Qualcuno dirà che non è il momento di parlare della questione abitativa, quando ci sono milioni di profughi, migliaia di morti sotto le bombe e i danni da Covid in aumento nonostante i vaccini. Ma la crisi abitativa è prodotta dalla stessa logica che alimenta l’industria delle armi de-finanziando la sanità; la logica per cui le vite delle persone, i loro bisogni, addirittura la loro morte, possono diventare strumenti di profitto. Qualche giorno fa è uscito un articolo di Enikő Vincze, una docente universitaria romena e attivista del movimento Căși sociale ACUM, Case popolari ORA, tradotto in inglese per LeftEast e poi ripreso da Portside. La militarizzazione in corso, scrive, metterà fine ai debolissimi sforzi post-pandemici per aumentare gli investimenti pubblici nei servizi – casa, salute, scuola – ancora prima del loro inizio; come conseguenza avremo un aumento della povertà, maggiori diseguaglianze, minore aspettativa di vita e rafforzamento del fascismo sociale contro le vittime, ridotte a popolazione in eccesso su cui non si possono fare profitti, quindi da scartare.
Il movimento per la casa in Romania è uno dei tanti ambiti in cui si cerca di riconnettere i pezzi di questa crisi dai mille volti. Tiene insieme romeni, ungheresi e rom, persone coinvolte dalla crisi abitativa e intellettuali, e l’8 marzo ha sfilato nelle manifestazioni “Strike the war” convocate dalla rete E.A.S.T. (Essential Autonomous Struggle Transnational). La chiamata alla mobilitazione collegava la lotta femminista a quella antimilitarista, nel quadro di una “ricostruzione post-pandemica caratterizzata da oppressione patriarcale, razzismo e sfruttamento, la cui punta dell’iceberg è la nuova corsa agli armamenti”. Nel suo articolo, Vincze commenta uno slogan usato dal movimento per la casa alla manifestazione di Cluj-Napoca, che diceva “Vogliamo edilizia sociale, non militarizzazione”. “I responsabili della crisi degli alloggi – scrive – operano con le stesse leggi di chi si approfitta dell’industria militare o di Big Pharma: la legge dell’accumulazione del capitale a ogni costo”. E aggiunge: l’industria militare, come quella immobiliare, servirà soprattutto come porto sicuro per gli investimenti, vista la crisi indotta sull’energia, sulla benzina e sul cibo.
LA MORTE DI MARCUSE
Abbiamo bisogno di capire queste connessioni per superare il single issue campaigning, le mobilitazioni settoriali – qui si lotta per la casa, qui per il lavoro, qui per la pace, qui per l’ambiente, qui contro il green pass. Le battaglie vanno unite, perché il nemico è sempre lo stesso: la guerra che delle élite parassitarie muovono alla vita umana e ai territori in tutto il mondo, con le armi più diverse e con le retoriche più insidiose. Proprio il giorno in cui il movimento per la casa romeno sfilava nella manifestazione contro la guerra a Cluj, dall’altra parte del mondo è morto Peter Marcuse, una figura importante delle lotte per la casa negli USA: i suoi testi sono fondamentali anche per capire come muoversi in altre parti del mondo. Questo non è un necrologio né una sintesi dell’opera di Marcuse, di cui pure ci sarebbe bisogno. È invece una riflessione per provare a connettere il movimento antisfratti che sta crescendo in questo periodo con il resto delle lotte in corso. Già nel 2009 il geografo scozzese Tom Slater scrisse un articolo molto importante dal titolo Missing Marcuse – Ci manca Marcuse. Da quando è morto, l’8 marzo del 2022, ci manca ancora di più.
Peter Marcuse era figlio del filosofo radicale Herbert Marcuse, che nel dopoguerra capì – con Adorno, Horkheimer e la Scuola di Francoforte – che il totalitarismo è un prodotto del progresso tecnologico in sé, indipendentemente dal sistema politico comunista o capitalista in cui è inserito. La società tecnologica avanzata, sia quando lavora per il benessere materiale della popolazione che quando si mobilita per la guerra, trasforma gli individui in uomini a una dimensione, perché mira a dominare non solo la natura, ma le stesse coscienze, i bisogni e le aspirazioni individuali, anche di chi cerca di contestarla.
Peter era nato a Berlino nel 1928, poco prima che i genitori si trasferissero in Usa per scampare alle persecuzioni naziste. Durante la sua vita ha mantenuto uno sguardo critico sia sul sistema economico sovietico, su cui scrisse un libro, che su quello capitalista statunitense, di cui analizzò in particolare la produzione e gestione degli alloggi. L’intuizione radicalmente non dualista del padre filtrò direttamente nella sua analisi della città e della gentrificazione – il meccanismo per cui gli investimenti privati nei quartieri popolari favoriscono l’accesso di popolazione più ricca portando l’espulsione degli abitanti più poveri. Marcuse è stato il principale studioso del rapporto tra gentrification e displacement (espulsioni).
Siamo negli anni Ottanta, quando l’amministrazione Reagan aumenta enormemente le spese militari, riducendo ai minimi storici i finanziamenti per i servizi sociali e l’edilizia pubblica (esattamente come Trump). Mentre si consolida il complesso militare-industriale più colossale del ventesimo secolo, i centri delle città vanno in rovina, i quartieri poveri vengono ghettizzati e la deindustrializzazione apre la strada per la diffusione dell’eroina e del crack nelle comunità più vulnerabili. In questo paesaggio desolato, l’investimento di capitali privati sull’immobiliare viene presentato come l’unica alternativa al degrado; l’aumento di valore dei terreni, la “riqualificazione”, sembrano ancore di salvezza anche per i più poveri, i quali in realtà ne subiranno gli effetti sotto forma di displacement. Peter Marcuse, avvocato e docente universitario, con alcuni articoli molto influenti riuscirà a dimostrare che qualunque forma di investimento speculativo privato sul tessuto urbano provoca displacement; e che degrado e gentrificazione, invece che due poli opposti, sono due esiti diversi dello stesso sistema di rendita urbana.
Neil Smith più avanti lo chiamerà rent gap: il profitto immobiliare scaturisce proprio dallo sviluppo economico diseguale, cioè dalla prossimità tra aree di investimento e aree di disinvestimento. Degrado e gentrificazione, l’uno accanto all’altra, fanno girare il motore del profitto. L’accumulo di profitti, a sua volta, produce espulsioni e impoverimento delle persone più vulnerabili.
Ecco la sua argomentazione principale: “L’abbandono porta alcune famiglie più ricche fuori città e altre in zone in via di gentrificazione vicino al centro. L’abbandono porta anche nuclei meno ricchi nelle zone adiacenti, facendo aumentare le pressioni sugli affitti e sulle case. La gentrificazione attrae famiglie di alto reddito da altre parti della città, riducendo la domanda di case in quelle zone e alimentando la tendenza all’abbandono. Inoltre, la gentrificazione espelle persone di reddito più basso, aumentando la pressione sulla casa e sugli affitti”. Il sistema economico polarizza la popolazione, creando un circolo vizioso “in cui i poveri vivono continuamente sotto la minaccia di espulsione e i ricchi cercano continuamente di trincerarsi nei quartieri gentrificati. La gentrificazione non è una cura per l’abbandono: al contrario, rende il processo ancora peggiore”.
Le espulsioni non arrivano solo sotto forma di sfratti; è famosa la divisione di Marcuse del displacement in quattro tipologie: espulsione diretta con lo sfratto (direct last-resident displacement), espulsione dei residenti su un tempo più lungo, anche prima dell’inizio degli investimenti o del degrado (direct chain displacement), esclusione dei più poveri da alcune zone (exclusionary displacement) e pressione prodotta dalla trasformazione del quartiere, che spinge via anche chi non è obbligato con la forza (displacement pressure).
CITTÀ A UNA DIMENSIONE
A Roma l’applicazione di questa teoria è evidente. Sia in centro che in periferia, gentrificazione e abbandono si sovrappongono, avvengono negli stessi quartieri. In centro c’è San Lorenzo, dove la gentrificazione ha sostituito abitanti e artigiani con locali, movida e studenti; il direct chain displacement ha trasformato il quartiere nella principale piazza di spaccio su sampietrini, ma quando nel 2017 questa deriva ha provocato la morte di una giovane donna, l’evento è stato immediatamente usato come scusa per nuovi progetti speculativi, come la cessione di un palazzo pubblico di pregio alla catena olandese The Student Hotel. Questa nuova ondata di gentrificazione porterà altro degrado e altra displacement pressure. In periferia invece abbiamo l’Idroscalo di Ostia, che per decenni ha permesso lo stanziamento semi-legale di famiglie che avevano subito exclusionary displacement in centro, per essere infine usate come scusa per un maxi-progetto speculativo, quello del Porto Turistico fatto costruire da Rutelli a inizio anni Duemila. Invece di portare benessere, il Porto ha portato malaffare, finendo sequestrato negli anni di Mafia Capitale; ma la deriva criminale ha alimentato di nuovo l’assalto speculativo e la pressione su Idroscalo. Ora gli abitanti rischiano di essere sgomberati tutti fino all’ultimo – direct last-resident displacement – perché il Porto vuole estendersi sull’area abitata. Questo ampliamento porterà nuovo displacement nei quartieri vicini, alimentando di nuovo tutto il ciclo. I due poli girano l’uno sull’altro, spingendo il motore sempre nella stessa direzione: il profitto privato. Una città a una dimensione.
Mentre gli abitanti del centro e della periferia sono schiacciati da questa macchina, in altre parti del mondo cadono le bombe, si arruolano i bambini, milioni di persone diventano profughi, altre subiscono violenza e discriminazione per le scelte dei loro governi. I produttori di armi intervengono in televisione simulando indignazione, mentre fanno lobby sul governo per aumentare i profitti. La spesa militare sale da 27 a 39 miliardi l’anno: 106 milioni di euro al giorno. Se la lobby della speculazione immobiliare non spingesse per tagliare continuamente i fondi all’edilizia pubblica, ogni giorno lo stato potrebbe comprare un migliaio di appartamenti; solo con i fondi aggiuntivi di quest’ultima guerra, la crisi abitativa a Roma finirebbe in meno di nove mesi. “Per esempio – scrive Marcuse in un articolo del 1983 –, eliminare cento bombardieri B-1 dal budget militare genererebbe 28 miliardi di dollari per la costruzione di 500 mila nuove unità abitative, attraverso la spesa diretta governativa per una proprietà sociale libera da debiti. Eliminare i sussidi alla casa per investitori e proprietari con redditi superiori ai 50 mila dollari fornirebbe circa 15 miliardi di sussidi agli affitti per inquilini di appartamenti di proprietà sociale, rendendo i costi dell’alloggio molto più accessibili”.
A differenza degli attivisti e le attiviste di Căși sociale ACUM in Romania, io credo che non siano neanche le case popolari il centro della rivendicazione. Ci sono migliaia di case vuote, e non c’è bisogno di altro cemento. Quello di cui abbiamo bisogno sono risorse per renderle sociali, per fare in modo che siano usate per abitare e non per speculare. Marcuse la chiama social ownership, e specifica: “Non importa la precisa struttura legale della proprietà, ma che le case siano rimosse permanentemente dal mercato speculativo”. La prima strada è impedire gli sfratti. Del resto, è appena iniziata una nuova emergenza: non sarebbe logico fermare di nuovo sfratti e sgomberi come nel primo anno della pandemia? Oltre a fermare gli sfratti, bisogna tutelare permanentemente il diritto di ogni persona a rimanere nel proprio quartiere se lo desidera, o ad avere una casa dignitosa se ne ha bisogno. Proprio in questi giorni la famiglia di Omar, un ragazzo di Torre Angela, sta cercando disperatamente di portare l’attenzione delle istituzioni sul fatto che da due decenni sono stati trascinati da un centro di emergenza all’altro, sempre con la scusa che non ci sono soldi per alloggiarli – nonostante ci siano centinaia di case popolari vuote, mentre gli appartamenti costruiti con soldi pubblici vengono venduti ai fondi di investimento. Infine, bisogna riconvertire sussidi classisti come il bonus 110% – un esempio da manuale di “sussidi per investitori e proprietari con redditi superiori ai 50 mila dollari” – per finanziare invece chi non possiede una casa; non con “bonus casa” a tempo, ma con finanziamenti permanenti. L’obiettivo dei sussidi pubblici non dev’essere aiutare per qualche anno chi “non è riuscito” ad accedere al mercato privato, ma finanziare permanentemente la parte di società che non ci riuscirà mai, proprio perché il mercato immobiliare ha bisogno di tenere sempre fuori una parte della popolazione.
Può sembrare retrò, ma esigere che i soldi spesi in armi e soldati siano usati perché tutte e tutti abbiano una casa, significa rovesciare il paradigma estrattivista, restituire le risorse a chi ne è stato privato, fermare la distruzione dei territori e delle vite e iniziare a costruire la pace – nei nostri quartieri e città, oltre che in Ucraina, Kurdistan, Palestina, Yemen. In molti momenti di crisi le lotte per la casa hanno svolto un ruolo storico fondamentale. Negli anni Trenta in Catalogna lo sciopero degli affitti ha dinamizzato la coesione sociale da cui sono nati i Comitati rivoluzionari che hanno fermato il golpe franchista. Negli anni Sessanta le proteste degli afroamericani per le misere condizioni dei complessi di case popolari dove furono alloggiati dopo l’espulsione dai centri storici degli USA, si intrecciarono con la battaglia per i diritti civili e condizionarono le politiche abitative degli anni successivi. Nello stesso periodo in Italia fu grazie alle autoriduzioni e alle occupazioni che per qualche decennio si riuscì a fermare il modello estrattivista democristiano. Anche ora, con una pandemia e una guerra in corso, il movimento per la casa e contro gli sfratti potrebbe contribuire a ricomporre il fronte delle lotte. Conclude Marcuse: “In questo modo, si spera, i programmi e le strategie per contrastare la mercificazione della casa e risolvere la questione degli alloggi possono diventare parte della soluzione dei problemi generali della nostra economia e della nostra società”. (stefano portelli)