Dal numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città
L’ultima assemblea, quella che ha decretato lo scioglimento del collettivo, l’abbiamo fatta a marzo del 2021. Ne avevamo parlato ogni giorno per mesi, ma in realtà sapevamo da tempo che le energie – e, per una parte del gruppo, gli stimoli – necessarie a portare avanti il lavoro iniziato quasi otto anni prima, si andavano assottigliando. Per qualcuno stavamo parlando solo di una squadra di calcio, ma chi c’era dall’inizio, e in fondo anche chi si era aggregato strada facendo, sapeva che erano in gioco anche altre questioni, relazioni, proposte politiche. Nonostante la strada fosse segnata, quell’assemblea non fu semplice. La cominciammo in quindici, la finimmo in cinque. Ci salutammo a tarda sera e ci dicemmo che avremmo dovuto comunicare in maniera adeguata quanto deciso, prima alla squadra e poi al quartiere.
I calciatori presero peggio di tutti lo scioglimento della Lokomotiv Flegrea. Qualcuno ci accusò di aver preso la decisione senza interpellare il gruppo squadra, ma noi avevamo provato sempre a coinvolgerli e nei momenti più tesi gli avevamo spiegato con tutte le parole che conoscevamo che sarebbe stato difficile proseguire ancora a lungo. I più lucidi erano stati più presenti del solito, per un po’, alle assemblee, alle feste di finanziamento, agli eventi con i bambini della scuola calcio. Ma a parte tre o quattro persone, i calciatori non riuscivano a garantire una continuità di impegno che per noi era fondamentale, non solo da un punto di vista pratico, ma anche simbolico. Uno di questi calciatori prese parola ancora prima che iniziasse la discussione: «Prima che cominciamo, ho una domanda: avete deciso di sciogliere la squadra?». Gli rispondemmo di sì. Lui si alzò in piedi senza dire nulla, si voltò e lasciò l’assemblea salutando a stento.
Prima di scrivere un comunicato pubblico, organizzammo un incontro con i genitori e i giovani atleti della scuola calcio (nell’anno che si andava concludendo avevamo formato dieci gruppi-squadra, con in tutto centoventi ragazzi e ragazze tra i sei e i sedici anni). Quando questi incontri riuscivano bene, ci davano la possibilità di parlare con una platea consistente, rappresentativa a suo modo di un quartiere complesso come Bagnoli. Centoventi bambini e adolescenti significano più o meno duecentocinquanta genitori, e ognuna di queste persone ha la propria vita, le proprie idee e relazioni. A questi numeri vanno aggiunti i calciatori della prima squadra con i loro amici, le persone che venivano a vedere le partite, i negozianti che davano una mano di tanto in tanto. Capitava così che al bar, al mercato, o al pranzo della domenica, in non poche strade e case del quartiere si materializzassero aneddoti, commenti tecnico-tattici, prospettive legate all’esistenza della Lokomotiv.
Quell’ultimo incontro fu molto duro. I genitori che si erano presentati erano quelli più assidui, e i ragazzi quelli più presenti nelle nostre attività, dal carnevale sociale ai tornei sportivi fuori città. Sapevano tutti, più o meno, cosa stavamo per comunicargli, ma il loro spaesamento sembrò quello di quando qualcuno ti dice in faccia che il tuo o la tua partner ti tradisce, sebbene tu lo sappia già.
Nei giorni successivi fummo in parecchi, tra i membri del collettivo, a ricevere decine di telefonate e centinaia di messaggi da ragazzi e genitori. Per qualcuno di loro fu veramente un colpo, e non certo perché il contributo mensile che gli chiedevamo era di soli quindici euro.
CALCIO POPOLARE
Fondammo la Lokomotiv Flegrea nell’estate 2013. A Napoli esisteva già una squadra di calcio popolare, la Stella Rossa, nata nel 2006 per opera di alcuni studenti politicizzati dell’università L’Orientale. Quell’esperienza è tutt’ora attiva, con momenti di altalenante gloria sportiva e politica, tra cui le tensioni legate alla fuoriuscita di un folto gruppo di militanti da uno dei più grossi centri sociali della città, a cui la squadra faceva o aveva fatto per un certo periodo riferimento. Nel 2012 era nato invece in provincia, a Quarto, un ambizioso progetto legato alla locale sezione del partito dei Carc, molto radicato tra i giovani del territorio. Per un po’ di anni il Quartograd ha concluso ogni stagione sportiva con una promozione, arrivando fino alle categorie più alte del calcio dilettantistico. L’altra squadra, infine, che più o meno contemporaneamente alla Lokomotiv decise di iscriversi a un campionato federale fu l’AfroNapoli, nata dal lavoro con i migranti fatto da giovani militanti antirazzisti, e che poi fu ripresa, strutturata e portata avanti da un gruppo di altri militanti, che fecero però una serie di scelte differenti rispetto ai canoni del cosiddetto “calcio popolare” (per esempio legando il loro lavoro sul territorio a sponsorizzazioni consistenti, come quella del colosso del privato sociale napoletano Gesco). Negli anni a venire, altre esperienze tutte diverse sarebbero nate in città e in Campania, e realtà già esistenti si sarebbero iscritte a campionati federali, come l’Atletico Brigante, la squadra antirazzista RFC Lions di Caserta e la scuola calcio popolare Spartak San Gennaro, nel quartiere di Montesanto a Napoli.
Quello tra il 2005 e il 2015 è stato un decennio di grande fermento per lo “sport popolare”, un movimento che parte da un’idea di sport come diritto, utilizza lo sport come chiave di lettura delle disuguaglianze sociali e della commercializzazione estrema di un bene comune, e spinge per una riappropriazione di questo diritto da parte degli appassionati, in opposizione al business incontrollato, alla privatizzazione degli spazi pubblici, alla competizione drogata e senza freni, ai numerosi e differenti sistemi di potere che gestiscono il tutto, dal livello locale fino alle grandi lobby internazionali.
Per quanto riguarda il calcio, il movimento trova le proprie radici in tante realtà nate in Italia già nella stagione del grande impegno politico di base, uno dei tanti strumenti di aggregazione e avvicinamento alle classi popolari che veniva utilizzato nei quartieri, soprattutto delle grandi città, per consolidare rapporti e alleanze tra classi sociali differenti. Tuttavia, molte di quelle realtà, che comunque non avevano connessioni una con l’altra, furono col tempo fagocitate dall’universo dell’associazionismo e dai tentativi di scalate sportive, o diluite all’interno di enti facenti riferimento ad aree o a partiti politici come l’Uisp, depotenziando la loro dimensione orizzontale e la loro indipendenza politica.
Un movimento più consolidato, seppure con una grossa difficoltà a darsi dei canoni e a fare rete, tornò a svilupparsi agli inizi del Duemila, per poi esplodere in tantissime città italiane a metà e fine decennio. Se parliamo anche solo di calcio e di palestre popolari, potremmo probabilmente contare oggi circa un centinaio di realtà su tutto il territorio nazionale.
La Lokomotiv nacque da un gruppo atipico rispetto agli standard del calcio popolare. Tra i militanti del nucleo originale, c’erano: quattro o cinque persone che non facevano parte di nessun percorso politico strutturato ma avevano partecipato al movimento studentesco dell’Onda, a quello per il diritto alla casa, a piccoli gruppi locali di disoccupati organizzati, alle lotte sul territorio di Bagnoli, alla rete di “antifascismo militante” che aveva cacciato CasaPound dal quartiere Materdei nel 2009; altri erano studenti e lavoratori giovani (tra i sedici e i vent’anni), appartenenti o vicini al collettivo comunista Iskra; ancora, un piccolo nucleo di frequentatori delle curve dello stadio San Paolo vicini ai centri sociali o con simpatie di sinistra. C’erano però anche persone estranee agli ambienti politici, che si erano avvicinate perché affascinate dall’estetica del tifo organizzato, dall’idea di rivendicare lo sport come diritto, da quella di fare qualcosa di utile per i ragazzi del quartiere (fin dalle prime riunioni si sottoscrisse un patto per cui, dopo un primo anno in cui si sarebbe iscritta la prima squadra al campionato di Terza Categoria della Figc, si sarebbe dovuto far nascere la prima scuola calcio popolare d’Italia).
PRIMI PASSI
Pur senza pianificare troppo, il primo anno fu caratterizzato dal tentativo di cercare sponde sui territori di appartenenza, ovvero l’area ovest della città metropolitana di Napoli. Il primo atto fu una selezione pubblica, con chiamata via internet e social network, per la formazione della squadra. L’invito a unirsi a un progetto che si definiva “sportivo e politico, nel senso nobile del termine”, e a partecipare a un provino, senza limiti di età, da cui sarebbero state scelte circa trenta persone.
Si attendevano una sessantina di candidati-calciatori, ne arrivarono più del doppio (il gestore del campo chiuse l’acqua calda per protesta). Terminati i provini, dopo una serie di ragionamenti collettivi, si decise di dare alcune indicazioni allo staff tecnico: nel gruppo squadra dovevano esserci quattro o cinque militanti-giocatori o comunque persone con le idee chiare rispetto al progetto. Questi calciatori-militanti avrebbero dovuto fare da ponte (e in effetti questa cosa funzionò) tra un mondo che a ragazzi “normali” poteva sembrare folle, con tutti i suoi codici e le sue regole etico-politiche, e calciatori dilettanti che talvolta andavano allo stadio, conoscevano un po’ il mondo ultras, avevano partecipato a qualche corteo studentesco, ma in buona parte erano completamente ignari e persino scettici rispetto alla galassia per loro misteriosa dei “centri sociali” (nostro malgrado era questa la semplificazione più efficace).
Una testata contro il muro fu invece il tentativo di occupazione di un campo abbandonato nel rione Cavalleggeri, di proprietà, per decenni, della vecchia fabbrica Italsider, che aveva ospitato le partite della squadra della fabbrica, oltre che quelle delle tante scuole calcio (a pagamento) della zona. Il campo era finito nel groviglio amministrativo-giudiziario legato alla “questione Bagnoli”, una ragione in più per noi per rivendicarne l’utilizzo libero e gratuito, a parziale risarcimento di decenni di espropriazione da parte dello Stato dell’enorme area su cui sorgeva il polo industriale, e del prezzo pagato dai suoi abitanti in termini di morti e malattie.
Sotto una pioggia amazzonica in venti scavalcammo i muri di recinzione e restammo nell’impianto fino a sera. Circondati da camionette e agenti di polizia, e minacciati da alti dirigenti della Fintecna (mega-società finanziatrice di gran parte delle partecipazioni statali e di enti pubblici di vario genere, divenuta proprietaria del campo), decidemmo alla fine di uscirne inzuppati e “con le buone”. Della cosa si parlò per un paio di giorni sui principali giornali cittadini, poi il campo dell’Italsider tornò nell’oblio dei piani di rigenerazione urbana dell’area, dov’è tuttora.
Come spesso accade, quell’esperienza negativa diede anche qualche frutto, e degli insegnamenti. Primo: consolidammo le relazioni con altri collettivi di sport popolare in altre città d’Italia (insieme ai napoletani c’erano quel giorno, per esempio, militanti venuti apposta da Taranto). Secondo: la poca partecipazione dei gruppi politici ci fece capire che, fatta eccezione per qualche dialogo con le altre squadre popolari, avremmo dovuto contare in futuro quasi solo sulle nostre forze (le altre squadre avevano alle proprie spalle un centro sociale o un’organizzazione politica, noi no). Terzo: a dispetto del radicamento che i singoli militanti avevano sul territorio, l’assenza quasi totale degli abitanti del quartiere ci fece capire che non saremmo andati lontano se non avessimo stabilito con loro un contatto reale. Per far ciò, ci dicemmo, avremmo dovuto lavorare in due direzioni: coinvolgimento di giovani attraverso il tifo organizzato alla prima squadra, coinvolgimento di bambini e famiglie attraverso la scuola calcio.
Se c’era una cosa in cui eravamo bravi, ognuno a suo modo, era comunicare con la gente. Le differenze all’interno del collettivo ci permettevano di intercettare gli ambiti più vari, dall’università (studenti e persino docenti) ai giovani professionisti, dai lavoratori al proletariato marginale dei quartieri in cui operavamo. Non senza qualche difficoltà si organizzavano volantinaggi in cui si spiegava agli abitanti di Bagnoli cos’era questa “squadra popolare”, si invitavano le persone alle partite della prima squadra e le mamme a portare i figli alla scuola calcio: lo si faceva davanti ai licei e agli istituti tecnici, alle scuole elementari “di frontiera” e a quelle “sperimentali” frequentate dai figli dei ricchi; al mercato e sul lido comunale di Bagnoli, una spiaggia libera quasi sempre sporca e trascurata (ma frequentatissima per mancanza di alternative), che culmina in una barriera di scogli sistemati a riva per impedire l’accesso al mare inquinato.
La stessa conformazione sociale del quartiere ci permise di costruire relazioni solide ed eterogenee. I calciatori più forti della prima squadra erano un operaio che aveva girato tutte le categorie minori, suo fratello che non studiava e non lavorava, uno studente che oggi opera nel campo delle agenzie immobiliari, un aspirante infermiere. Anche osservando il primo gruppo di bambini iscritti alla scuola calcio si delineava una trasversalità che avremmo spesso negli anni utilizzato per spiegare chi eravamo: “Nella nostra scuola calcio giocano insieme il figlio del contrabbandiere di sigarette e quello del magistrato che lo ha mandato in galera”.
A quel tessuto sociale così vario, la nostra proposta aveva tanto da offrire. C’erano gli studenti delle superiori, i ragazzi a cui piaceva fare casino allo stadio, i ventenni e trentenni che popolano Bagnoli, operai o lavoratori nella ristorazione, appartenenti a famiglie discendenti dei caschi gialli dell’Italsider. A loro proponevamo un modello aggregativo che ricordava quello ultras senza scimmiottarlo, un’assemblea che prendeva decisioni in maniera orizzontale, un progressivo coinvolgimento nelle attività più esplicitamente politiche, come un corteo nel quartiere, una protesta contro la lottizzazione dell’ex base Nato e dei suoi spazi sportivi, una festa per finanziare una “cassa di resistenza”. Per quanto riguarda le famiglie, invece, la proposta di una comunità che ripudiava il fanatismo e la speculazione che regnano nel mondo del calcio giovanile, ma anche qualcosa di più concreto, ovvero l’ammontare irrisorio del contributo che si sarebbe dovuto versare per partecipare alle attività. Se proponi qualcosa gratis – imparammo facendo – per la maggior parte delle persone non puoi essere all’altezza di chi per fare la stessa cosa chiede dei soldi. E così, dopo una serie di riflessioni, fissammo la quota mensile a dieci euro (un terzo, persino un quarto delle altre scuole calcio). Il kit di abbigliamento che gli altri vendevano ad almeno centocinquanta euro (a volte trecento), noi lo vendevamo a prezzo di costo (cinquanta o sessanta euro). L’iscrizione (venti euro) era finalizzata a pagare le spese burocratiche di tesseramento, ben diversamente dagli innumerevoli mensili in anticipo (fino a tre o quattrocento euro) che le scuole calcio pretendono all’inizio dell’anno da ogni famiglia. Dovevamo apparire uguali agli altri, con un bel campo, i completini, i mister e i campionati. Non dovevamo avere paura che la gente scegliesse la Lokomotiv perché era “una scuola calcio economica”: avremmo avuto il tempo per far capire dove stavamo andando, tanto ai ragazzi quanto ai genitori.
SENZA FRETTA
Alla fine del primo anno la prima squadra arrivò alle semifinali play-off. Fu una stagione esaltante: in campo eravamo seguiti da mister Tedesco (trentenne ambizioso e lucido abbastanza da capire dove si trovava, che avrebbe negli anni successivi allenato la Casertana in Serie C, gli under 19 della nazionale di Malta e la Primavera del Napoli); sugli spalti portavamo cinquanta persone a ogni partita – parliamo della categoria dilettantistica più bassa esistente – con picchi fino a duecento; la relazione tra i membri del collettivo, lo staff tecnico e la squadra era costante, si andava a cena fuori insieme, si mettevano davanti a una birra ragazzi che difficilmente avrebbero comunicato tra loro in altri contesti, si seguivano gli allenamenti e le questioni personali dei calciatori, si organizzavano insieme il tifo e le trasferte.
Anche la scuola calcio partì bene. Gli iscritti furono tanti, così come le antipatie e i pettegolezzi che suscitammo tra i presidenti e gli allenatori delle altre squadre giovanili, che non capendo i nostri obiettivi reali ci accusavano di “concorrenza sleale”. Con i quaranta ragazzi che si iscrissero nel 2014 siamo in tanti ad avere ancora rapporti, a distanza di dieci anni. Alcuni sono maggiorenni, molti li incontriamo al bar o per strada; quelli che giocano ancora ci invitano a vedere le loro partite, ma ci consultano anche per le cose più serie (per esempio se accettare o meno una proposta di lavoro del genere: tre euro all’ora, a nero, per consegnare i caffè).
Il gruppo che si occupava della scuola calcio non teorizzò mai un metodo. Cominciammo in tre, tutti con esperienze come educatori, differenti una dall’altra. La forte tradizione cittadina in termini di lavoro politico-sociale con i bambini e gli adolescenti ci ispirò e aiutò spesso. Cominciammo a costruire rapporti di fiducia con i ragazzi, coscienti che si trattava di un lavoro diverso da quello della militanza tradizionale: se hai la febbre puoi mancare a un corteo, anche se è previsto che tu intervenga al megafono; se sei l’allenatore di una squadra di bambini e fai due o tre assenze in un mese, hai perso credibilità agli occhi dei tuoi atleti prima ancora di conquistarli.
Con nostra sorpresa, dopo qualche anno le famiglie del quartiere che erano più in difficoltà cominciarono a chiederci supporto. Dapprima per risolvere problemi burocratici, gestire il delicato rapporto con gli assistenti sociali o accompagnare i bambini a una visita medica. Poi cominciarono a chiederci consigli anche sulle scelte da fare, non soltanto educative, e non soltanto riguardanti i figli. C’erano mamme casalinghe che stavano con noi semplicemente per divertirsi, ai tornei fuori città, alle sfilate del carnevale, alle iniziative in un terreno che avevamo occupato sulla collina di San Laise, a ridosso dell’ex base Nato.
Probabilmente è stata l’affidabilità a fare la differenza. L’ascolto e la pazienza hanno fatto il resto, più ancora della comprensione e dell’approvazione per quello che stavamo facendo (ai loro occhi: impegnarsi gratis per il prossimo, dare un buon esempio ai ragazzi, diffondere pratiche che facevano star bene tutti). Per noi andava bene, sebbene sapessimo che qualcuno si approfittava della nostra disponibilità, utilizzandoci per sostituire di volta in volta le figure del baby-sitter, del taxi, dei servizi sociali, forse anche del prete. In compenso, negli otto anni di attività, abbiamo avuto genitori della scuola calcio, anche provenienti dalle fasce sociali più marginali, che hanno fatto gli allenatori, i segretari, gli autisti del pulmino, i magazzinieri, i cuochi e le cuoche per le feste di autofinanziamento; negozianti del quartiere che hanno sponsorizzato la squadra senza nemmeno chiedere di mettere il logo sulla maglia; vecchi allenatori e professori di educazione fisica che ci regalavano il materiale tecnico che poteva servire, giocatori che facevano i grafici, grafici che facevano i guardalinee, presidenti che prendevano anni di Daspo per aver acceso qualche fumogeno in tribuna.
Il giorno della promozione della prima squadra dalla Seconda alla Prima Categoria sugli spalti c’erano quasi quattrocento persone. Oltre al gruppo di giovani scalmanati che voleva vedere la partita, bere, cantare, fumare e festeggiare, c’erano tantissimi abitanti del quartiere, quindici-venti genitori e almeno una cinquantina di piccoli calciatori che finita la partita entrarono in campo portando un drappo verde e nero di dieci metri per dieci.
SOTTO PRESSIONE
C’era ovviamente anche dell’altro. Per esempio, i soldi da gestire, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità, ansia e stress per la costante situazione debitoria: tra squadre di basket e calcio, con relative iscrizioni e tesseramenti, abbigliamento da gara, trasferte, spese legate al tifo, assicurazione del pulmino e decine di altre voci, eravamo arrivati a spendere circa quarantamila euro all’anno, che racimolavamo con nostro stesso stupore attraverso quote sociali, cene, feste, vendita del merchandising e piccole sponsorizzazioni.
Nel gruppo c’era una costante dialettica, riconducibile alle diverse sensibilità, estrazioni sociali e politiche dei membri, che, se da un lato era una ricchezza, dall’altro ci faceva trovare spesso in disaccordo, inasprendo le divergenze invece di condurle a una sintesi. Diverse erano anche le attitudini di ciascuno nei confronti della possibilità di qualche compromesso (per esempio la creazione di una sorta di “codice etico” per le attività che ci sponsorizzavano), così come le possibilità di coniugare le vicende private con un impegno militante che necessitava un continuo e massiccio coinvolgimento.
Tutto questo si traduceva in un livello di pressione alto e costante, tanto da diventare, io credo, la principale motivazione per cui a un certo punto non siamo riusciti ad andare oltre. Da fuori sembravamo una macchina da guerra, procedevamo in una sorta di inerzia creativa, aggiungendo di volta in volta nuove sfide. Ci sono stati anni in cui gestivamo una squadra di basket arrivata fino alla Serie D, una di calcio che aveva quasi raggiunto la Promozione e una scuola calcio con più di cento ragazzini, alcuni dei quali corteggiatissimi dalle società più blasonate della città; avevamo occupato e riqualificato uno spazio abbandonato denunciando il rischio cementificazione di un’area verde del quartiere; alcuni di noi viaggiavano spesso per confrontarsi con altre realtà di sport popolare in Italia e in Europa, così come una volta all’anno partivamo per tre o quattro giorni con una trentina di ragazzi per un torneo internazionale. Partecipavamo a laboratori di teatro pedagogico e facevamo doposcuola ai ragazzini più riottosi; organizzavamo la sfilata del carnevale sociale e quando possibile cercavamo di essere presenti alle manifestazioni dei disoccupati o degli studenti. Tutto nell’ostinato tentativo di aprire dei varchi, costruire relazioni e comunicare con persone con cui si faceva fatica a parlare di temi più esplicitamente politici. Ma, probabilmente, troppo per le forze che riuscivamo a mettere in campo.
Man mano che le energie dei fondatori si andavano esaurendo, troppo pochi infatti sono stati i nuovi arrivati che avevano intenzione di dedicarsi in maniera così totalizzante al progetto. Ad aver penalizzato gli ultimi anni di lavoro è stata anche la crescente settorializzazione: c’è stato un momento in cui chi organizzava la scuola calcio non sapeva bene cosa succedesse nella prima squadra e viceversa; chi organizzava il tifo non era al corrente della situazione economica; chi organizzava le iniziative di lotta o di finanziamento non sapeva se nel giorno scelto c’era un allenamento o una riunione tecnica della squadra. Questo si rifletteva anche sul lavoro politico. C’era chi insisteva sul confronto interno e sul coinvolgimento del quartiere, mentre altri dedicavano tantissime energie agli aspetti organizzativi e tecnici, ma questo, per esempio, ebbe come conseguenza che i calciatori della prima squadra fossero sempre meno coinvolti, ed esclusivamente concentrati sulle vittorie dei campionati.
Non eravamo, inoltre, dei “militanti modello”. Non eravamo capaci di mediare, di accomodare, di fare manovre o gestire equilibri tra i piccoli gruppi che naturalmente si vengono a creare in uno stesso collettivo, anche a causa della nostra composizione sociale trasversale. Nelle nostre assemblee si urlava di continuo, qualche volta si è arrivati alle mani, e abbiamo perso anche risorse umane preziose perché in molti ci consideravano brutti, sporchi e cattivi.
Se da un lato, però, è vero che questo fare senza filtri – che spesso è attenuato dalle pratiche di ars politica anche negli ambienti “di movimento” – ha spesso incrinato dei rapporti, dall’altro va detto che, se oggi con (quasi) tutti i membri di quel collettivo riusciamo in un corteo o in un’assemblea a guardarci negli occhi senza abbassare lo sguardo, tutto sommato poteva andare peggio.
UN PASSO INDIETRO
Gli abitanti del quartiere, e più di tutti i ragazzini, ci chiedono spesso: “Ma non la fate un’altra volta la Lokomotiv?”. Noi rispondiamo, un po’ provocatoriamente ma non troppo, soprattutto ai più giovani, che la Lokomotiv l’abbiamo già fatta, ora se vogliono possono “rifarla” loro.
In questi anni non siamo riusciti a dare un contributo in senso propriamente politico (se non in termini di solidarietà e mutuo aiuto) a chissà quanta gente del quartiere. Qualcuna tra le persone con cui siamo entrati in contatto oggi frequenta il movimento dei disoccupati 7Novembre, che ha un forte nucleo a Bagnoli, o partecipa alle attività della casa del popolo Villa Medusa. Lo fanno anche molti tra i ragazzini, che hanno imparato a usare uno spazio che non è una zona franca, ma un posto in cui possono sentirsi più liberi e coinvolti, meno controllati e oppressi che altrove. Tra i ragazzini c’è però anche chi è finito in comunità o in carcere; altri hanno lasciato la scuola appena compiuti sedici anni, qualcuno anche prima. Per loro è stato fatto molto, ma evidentemente non era abbastanza. Per cui, forse, la cosa più consistente che ha lasciato questa esperienza è l’idea che si possano fare cose grosse anche senza grandi risorse, ma con volontà, determinazione e generosità.
Il problema vero è piuttosto che questo tipo di relazioni non si riproduce – se non in rari casi – a catena: quello che si costruisce condividendo esperienze e prospettive non si trasmette in automatico da A a B, da B a C, e così via. Queste contaminazioni e alleanze possono rimanere solide anche per periodi di tempo lunghi, ma se le pratiche quotidiane non vengono alimentate con nuove energie, gli scambi rischiano di restare limitati al fortunato terreno su cui quelle persone si sono incrociate, e alle vite di quelle stesse singole persone. Certo, si tratta già di un piccolo risultato, ma quando abbiamo deciso di mettere fine al percorso della Lokomotiv è stato questo per noi, e forse anche per un po’ di gente di Bagnoli, il vero grosso rammarico. (riccardo rosa)