Da Repubblica Napoli del 14 settembre
Sono passati tre anni da quando il progetto Chance, che intendeva fornire ai giovani esclusi dalla scuola dell’obbligo una seconda opportunità, ha chiuso i battenti. Nelle scuole della nostra città, che in questi giorni affrettano i preparativi per la nuova stagione, sembra che gli undici anni di quella esperienza siano passati senza lasciare traccia. Eppure l’epopea dei maestri di strada, i loro metodi pedagogici, le loro storie personali intrecciate con quelle dei ragazzi, suscitarono fin dai primi passi un interesse costante sia in Italia che all’estero, ispirando centinaia di articoli e poi narrazioni più articolate, a volte fin troppo romantiche e fantasiose. Il lavoro delle equipe di educatori e insegnanti, dislocati in tre aree della città per intercettare gli adolescenti marginali e ridurre il danno dell’esclusione sociale, ebbe una visibilità quasi ininterrotta, ponendosi al centro del dibattito sull’insegnamento, se non in maniera esplicita di certo come onnipresente convitato di pietra.
Da quando Chance è defunto, in seguito a una breve agonia decretata dalle forze ormai allo sbando del centrosinistra bassoliniano, nessun bilancio pubblico è stato fatto di tale esperienza. Nessuna condivisione dei frutti migliori, nessuna disamina critica di quelli più acerbi o bacati. Come spesso accade, le istituzioni hanno voltato pagina senza avvertire il bisogno di guardarsi indietro. Eppure il progetto era nato e cresciuto nell’alveo istituzionale, in una rara congiuntura che aveva fatto incontrare le idee e l’intraprendenza di alcuni insegnanti e operatori sociali con la disponibilità a investire risorse da parte di amministratori e politici. Certo, è ancora possibile rintracciare scritti e testimonianze sulle cose fatte e pensate nel corso di quegli undici anni, e le più affidabili sono quelle di chi era coinvolto in prima persona. Il libro di Carla Melazzini, “Insegnare al principe di Danimarca”, edito due anni fa, ci racconta meglio di qualsiasi altro saggio o romanzo la Napoli di questo inizio di secolo. Un libro postumo, in qualche modo collettivo, che attraverso le parole di questa insegnante valtellinese trapiantata nella periferia orientale di Napoli, rende conto del senso e delle ambizioni di un’avventura che ha coinvolto, tra giovani e adulti, centinaia di persone.
A pensarci bene però, la subitanea scomparsa dall’orizzonte della scuola delle questioni organizzative che Chance sollevava, dei soggetti sociali che metteva in primo piano, delle domande inevase che poneva, non può affatto meravigliarci. Quell’esperimento, infatti, non era tanto il tentativo di mettere in pratica un modello diverso di scuola, un’eccezione alla regola certificata dall’alto, ma finì col diventare la realizzazione, per quanto perfettibile e a volte sbilenca, di un’anti-scuola. Una cosa completamente diversa. La compresenza di educatori e insegnanti, di psicologi e pedagogisti; la riflessione sulle pratiche affidata alla collegialità quotidiana, non al periodico collegio dei docenti; la preminenza accordata ai laboratori e alle uscite sistematiche sul territorio, non come appendici della lezione frontale ma come luoghi privilegiati dell’insegnamento; l’enfasi posta sull’importanza del gruppo, formato da alunni e insegnanti, nel percorso individuale di ognuno; la priorità data alla gratificazione rispetto alla punizione; la difesa ostinata degli ultimi della classe, la battaglia contro lo stigma, la disponibilità ad apprendere da loro, e non solo a insegnare. Basta questo breve incompleto elenco per capire come Chance si fosse strutturata negli anni come la negazione della scuola che ci ritroviamo oggi; e quindi perché, queste ed altre caratteristiche, una volta chiusa la decennale parentesi, siano state presto riassorbite, banalizzate, depotenziate dalla routine della scuola com’è.
L’eredità di questa esperienza – e i suoi portatori – sembra essersi talmente diluita, e in così poco tempo, nel corpo delle istituzioni educative da rendere ormai molto difficile rintracciarla, restituirle coesione e sviluppo. I fondatori del progetto, ognuno a suo modo, chi a Napoli in periferia, chi a Roma nel ministero, continuano a insistere sulle priorità – sociali, metodologiche, politiche – che l’esperimento di Chance aveva portato alla luce. Gli insegnanti distaccati dalle scuole al progetto sono tornati alle sedi di provenienza. Qualcuno è andato in pensione. I pedagogisti, gli psicologi sono tornati a fare il loro mestiere, che difficilmente li rimetterà in contatto così stretto e immediato con l’oggetto delle loro analisi. I tanti giovani educatori che integravano le equipe di Chance sono, tra gli adulti, quelli che hanno avuto la sorte peggiore. Nello sfascio dello stato sociale di questi anni sono stati abbandonati a se stessi, senza nessun salvagente che salvaguardasse il bagaglio di conoscenze acquisite e la possibilità di valorizzarlo. Quelli che fanno ancora questo mestiere hanno dovuto mettere da parte le velleità, adattandosi alle condizioni avverse, pieni di rabbia e frustrazione per essere precipitati fin quasi alla stregua dei “soggetti a rischio” che fino a poco tempo prima cercavano di tirar fuori dalla palude.
Infine ci sono loro, sempre uguali a se stessi, i dispersi, gli invisibili, i ragazzi e le ragazze che abitano i ghetti urbani, rifiutano le scuole e ne sono rifiutati; intrattabili, pazzi, criminali se giudicati con il metro del mondo “civilizzato”. Ma anche una spia sempre accesa, un monito silenzioso, il tarlo di un dubbio: che una scuola incapace di adattarsi anche alle loro esigenze, che non riesce a creare per loro degli spazi di ascolto e di parola, che non ha il coraggio di cambiare punto di vista mettendosi in discussione fino a farsi rivoluzionare, non è la scuola di cui abbiamo tutti bisogno per affrontare le difficoltà del nostro tempo. (luca rossomando)