi diventata graduatoria di tutta la regione Lazio. Parliamo di una graduatoria enorme, 7.462 persone, dal punto di vista della gestione tecnica sapevamo tutti che sarebbero sorte delle difficoltà. Infatti quando è stata pubblicata sono saltati fuori molti errori, e di volta in volta abbiamo iniziato a chiamare il Sant’Andrea per far aggiungere le persone che mancavano. Nel frattempo è uscita una delibera della Regione con una gara d’appalto per assegnare i servizi infermieristici a una cooperativa. Una legge degli anni Settanta però impedisce l’esternalizzazione del core aziendale: i servizi medici e infermieristici non possono essere esternalizzati. In barba a questa legge, da quindici anni al Policlinico Umberto I di Roma – uno tra i più importanti d’Italia, con duemila unità di personale infermieristico – una cooperativa legata al mondo di Buzzi teneva personale impiegato nella struttura. Questa delibera regionale dava in tre anni cinquanta milioni di euro pubblici a questa cooperativa. Parliamo, in un anno, in termini di stipendi, di circa cinquecento infermieri che passano attraverso le cooperative e che guadagnano in media mille e duecento euro al mese con costi altissimi per l’azienda. All’epoca il Movimento non si era ancora costituito. Come gruppo informale abbiamo fatto degli approfondimenti e abbiamo scoperto che l’assessore D’Amato aveva preventivato solo tremila assunzioni nei tre anni successivi, pochissime considerando che negli ultimi mesi poi se ne sono fatte cinquemila. L’assessore non diceva se si trattava di contratti a tempo indeterminato, né se sarebbero stati presi dalla graduatoria regionale, anzi cominciava a materializzarsi l’idea che non l’avrebbero esaurita. La graduatoria di concorso pubblico dura tre anni (dal 2020 gli anni sono due) e una volta scaduta non hai più possibilità di essere preso. Così, dopo essere andati da un avvocato che ci ha fatto tirar fuori venticinquemila euro per il ricorso, impegnandosi il minimo e non concludendo nulla, e dopo un’interlocuzione andata male con l’USB e con vari partiti politici, abbiamo organizzato una campagna mediatica molto forte, tempestando tutti i giornali locali finché non abbiamo fatto una diretta di due ore su Nurse24 (un giornale on-line molto seguito nel mondo infermieristico) raggiungendo cinquantamila persone, dirigenze infermieristiche comprese. Il 6 maggio siamo andati a Montecitorio sfidando le restrizioni sul Covid, per dire che la Regione Lazio con una mano faceva le graduatorie e con l’altra assumeva gente che veniva da altri canali. Abbiamo insistito, finché non ci hanno ricevuti e ci hanno ribadito di non avere intenzione di assumerci. Abbiamo continuato a manifestare, finché sotto elezioni, con la pressione che saliva perché sulla sanità si giocano tante tornate elettorali, hanno accettato le nostre condizioni. A oggi, 15 novembre, sono state assunte quattromila persone, altre duemila saranno assunte entro gennaio, mentre i concorsi di Napoli e della Puglia svuoteranno la rimanente parte della graduatoria.
Dopo questa battaglia ne abbiamo iniziata un’altra per le neomamme e le ragazze in gravidanza che le aziende non vogliono contrattualizzare. Stiamo raccogliendo i nominativi dei dirigenti per portarli in tribunale. Abbiamo cominciato a lavorare insieme al SiCobas, perché sappiamo bene che il peso che possiamo avere come organizzazione sindacale quando portiamo avanti queste azioni è diverso, e perché tanti ragazzi grazie a questa storia hanno capito che l’unica soluzione è la mobilitazione. A Napoli stiamo lottando sugli avvisi pubblici e il precariato “strategico”. Ci sono le stabilizzazioni da fare al Cardarelli di personale che era sceso dal nord per l’emergenza e che chiede di rimanere in pianta stabile a Napoli, ci sono almeno 1.500 unità di personale da passare a tempo indeterminato. Abbiamo fatto consegnare al Cardarelli decine di domande di stabilizzazione tutte nello stesso giorno, per far capire che il problema è sociale: non hai graduatorie, non hai personale, sei in piena emergenza, hai ragazzi giovani che potrebbero lavorare… Al momento abbiamo ottenuto la stabilizzazione di quaranta persone e lo stesso vogliamo fare in altre strutture, perché durante questa seconda ondata sono in tanti a essere scesi dal nord. La vera partita però si gioca sui concorsi, è quello lo strumento attraverso cui devono essere stabilizzati i precari: un lavoratore che entra attraverso il concorso è un lavoratore libero, non ricattabile a differenza di chi entra tramite clientela. Nella mia struttura, pure per avere una divisa in lavanderia ti chiedono di che sindacato sei, e se non fai parte della cricca la puoi aspettare pure due mesi. (intervista a cura di riccardo rosa)