da Napoli Monitor n. 51 – Novembre/Dicembre 2012
Scrivo molto tempo dopo aver visto, avido, il film di Leonardo Di Costanzo. Ancora, il film non mi passa dalla mente. «Perché mi racconti questa storia?» dice la ragazza al ragazzo, a un certo punto del film. «Perché è una storia…». E tu, perché mi racconti questa storia, Leonardo? «Ma come perché? perché è una storia», mi sembra di sentirlo rispondere come il personaggio del film.
Non affannatevi, vedendo L’intervallo, a cercare un perché al di fuori della vostra immersione nella storia, al di fuori delle storie, delle vostre storie, che la storia di Leonardo accende come solo una narrazione orale e corale sa fare, dentro di voi, e come solo – aveva detto Benjamin a proposito di un viaggiatore incantato – chi fa ancora esperienza del mondo, raramente, sa ancora fare. Non chiedetevi perché vi racconta quelle storie, come se esistesse un perché al di fuori delle storie.
L’Intervallo ci fa un grande dono, ci regala un intervallo nelle storiacce delle nostre vite, nella soffocante afasia delle storie esplicative, fatte dagli stessi che predicano la fine delle narrazioni otto-novecentesche, delle loro frasi fatte. Delle storie costruite intorno alle soluzioni precotte, quelle degli esperti e dei loro scimmiottatori, esperti che si rifiutano di fare esperienza, di essere curiosi, di prendersi un intervallo nella loro “professionalità”.
Sentite forse dire in giro che è un film contro la camorra e, nello stesso tempo, che è un film che non denuncia abbastanza la camorra. È, invece, molto di più che una denuncia, più che una condanna, come ci si aspetterebbe da un film banalmente realista, a cui lo si vuole ridurre; ridurre il suo senso a impegno e militanza, a scorciatoia esplicativa. Parla, se a voi pare, certo, anche di camorra, ma come se la camorra forse una parte di qualcosa di più grande, di una condizione umana, soprattutto della gioventù. Non è, nell’accezione banale del concetto, un film militante, né un film progressista. È comunque un film pedagogico.
Ho avuto la fortuna di avere un’infanzia raccolta nelle storie di mia nonna sul tuono, il diavolo e sua moglie, al riparo dalla nostra stessa povertà. Ho avuto la fortuna di ascoltarla a bocca aperta e di meravigliarmi sempre, senza chiederle il perché delle sue storie. Ma non è solo un fatto di lontana infanzia; vedendolo, io mi sono fatto la mia storia, quella che la visione del film ha acceso riaccendendo antiche esperienze, dei ragazzi che incontravo, e incontro, facendo il maestro di strada.
È una storia che mi parla di interno e di esterno, di chiuso e di aperto e mi ricorda quanto, come mirabilmente dice Carla Melazzini in Insegnare al principe di Danimarca, è l’aperto della strada che spesso è più claustrofobico del chiuso di una casa e del suo riparo. La strada è il chiuso dei copioni esistenziali a cui siamo, non solo i ragazzi del film e quelli ai quali allude, consegnati, con ruoli, gesti e parole già definiti. È il chiuso di un vecchio manicomio, a sua volta racchiuso nel manicomio edilizio della nostra città, sorvolato da aerei rumorosi che hanno perso la loro metafora di fuga e salvezza, “volare via”, che consente il fiorire di una relazione sorprendente agli stessi personaggi. È il suo “giardino segreto”, dove è impossibile lo sguardo panottico del controllo totale, dove un cardellino non allevato ma libero, una cagna che partorisce in pace, una morte e la sua leggenda, la paura dei topi consentono gesti di cura e parole di curiosità, consentono il rispetto e la pietà, risposte che non ti aspetti. Dove è possibile essere gentili.
È come se la sapienza documentaria, ma forse è sempre stato superficiale definirla così, del regista, avesse avuto bisogno anch’essa di sospensione degli agiti e dei copioni, per dare tempo a altro d’emergere e essere scoperto.
È un film forse che parla, per chi lo fa e per una città curiosa e capace quindi di cura, del lavoro sociale molto meglio di tanti documentari e di tanto realismo; parla dell’esistenza resiliente di uno spazio interno in molti ragazzi dati per “dispersi” per sempre, spazio senza del quale non c’è speranza di futuro. Educare, allora, significa sapere questo e offrire spazi protetti, anche se tra le macerie dove il tempo e la modernità sembrano non scorrere ma solo sorvolarci rumorosi, come gli aerei, senza avere più la potenza di una speranza di fuga. Solo un cardellino sa presagire quello che accadrà.
È un film per certi versi antico, e che solo così può parlare del presente. (salvatore pirozzi)
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