Abbiamo lasciato Nagyszékely all’alba di un sabato, avevamo i formaggi di capra affumicati nello zaino. Gli appunti e l’Enciclopedia australe di Jean Celan erano al sicuro. Portavamo con noi anche il discorso di Celan tenuto agli australi: l’unica testimonianza della crisi in un gennaio lontano. Per completezza riportiamo le parole che proferì sulla collina d’un parco pubblico prima di essere rinchiuso presso l’Accademia dell’Università Etica. Abbiamo notato che la grafia è diversa dal solito.
“Ascoltatemi. Queste mie parole si rivolgono a voi, oppure a te che sei in ascolto. Con alterna chiave tu schiudi la casa dove la neve volteggia delle cose taciute. A seconda del sangue che ti sprizza da occhio, bocca e orecchio, alterna la tua chiave. Alterna la tua chiave, alterna la parola cui è concesso volteggiare con i fiocchi. A seconda del vento che via ti spinge s’aggruma attorno la parola neve.
“Nei loro progetti ho letto che scrivono: ‘Coinvolgimento pieno e diffuso degli abitanti del quartiere, una nuova storia di partecipazione attraverso l’apporto del bello e la diffusione della cultura anche oltre il tramonto. Un angolo che si mostra nella sua interezza ed eterogeneità, dove ogni persona e collettività coinvolte possano sentirsi libere di esprimersi offrendo il loro apporto con spontaneità e fiducia’. Ancora ho letto che scrivono: ‘L’obiettivo è creare un luogo attrattivo e fruibile da tutti in cui si realizzano attività ludico-ricreative, educative, sportive e musicali e in cui si possa anche sperimentare il senso civico e l’attivismo per i beni comuni’. La loro lingua – piena di senso per pubblicizzare buone azioni – è più vuota del silenzio.
“Dovrei rifugiarmi con alterna chiave nella lingua chiusa dove funzionari benpensanti e portaborse di governo non possono raggiungermi, e sfiorare finalmente il silenzio candido del taciuto, sentirlo suonare come il fiocco che si posa. Eppure voglio essere compreso da voi ora, questa è la mia contraddizione, e per resistere alla nausea della lingua che sale parlerò con parole usate già.
“Dietro il velo di ipocrisie e filantropia vedo il paesaggio devastato dal vento. Tutto è in rovine, tutto è stato deteriorato, ma potrei dire che loro hanno rovinato e deteriorato tutto. Vedete, il mondo è stato corrotto. E non è importante quel che dico, perché tutto di ciò che hanno acquisito è stato corrotto. Sin dal primo momento in cui hanno acquisito tutto in una subdola, scorretta battaglia, sin da allora tutto hanno corrotto. Perché tutto ciò che hanno toccato – e loro toccano tutto – lo hanno corrotto. Acquisire, corrompere, corrompere, acquisire. Oppure, se volete: toccare, corrompere e poi acquisire; o toccare, acquisire e poi corrompere. È andata così per secoli. Ancora, ancora e ancora. Questo e soltanto questo, a volte in segreto, a volte con violenza, a volte con dolcezza, a volte con brutalità, ma è sempre andata così, ancora e ancora. Invero in un solo modo: come ratti in un’imboscata. Così che ora i vincitori che attaccano dall’imboscata comandano la terra e non c’è un solo minuscolo angolo dove si possa nascondere loro qualcosa, perché tutto ciò su cui posano le mani è loro. È loro anche ciò che pensiamo non possano raggiungere, ma che loro raggiungono. Perché il cielo è già loro, e tutti nostri sogni.
“E sotto di loro stanno i funzionari. Hanno udito che fu detto: l’elemosina non sia fatta dinanzi agli uomini per essere visti da loro. Quando dunque fai l’elemosina, non strombazzare davanti a te, come gli ipocriti fanno nelle adunanze e nelle strade, affinché siano gloriati dagli uomini. Hanno udito che fu detto: facendo tu l’elemosina, non conosca la sinistra tua quel che fa la destra; affinché sia la tua elemosina nel segreto. E quando preghi, non essere come gli ipocriti, che amano pregare nelle adunanze e negli angoli delle piazze, affinché appaiano agli uomini. Ma tu, quando preghi, entra nella stanza tua, e, chiusa la porta, prega. Hanno udito che fu detto – e loro sono gli ipocriti, i funzionari.
“E cosa offre il sistema ai funzionari, agli ipocriti? Pochi spiccioli, a volte lavorano gratuitamente – per passione, dicono, per il bene. Come può essere questo? Quale il nome di questo male? Quale vizio, dovrei dire infelice vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire. E non posseggono per sé né i beni, né i cari sentimenti, né la loro stessa vita. Sarà forse debolezza la loro? Possiamo dire che sono codardi, o sfiniti? Se fossero in due, tre, quattro… Ma se sono in cento, in mille, un milione! Allora che vizio mostruoso è questo che non merita nemmeno il titolo di codardia e che la lingua si rifiuta di nominare? I servi volontari, inconsapevoli, si quietano con le buone azioni, si mondano con esse: grazie ai servigi offerti aspirano alla serenità la sera, prima di dormire. Egoisti, si rifugiano dietro una maschera di benevolenza e accusano di individualismo chiunque non si conformi alla messinscena.
“Se solo avessi la forza e la coerenza di ritrarmi nel silenzio. Lasciare solo argomenti dal silenzio. Alla notte la parola vinta dal silenzio. Contro parole altre che presto domineranno anche sul tempo, sui tempi. Voglio ritrarmi, tornare a casa, indietro anche io alla volta della mia isola. Alla volta dell’isola, a fianco dei morti, fin dal bosco abbracciati al trono scavato, le braccia ghermite da cieli, le anime cinte da saturnei anelli: così, liberi ed estranei, vogano costoro, i maestri del ghiaccio e della pietra: fra il clamore di boe sprofondanti, fra i latrati del mare colore squalo. Essi vogano, vogano, vogano: voi, morti, voi, nuotatori, avanti! Ingabbiato anche questo nella nassa! E domani svapora il nostro mare!”.
E così sappiamo – ma non possiamo rivelare come –, sappiamo che Jean Celan si accasciò nauseato dalle parole, e vomitò. (relazione a cura dell’Assembramento di Ricerca Etnografica)