«Pronto… Professore… Mi dovete aiutare». «Ma che è uno scherzo? Chi è?». «Professò sono Ambrosone, scusate se vi chiamo a quest’ora di domenica… ». «Effettivamente è ora di pranzo…». «Professò voi mi dovete aiutare, io sto male. Troppo male». «Senta, guardi, mi chiami tranquillamente dottore… Mi vuole spiegare di cosa si tratta? Per chiamare di domenica deve trattarsi di un’urgenza». «Ma certo Professore, e se no mica vi disturbavo. È un’urgenza che tengo da un paio d’anni…». «Un paio d’anni? Ma che urgenza è?». «Prufessò l’urgenza è che non ce la faccio più, sto ascenno pazzo».
Ambrosone è un rappresentante di quella stramba porzione dell’umanità che trova nella medicina il suo oppiaceo. È un’umanità che oscilla con le sue paturnie tra il tragico e il ridicolo, affollando gli ambulatori in cerca di una patologia e non di una cura. E prenotano visite, parlano di guai mentre aspettano il turno, vanno dal farmacista di fiducia come se dovessero comprare funghi porcini. Ambrosone quando esce dallo studio di un professore (non si farebbe mai visitare da un semplice dottore) senza adeguata terapia comincia e girare finché non ne trova uno che gli compili una bella ricetta zeppa di farmaci. È così la vita di migliaia di Ambrosone che si dividono fra ambulatori e farmacie, in un paese in cui ogni giorno quattrocento persone vengono ricoverate per effetti collaterali all’uso di farmaci e un bambino su tre riceve farmaci sbagliati, finendo al pronto soccorso otto volte su dieci. Antibiotici, antiallergici, antiemetici, antipiretici. Montagne di pillole che dovrebbero lenire patologie fantasma germinate dagli angoli oscuri del cuore e che per farlo lesionano il corpo.
«Senta, guardi, oggi è un festivo e io dovrei dedicarmi alla mia famiglia, se ha un’urgenza me la spieghi o chiudiamo questa conversazione». «No Professò non dite così che mi suicido. Io non dormo più. Tengo un clic dentro il polso ogni volta che lo muovo. Mi faccio la barba, mi lavo i denti, mangio e ‘stu clic sta sempre là mi sta facendo uscire pazzo. Professò io mi sono deciso, mi voglio operare».
Era il grande salto, nell’autunno ombroso del 2002, l’occasione per varcare l’ultimo confine e arrivare sul tavolo operatorio. Per aggiungere una cicatrice gloriosa a una vita da reduce di terapie e corridoi di ambulatorio. C’è un rapporto oscuro, maligno, che lega certi pazienti alla medicina, retto dal desiderio urgente di aggiungere una patologia alla propria vita; anche un male può essere qualcosa di concreto cui attaccarsi. Ambrosone arrivò al Professore di Napoli in preda all’ossessione ma questa volta aveva deciso che non cercava solo una terapia farmacologica. Era un veterano, del resto, otorinolaringoiatri avevano scandagliato le sue cavità craniali alla ricerca di muchi, secreti purulenti, tonsille edematose. Dermatologi avevano passato al setaccio la mappa dei nei sul suo corpo alla ricerca dell’infame melanoma.
«Professò, voi mi avete visitato tre anni fa al Policlinico ma come non vi ricordate?». «E come vuole che mi ricordi, scusi? Chiami domani al mio studio e prenoti una visita». «E quello chissà quando mi prenotano. Io non posso più aspettare, se no mi ammazzo. Professò, voi mi dovete aiutare». «Guardi, le ho già spiegato che…». «No Professò non mi dite così, per favore. Voi avete fatto un giuramento. Tenete una missione. Lo so che è domenica e ora di pranzo ma io posso aspettare pure nel pomeriggio, le tre, le tre e mezza…».
La forza della persecuzione era direttamente proporzionale al desiderio del bisturi, la ferita chirurgica era quella che avrebbe potuto dare una svolta alla sua vita, fuori dalla palazzina triste in fondo a uno sterrato, da sua moglie con la tuta di ciniglia come Simona Ventura, dal cielo grigio inferno quando sta per piovere sopra Avella.
«Non mi dite così, non mi abbandonate. Io tengo il clic nel polso, gli artrosi, i nervi accavallati…». «Guardi i nervi non si accavallano». «No, no, ve lo giuro, io me li sento proprio tutti accavallati dietro al collo, non riesco nemmeno a guardare la televisione, a parte che mio cognato che mi ha montato la mensola l’ha messa troppo in alto ma comunque sono accavallati. Professò non mi dite di no, io sono pure parente dell’onorevole Casucci». «L’onorevole Casucci? E che c’entra? Ma che è ‘sta storia, che siamo nella Sicilia di Pietro Germi?». «No Professò io sono di Avella. Sapete, quello ci sta pure il Santone di Avella. È un mezzo parente di mia madre, tra l’altro».
Il Professore operò Ambrosone una mattina di novembre, dopo un mese di telefonate, appostamenti notturni con citofonata incorporata, interminabili visite allo studio e un tentativo di raggiungere l’amato chirurgo a un congresso a Rimini. «Che ci vuole Professò, poche ore e sto là!». C’è una linea sottilissima che separa dottori e sofferenti, è la linea dell’etica sulla quale si muove il rapporto medico-paziente. Non tutti sono ladri, non tutti sono mercanti, non tutti sono onesti. Tutti, però, camminano lungo quella linea carica d’insidie, orientando il proprio agire professionale nell’incontro con il dramma indecifrabile della sofferenza. Tutto regolato da quelle norme mercantili che Luciano Salce aveva raccontato con l’ineffabile Tersilli. Dentro il polso di Ambrosone ovviamente non c’era nulla che potesse determinare il clic e il chirurgo si giustificò pensando che in fondo si trattava di chirurgia “esplorativa”. In clinica privata. Il clic scomparve dopo l’intervento in cui il Professore aveva aperto e richiuso senza toccare niente. Alla rimozione dei punti Ambrosone perse interesse nel suo medico che ormai lo aveva segnato con una cicatrice da mostrare in giro. Per poi finalmente passare ad altro, a cercare nuove patologie che dessero un senso ai giorni, rumori sinistri, scricchiolii delle giunture, allergie e reumi, dentro i pomeriggi tristi di Avella. (antonio bove)
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