L’ennesima ondata di questa pandemia che assomiglia sempre più a un circolo vizioso e l’evitabile guerra che le istituzioni hanno dichiarato a una parte minoritaria della popolazione, hanno completamente distratto dalla crisi che attraversa l’intera società italiana, lacerata da pulsioni centrifughe che ne minano la coesione e il senso di solidarietà. A Napoli lo stato confusionale delle istituzioni è reso crudamente esplicito nella scelta di sgomberare in pieno inverno i senza fissa dimora riparati nella Galleria Umberto I in nome di una concezione del decoro figlia della cultura della borghesia più ipocrita e rapace. Ma ciò che dà la dimensione esatta della situazione è l’invito dell’assessore comunale alle politiche sociali di sospendere la distribuzione dei pasti caldi in loco per non vanificare l’operazione di sgombero. L’intento pedagogico è chiaro, un buon padre deve saper essere severo per essere giusto e così la coercizione diventa azione educativa: si piega il soggetto recalcitrante ad accettare quello che non vuole e si pretende di farlo per il suo bene. Naturalmente il soggetto in questione non ha nessuna voce in capitolo nel definire ciò che è meglio per sé.
Con la stessa modalità allucinata si allestisce una parata di assessori e consiglieri, con coda di suore e preti, per “scoprire” l’indecenza dei campi rom e assicurare che presto le istituzioni interverranno per porre rimedio. Peccato che durante la parata, in un’altra parte del campo, erano in quel momento a lavoro operatori attivi in un progetto del comune di Napoli per l’inclusione scolastica, che niente sapevano della visita dei propri referenti politico-istituzionali. Non è importante stabilire se questa omissione sia frutto di un calcolo politico, volto a spostare il baricentro del welfare verso un orizzonte profumato di violette, o semplicemente un problema di ignoranza, perché ignoranza e dilettantismo sono il paradigma dell’agire politico ridotto a funzione cieca dell’apparato produttivo.
La tragedia dello studente di Udine e la vergognosa scia di gravi incidenti che l’alternanza scuola-lavoro si porta dietro, nonostante le continue denunce delle rappresentanze studentesche, testimoniano dell’ormai assoluta subordinazione di ogni processo di formazione del soggetto-persona rispetto alle esigenze del sistema produttivo. Attraverso un’idea pervertita di educazione si addestrano giovani studenti a sopportare sfruttamento e lavoro non retribuito per farne i perfetti lavoratori di domani: rassegnati e sottomessi.
Ma prima di piegare i ragazzi in formazione occorre che chi lavora con loro in una prospettiva educativa abbia interiorizzato questa missione civilizzatrice, che sia consapevolmente o meno agente delle esigenze del mercato. Da qui l’operazione certosina di smantellamento della scuola pubblica e il processo di precarizzazione dell’insegnamento; l’incapacità, così prossima a una mancanza di volontà, di riportare l’organico scolastico a un giusto dimensionamento riassorbendo quella massa informe di condizioni di accesso all’insegnamento sempre più intricate e difficili da ricondurre a una qualsiasi forma di logica che non sia il caos.
Una compagine lavorativa così disarticolata, così eterogenea per formazione culturale, così frammentata dal punto di vista dell’inquadramento lavorativo, si presta benissimo alle esigenze di passività di chi, massaggiato dalle diverse lobby economiche che bivaccano tra Bruxelles e Strasburgo, traccia linee guida sugli orientamenti educativi dell’Unione europea, dove le persone scompaiono e restano dei pezzi di carne da far funzionare a puntino col massimo risparmio possibile.
Ad aprire la pista a questo modello sono stati però i progetti socio-educativi. Nella guazza sporca del mondo della cooperazione e dell’associazionismo si sono educati gli educatori all’esercizio attivo della subordinazione. Colpo dopo colpo, negli ultimi venti anni i lavoratori dei progetti socio-educativi hanno imparato a dire “grazie” al momento di ricevere uno stipendio e a sopportare in silenzio mesi e mesi di ritardo nella sua corresponsione.
La strutturale precarietà del comparto ha tenuto sempre alto il turnover dei lavoratori, favorendo il continuo accesso di giovani con poca esperienza e ancora minore consapevolezza, attraverso le politiche di marketing di istituzioni universitarie più interessate a cooptare clienti che a formare educatori. L’ingresso in scena delle università telematiche ha poi avuto un effetto devastante sulla preparazione dei nuovi educatori professionali, che di fatto non ha migliorato la loro capacità di affrontare, e tanto meno di cambiare, un segmento produttivo che può sopravvivere così com’è solo grazie all’acquiescenza di chi ci lavora.
Nella confusione che la pandemia ha alimentato a tutti i livelli, il comparto socio-educativo si trova oggi, ancora una volta, davanti alla minaccia di una nuova crisi che potrebbe lasciare sul campo servizi e lavoratori. Da diversi mesi, almeno sei, il Pon Inclusione finanziato con il Fondo Sociale Europeo, che costituisce una parte importante del finanziamento del welfare napoletano, non viene pagato. Il mancato trasferimento di questi fondi sta di fatto mettendo a dura prova le fragili capacità creditizie degli enti che erogano i servizi per conto del Comune, causando un ritardo nel pagamento degli stipendi che ha assunto dimensioni preoccupanti, come non avveniva da anni.
Nonostante l’alone di mistero che circonda il mancato trasferimento del Pon Inclusione è stato possibile ricostruire che il problema non sarebbe in capo agli enti locali, ma al ministero. Di sicuro, però, gli assessorati alle politiche sociali di Comune e Regione non sembrano aver riservato nessuno spazio significativo a questo tema nella loro abitualmente ricca agenda mondana.
Qui non si vuole drammatizzare richiamando alla memoria il crack del welfare napoletano tra il 2010 e il 2012, che ha avuto effetti devastanti su chi l’ha subito da lavoratore e che ancora agita l’inconscio di chi è riuscito a sopravvivere arrivando fino a oggi. Eppure, l’assessore regionale Fortini dovrebbe ricordare bene il buco che si creò nel 2015 per il mancato trasferimento al Comune del cinquanta per cento della terza annualità del finanziamento del fondo sociale, che lasciò tutti gli educatori che avevano lavorato per un anno intero nel progetto Tutoraggio educativo senza stipendio. Da quell’episodio ignobile gli educatori ne sono usciti con ingiunzioni di pagamento o accordi bonari con gli enti per i quali avevano lavorato. Gli enti, a loro volta, hanno recuperato in parte quanto gli spettava attraverso cause e debiti fuori bilancio votati in consiglio comunale.
C’è dell’altro: il futuro delle politiche sociali e dei servizi socio-educativi e già scritto, ma se ne discute altrove, i lavoratori ne sanno poco e niente e non hanno collettivamente la capacità di prendere la parola o semplicemente di visualizzare le concrete prospettive verso le quali sono proiettati. In estate dovrebbero uscire gli avvisi di gara di alcuni servizi fondamentali come i Laboratori di educativa territoriale e i Poli territoriali per le famiglie, che beneficiano entrambi del Pon Inclusione attualmente latitante, e i motivi di preoccupazione sono tanti: soprattutto preoccupa la mancanza di un soggetto collettivo che possa agire un conflitto modificando i rapporti di forza, che abbia una visione e la capacità di proporre un modello alternativo a quello che sta progressivamente prendendo corpo, ovvero la mercificazione dei servizi in un contesto concorrenziale, dove il focus non sono più le relazioni sociali da proteggere o trasformare, ma i clienti, monadi individuali, da soddisfare per trarne profitto.
Il Terzo settore come luogo di sperimentazione del lavoro precario e della contrattazione atipica che alcuni di noi denunciavano venti anni fa attraverso il Collettivo operatori sociali, potrebbe essere un’allegra festa delle medie se paragonato alle prospettive che i lavoratori sociali hanno oggi davanti. Quando il privato sociale sarà diventato privato e basta qualsiasi velleità di considerare i processi educativi al di fuori di un’ottica di mercato diventerà impraticabile e la mancanza di un soggetto collettivo lascerà gli operatori sociali, e gli educatori in particolare, in balia di logiche distopiche. Ancora una volta siamo chiamati a una presa di consapevolezza: rivendicare ciò che da mesi ci viene sottratto con il mancato trasferimento del Pon Inclusione può essere un utile esercizio. Tanto per cominciare. (emiliano schember)