Il 20 settembre 2003 il Napoli è in serie B. La stagione calcistica è iniziata nella confusione generale: il “caso Catania”, riammesso alla serie cadetta dopo un ricorso al TAR, ha da qualche mese gettato nello scompiglio la Federazione e il Coni, che incapaci di sbrogliare la matassa identificano la soluzione nell’aumento del numero delle squadre, da venti a ventiquattro. È la quinta giornata. Dopo aver collezionato una sconfitta casalinga contro il Como e due pareggi (la prima gara, contro il Verona, era stata rinviata in attesa di una decisione della Federazione riguardante il caso di cui sopra) il Napoli è atteso dall’Avellino al Partenio. Il derby non si gioca da sedici anni, campionato 1987/88.
Prima della partita i tifosi partenopei entrano in contatto con le forze dell’ordine. Qualcuno tra loro lamenterà una cattiva gestione del settore ospiti da parte della società avellinese, la presenza di alcune barriere che impediscono un agevole accesso agli spalti, una strana distribuzione dei biglietti per la curva napoletana; altri accuseranno i napoletani di essersi presentati allo stadio in gran numero senza biglietto. Fatto sta che proprio a ridosso del settore la polizia carica i tifosi, dando origine a un fuggi fuggi generale. Per mettersi in salvo dagli scontri, Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, forse spinto, salta da una delle tribune, atterrando su una pensilina in plexiglass che non regge l’impatto e crolla. Sergio precipita da un’altezza di circa dieci metri, e muore alcuni minuti dopo. L’arrivo dei soccorsi in notevole ritardo – testimonianze a processo parlano di trenta minuti – scatena una reazione violenta degli ultras napoletani, che scendono in campo come impazziti. Gli scontri con la polizia lasceranno decine di feriti e una lunga squalifica per il San Paolo. Al termine del campionato il Napoli si classificherà al quattordicesimo posto.
Sono passati dieci anni da quella notte. Il processo per la morte di Sergio Ercolano ha subito l’archiviazione. Dopo un anno e cinque mesi di indagini il gip Daniela Cortucci scagionò i tre rappresentanti del comune e della società calcistica irpina dall’accusa di omicidio colposo. Successivamente, un secondo procedimento civile non riconobbe alla famiglia Ercolano alcun risarcimento economico, dal momento che l’Avellino, pur responsabile della struttura, non lo sarebbe stato nel caso specifico, dal momento in cui il fatto si sarebbe “verificato in virtù di una condotta imprevedibile e inevitabile, quindi estranea alla sfera di controllo del custode”.
Nel frattempo il calcio italiano è estremamente cambiato. La morte di Sergio Ercolano, assieme a quella dell’ispettore Raciti (Catania, 2007), e a quella del tifoso laziale Gabriele Sandri, ucciso sempre nel 2007 da un colpo di pistola sparato dal carabiniere Spaccarotella, sono tra gli eventi più rilevanti che negli ultimi dieci anni hanno portato a una risposta fortemente repressiva da parte dello Stato nei confronti del fenomeno ultras. A conclusione di questo percorso l’istituzione nell’aprile del 2009 della Tessera del tifoso, che ha colpito in maniera quasi letale il tifo delle curve italiane, finendo per distruggere una intera sottocultura, insieme ai fenomeni violenti che si proponeva di arginare.
Sono passati dieci anni da quel 20 settembre, e la guerra dello Stato contro il tifo organizzato è quasi vinta. La repressione degli ultimi anni ha contribuito allo svuotamento degli stadi e al rafforzamento del potere delle televisioni a pagamento. Nonostante almeno due ministri degli interni si facciano vanto di aver sconfitto gli ultras, di aver contribuito a creare stadi più sicuri e fruibili, il calo dei biglietti venduti e degli abbonamenti è pauroso. La stagione 2012/13 ha fatto peggio da questo punto di vista delle ultime otto, fatta eccezione per il campionato 2006/07 (che non fa praticamente testo, dovendo fare a meno di due tra i bacini di pubblico più grandi, come quelli di Napoli e Juve, entrambe in serie B). La metà degli stadi della serie A mostra ogni domenica settori vuoti o quasi, tanto che qualche presidente aveva addirittura parlato di istituire un sistema di “tifo elettronico”. Tredici formazioni su venti hanno avuto nel 2012/13 un calo di presenze rispetto all’anno precedente, mentre comincia a prendere corpo, che si parli di squadre grandi o piccole, l’idea di costruire impianti nuovi, meno capienti, e che siano assai più simili a centri commerciali che a stadi.
Tra i pochi che fanno eccezione a questo processo, c’è il San Paolo di Napoli. Se dieci anni fa la squadra azzurra era ospite dell’Avellino, ieri ha sconfitto meritatamente i vicecampioni d’Europa del Borussia Dortmund. Pur tenendo conto di una serie di storture e insufficienze tecniche e societarie (per colpa delle quali il Napoli negli ultimi anni ha raccolto assai meno di quanto avrebbe potuto), va dato atto alla nuova gestione di aver ridato un respiro internazionale al calcio partenopeo, che mancava da oltre vent’anni. Ancora una volta, come sempre è accaduto nelle notti di Champions, il pubblico napoletano non si è fatto spaventare dai prezzi altissimi e ha riempito il San Paolo fino al tutto esaurito.
Quello dello stadio, però, è uno degli anelli più deboli che ostacolano la definitiva consacrazione europea della società, e di conseguenza della squadra. Per diversi motivi di ordine logistico, tecnico ed economico, la nuova amministrazione comunale, che avrebbe voluto legare il nome del sindaco de Magistris alla costruzione di un nuovo stadio a Ponticelli, sembra aver finalmente rinunciato all’idea. La carenza di infrastrutture, la difficoltà a muoversi con i mezzi pubblici, la perplessità nei confronti di chi intenderebbe investire sulla zona, sconsigliano la delocalizzazione dello stadio in periferia. Molto meglio lavorare sul San Paolo, anche a costo di rivoltarlo come un calzino. Le frange più conservatrici del tifo organizzato, forse preoccupate di ritrovarsi con un San Paolo che abbia dentro cinema e ristoranti, negozi di merchandising in ogni dove e un pubblico da circo (inteso non come il pubblico del circo, ma come i poveri animali ammaestrati che nel circo vi agiscono), sembrano abbastanza scettici nei confronti di una ristrutturazione totale. Eppure sullo stadio la società deve intervenire quanto prima, di concerto con l’amministrazione comunale, tanto più che gli ultimi lavori importanti, effettuati tra l’altro in maniera opinabile, risalgono al 1990.
De Magistris e i suoi assessori hanno spesso contestato le modalità e le cifre con cui il Napoli usufruisce del San Paolo, ignorando che senza la società azzurra avere un impianto così grande in un quartiere così centrale come Fuorigrotta sarebbe assolutamente inutile. De Laurentiis dal canto suo dice di volerlo comprare, ma non ha ancora fatto passi concreti in questa direzione. Se il Napoli vuole davvero diventare una realtà calcistica europea ha bisogno di uno San Paolo nuovo. Di questa operazione, se effettuata con sapienza e prudenza, potrebbe usufruire un’area strategicamente molto importante per la città, come l’intera zona flegrea. Tutto ciò, in ogni caso, è possibile anche senza che il San Paolo diventi necessariamente uno stadio per tifosi bacchettoni, interessati solo a comprare la sciarpa celebrativa della partita e l’hot dog a metà tempo. Gli stadi tedeschi insegnano che anche il tifo più caldo e allergico alle rigide regolamentazioni previste da Uefa e federazioni può starci bene, in un impianto nuovo e confortevole, senza rinunciare alla propria identità (ieri gli ultras del Dortmund hanno acceso decine di fumogeni, in teoria vietati).
Più che per le strade oggi la partita del tifo si gioca sugli spalti. Almeno per quanto riguarda l’Europa occidentale, come i movimenti e i partiti politici, gli ultras non hanno quasi più la forza di incidere attraverso l’aggregazione e la “militanza”. Almeno è sempre più difficile farlo all’esterno degli impianti. Una speranza di evitare però la scomparsa totale di una sottocultura che ha comunque caratterizzato la storia degli ultimi cinquant’anni è una rimodulazione del fenomeno. Governare (forse sarebbe più politically correct dire “coordinare”) una curva è oggi sempre più difficile. Gli ultras, quasi ovunque, si frammentano sempre più in tanti piccoli gruppi, che in molte occasioni rinunciano alla pretesa di trascinare l’intero settore verso un tifo fatto “a modo loro”, ma si esaltano nell’esibire la propria diversità, quella di un gruppo di appassionati “vecchia maniera”: chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. Progressivamente, anche il San Paolo sta seguendo questa tendenza, che forse può far bene alla sopravvivenza del mondo ultras così come lo si è conosciuto negli anni.
Tuttavia, considerando i modelli dei grandi stadi e delle grandi società europee, non sarà facile per i tifosi organizzati napoletani riuscire a mantenere questa identità. I prezzi sempre più alti dei biglietti e l’impossibilità morale (causa tessera del tifoso) di sottoscrivere l’abbonamento; i divieti (sempre per chi non ha la tessera) di andare in trasferta quasi ovunque in giro per l’Italia; le diffide cadute a pioggia negli anni e la fine quasi totale della dinamica dello scontro con il tifoso avversario, che comunque contribuiva – indipendentemente dal giudizio morale sulla questione – a compattare l’ambiente attorno a determinate consuetudini, valori, e fino a un certo punto anche etica. Tutto questo rende la re-esistenza dell’ultras una vera impresa. A Napoli, come in pochi altri contesti, però, questo può essere possibile, soprattutto se il tifo organizzato sarà capace di legittimarsi come soggetto di cui tener conto. Se la squadra ha conosciuto un ciclo vincente negli ultimi anni è anche per merito loro, e ignorare le loro esigenze, per esempio, nell’ambito del prossimo restyling del San Paolo sarebbe ingiusto oltre che controproducente. Gli interessi in gioco tuttavia sono altissimi: un impianto con diecimila posti in meno vale ventimila abbonamenti tv in più, e la presenza di attività completamente estranee al calcio (cinema, negozi, ristoranti) all’interno dello stadio, costituisce per i presidenti e gli sponsor fonte di guadagno miliardaria. Per riuscire, un domani, a dire la propria contro tutto questo, i tifosi organizzati hanno bisogno di rimarcare sempre più le proprie differenze rispetto al resto del pubblico pagante, senza arrivare allo scontro ma allo stesso tempo evitando il rischio della autoreferenzialità. Solo così, forse, potranno legittimarsi come soggetto sociale capace di avere qualche voce in capitolo, prima che anche da queste parti il calcio diventi il teatrino che sembra piacere a tutti gli altri. (riccardo rosa)
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