Il 4 maggio Torino è “ripartita”: più gente per strada, i ristoranti e i bar che fanno ufficialmente servizio di asporto, un’atmosfera che inizia a essere diversa. Lo stesso giorno, come previsto dalla gara d’appalto comunale, ha chiuso il centro di accoglienza di piazza d’Armi rivolto a un centinaio di persone senza dimora. La struttura prefabbricata allestita temporaneamente non è una novità legata al Covid-19: tutti gli anni, nel periodo invernale, offre una risposta emergenziale a chi dorme per strada. Passato il periodo più freddo, solitamente il sito si svuota da sé, dato che le persone preferiscono dormire per strada o cercare altre soluzioni meno precarie. Se piazza d’Armi non è soddisfacente sotto molti punti di vista, è pur sempre una risposta per le fasce estremamente deboli di popolazione, tra cui i migranti irregolari che non possono essere presi in carico dai servizi pubblici cittadini e coloro che, italiani e stranieri, non riescono ad accedere al numero di posti letto previsti dal sistema cittadino, strutturalmente insufficiente rispetto alla domanda. In questi mesi di chiusura, inoltre, sono confluiti anche coloro che hanno dovuto lasciare i dormitori a causa della riduzione di posti letto necessaria a limitare il rischio di contagio o che non hanno saputo attenersi all’irrigidimento delle regole di permanenza nelle strutture adottate a causa del pericolo sanitario.
Tutti gli anni, dunque, quando le temperature iniziano a farsi più miti, piazza d’Armi chiude e le persone accolte si disperdono per le strade, i portici e i parchi di Torino. Questo però non è un anno come gli altri. Chi si è ritrovato per strada ha incontrato una città ancora semi-chiusa: chiuse le biblioteche, i bar e i ristoranti che spesso offrono la possibilità di utilizzare un bagno o avere un riparo momentaneo, chiusi i centri diurni e le associazioni che offrono servizi di sostegno per chi vive in strada. Sebbene in funzione, anche i dormitori pubblici sono difficilmente accessibili. Per ridurre il rischio di nuovi contagi, da due mesi sono stati evitati nuovi ingressi nelle strutture che, in mancanza di tamponi, potrebbero diventare veicolo dell’emergere di nuovi focolai.
La chiusura della struttura di piazza d’Armi avviene, solitamente, nel disinteresse dei media e della collettività. Quest’anno una parte delle persone che si sono trovate in strada invece di sparpagliarsi e diventare invisibili si sono riunite nella piazza di fronte al municipio, dove hanno vissuto, accampati nelle tende procurate dai movimenti e dalle associazioni solidali. L’accampamento di tende è l’espressione di problemi che non sono nuovi, ma che difficilmente sono affrontati dal dibattito pubblico. È la manifestazione dell’espansione e della gravità del problema della povertà estrema a Torino e delle difficoltà del sistema cittadino di fare fronte a quella che non può più essere considerata emergenza, ma fenomeno strutturale.
Il sistema pubblico di accoglienza prevede che si possa rimanere nello stesso dormitorio per sette o trenta notti consecutive, in base alla residenza, per poi mettersi nuovamente in lista in un altro dormitorio. Alcuni posti letto sono riservati all’accesso diretto alle strutture per la durata di una singola notte. Le liste di iscrizione ai dormitori si sono via via allungate negli anni. Nel 2018, chi era in lista nel sistema di “bassa soglia” ha potuto trascorrere in media due mesi all’anno in struttura: il resto dell’anno lo ha passato all’addiaccio, ricorrendo a soluzioni improvvisate, avendo accesso saltuariamente a una singola notte nei dormitori, in cui si può usufruire di un letto, una doccia, una lavatrice e del confronto con gli operatori della struttura. Se da un lato il meccanismo di rotazione che regola i dormitori riesce a dare una risposta, seppur limitata, a un numero di persone molto più ampio di quello dei posti letto disponibili, dall’altro, rischia di compromettere ulteriormente la salute fisica e psicologica di chi è senza casa allungando i tempi di fuoriuscita dalla situazione di marginalità e cronicizzandone la condizione. L’insufficienza di posti letto rispetto alla crescente domanda di accoglienza genera frustrazione anche tra chi lavora nel sistema dell’accoglienza, poiché la consapevolezza è quella di riuscire soltanto a “tamponare” la situazione, occultando il problema strutturale ed evitando che diventi un tema di dibattito pubblico.
L’espansione della povertà estrema richiede soluzioni che guardino alle cause strutturali. In parte queste sono da ricondurre all’inadeguatezza delle politiche di sostegno all’abitare a livello nazionale e locale: Torino è stata negli ultimi anni la capitale degli sfratti; il patrimonio residenziale pubblico cittadino è insufficiente rispetto alla domanda; a fronte di un numero di alloggi sfitti che si stima essere intorno ai 60 mila, le politiche volte a mobilizzarli hanno poca efficacia. Altre cause sono legate alla flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, bilanciata solo parzialmente e solo recentemente dall’introduzione del Reddito di cittadinanza come strumento di accesso al reddito. Altre ancora consistono nelle politiche nazionali e internazionali che regolano i flussi migratori mantenendo molte persone in condizioni di irregolarità e quindi esponendole a un maggiore rischio di precarietà. Precarietà che si traduce sia nell’essere più facilmente esposti a sfruttamento lavorativo o a condizioni di affitto irregolare svantaggiose, sia nel non poter accedere ai servizi sociali e alle politiche rivolte alle fasce più deboli. I decreti sicurezza Minniti e Salvini, come descritto dall’indagine condotta da fio.PSD, hanno contribuito ad aumentare il numero di persone migranti che si rivolgono ai servizi di contrasto all’homelessness. Il risultato della cancellazione della protezione umanitaria ha avuto l’effetto di ostacolare la possibilità per un numero sempre più ampio di migranti di trovarsi in una condizione di soggiorno regolare sul suolo italiano. I migranti irregolari anche all’interno del settore di accoglienza di bassa soglia rappresentano una categoria svantaggiata, che accede unicamente a misure emergenziali. Ci sono politiche, dunque, che favoriscono la “produzione di irregolari” e piazza d’Armi, ogni anno, è espressione dell’impasse delle istituzioni pubbliche nel rispondere alle esigenze di chi è in condizione di irregolarità.
Da anni il settore del contrasto all’homelessness in Italia si sta trasformando, cercando di superare lo schiacciamento sulla pura dimensione emergenziale. A Torino, come in altre città italiane, ne è espressione il Servizio Housing First (HF), che affronta la questione della grave marginalità adulta con una risposta basata sul diritto alla casa, nel rispetto della dignità e della libertà di scelta dei beneficiari. Invece che una sistemazione in un posto letto temporaneo in dormitorio, l’HF garantisce alla persona l’accesso a una casa, che diventa la base da cui ricostruire un percorso di benessere e reinserimento sociale. L’HF, grazie a criteri di accesso più inclusivi, permette inoltre di dare una risposta ad alcune categorie di persone che affollano posti come piazza d’Armi: a chi non può iscriversi alle liste per gli alloggi di edilizia popolare o a chi da anni si è cronicizzato nel circuito della strada e della bassa soglia. Per poter essere implementato su larga scala, tuttavia, l’HF necessità di politiche più ampie legate al reddito, all’abitare, al riconoscimento dei diritti di ampie e diversificate fasce di popolazione.
La pandemia ha portato all’evidenza il fatto che le disuguaglianze sono pericolose per la vita di tutte e tutti, non solo degli esclusi, che per una settimana hanno occupato la piazza del municipio. Per la salute collettiva sono necessarie politiche non contro i poveri, ma contro la povertà, che ribaltino gli equilibri di una città di case sfitte e persone che vivono in strada. La vicenda che ha interessato piazza d’Armi a Torino dovrebbe essere usata come momento di rottura per focalizzare l’attenzione collettiva sul problema urgente della povertà e sulle sue cause profonde e, di conseguenza, pretendere e costruire politiche strutturali sui temi dell’abitare, della sanità, dell’accesso al reddito e della migrazione. Citando una vignetta di Fabio Magnasciutti, per pretendere che ripartire significhi, più che ripartenza, “ripartizione”. (silvia stefani)