Sono andati chissà dove molti tra i clochard che si riparavano fino a qualche giorno fa nella Galleria Umberto di Napoli, sostituiti con rasserenanti piantine che ora adornano la scalinata d’ingresso, piazzate lì dai commercianti a cui non sembra vero che qualcuno abbia tolto ai senzatetto coperte, cartoni e persino i pasti caldi.
I titolari dei negozi all’interno della Galleria hanno avuto un certo protagonismo nel ripristino del “decoro”, a furia di ripetere come un mantra le parole-chiave “sicurezza”, “pulizia”, “telecamere” e “vigilanza”, di volta in volta contro i clochard, le partite di calcio notturne dei ragazzini, i furti dell’albero di Natale sacrificato ogni anno al rito del cippo di Sant’Antonio, e contro tutto quanto potesse compromettere l’immagine di uno spazio-vetrina troppo importante per essere lasciato in balia della vita, impietosa, della metropoli reale. Hanno avuto un ruolo, Barbaro e compagni, nel pogrom messo in atto dal Comune contro i senza fissa dimora che cercavano un tetto in Galleria, battendo il ferro quando era caldo, incoraggiando e poi plaudendo al primo vero atto politico della giunta Manfredi.
Che i tempi fossero maturi si era capito già da qualche mese, quando il prefetto appena insediato aveva tracciato le sue priorità: “movida” e decoro urbano, con un occhio di riguardo alla Galleria Umberto e alle “situazioni di degrado” in cui vivono “soggetti che non intendono spostarsi” e altri a cui “è possibile offrire soluzioni con l’aiuto della diocesi e del volontariato”. Nessuna menzione, forse comprensibilmente, per lo sgangherato welfare comunale.
La giunta Manfredi non si è tirata indietro. A intervenire in prima persona per “ripulire” la Galleria è stato l’assessore Trapanese, soggetto avvezzo alle luci dei riflettori, che non si fa scrupolo a promuovere tanto il suo personaggio pubblico quanto le sue vicende familiari, coadiuvato dal collega De Iesu, ex questore e attuale assessore alla sicurezza. Così, uno stuolo di fotografi e giornalisti convocati per l’occasione, hanno documentato con l’abituale zelo il modo in cui l’assessore intende occuparsi della sua delega alle politiche sociali: la cacciata di decine di senza dimora dalla Galleria Umberto a opera di addetti comunali e vigili urbani, con la promessa di qualche posto letto aggiuntivo nei dormitori pubblici, e quella ancora più vaga di un “piano di intervento” entro tre settimane. Le tre settimane più fredde dell’anno.
Il sindaco Manfredi, per suggellare la retata, ha confermato che con i senza tetto serve “assistenza, ma anche decisione”. Al momento, i posti letto messi a disposizione dal Comune sono circa quattrocento, a fronte di una popolazione di senza fissa dimora che parrebbe superare le quattromila persone (condizionale d’obbligo, dato che né la vecchia né la nuova amministrazione si sono mai preoccupate di realizzare un censimento).
Le associazioni e le cooperative che si occupano per conto del Comune di gestire le emergenze legate alla povertà, non hanno avuto niente da ridire sulla decisione della giunta. È molto difficile, in questi giorni, parlare con gli operatori e i responsabili del servizio Unità di strada senza dimora, affidato al gruppo di imprese sociali Gesco e alla cooperativa Il Camper per una cifra di 730 mila euro sul biennio 2021-2023. Se gli operatori sociali, per lo più precari, con contratti a termine e sottopagati, si sono guardati bene dall’intervenire nel dibattito, a prendersi la scena sono stati i responsabili degli enti di volontariato o quelli delle imprese che ricevono in subappalto dal Comune la gestione dei servizi sociali, addirittura magnificandone l’operato, come accaduto domenica scorsa a Zazà-RadioTre, quando sono intervenuti la responsabile per i senza dimora della comunità di Sant’Egidio, Benedetta Ferone, e Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus, uomo-ombra di almeno un paio di assessorati nell’ultima giunta de Magistris, nonché coordinatore del Forum nazionale su disuguaglianze e diversità. A sentir loro, l’amministrazione che ha strappato via materassi e coperte ai clochard in pieno inverno, e che in generale assiste inerme al dilagare delle povertà e del disagio nei quartieri della città, sarebbe “un prezioso alleato” nella lotta a queste emergenze.
Ma quali sono le azioni messe in campo per fronteggiare l’aumento della povertà durante questi due anni di pandemia? Quali sono le misure intraprese per supportare i più fragili senza delegare in toto le scelte e le azioni a enti che come ogni azienda regolano i propri interventi su bilanci e profitti? Queste, naturalmente, non sono domande da fare – nemmeno sulla radio nazionale – a chi gestisce in città gli interventi sulla povertà (non solo economica, ma anche educativa, sociale, alimentare) dispensando “buone azioni” con soldi pubblici. Dal canto suo, d’altronde, anche la politica è ben lieta di delegare. In primo luogo perché il confine tra il suo campo di gioco e quello del terzo settore è sempre più labile, tanto che dal privato sociale provengono tutti gli assessori al welfare cittadino degli ultimi anni, da D’Angelo a Gaeta, passando per Marmorale e Trapanese (che candidamente ammette, in un post Facebook del 5 dicembre scorso, che “il terzo settore si è sostituito allo Stato” e che per questo bisognerà lottare perché “la disposizione sul trattamento Iva delle operazioni svolte dalle associazioni, contenuta nell’ultimo decreto fiscale”, venga eliminata); dall’altro lato perché questo sistema dà alla politica la possibilità di scrollarsi di dosso il fardello di tutela e assistenza alle persone in difficoltà, fino alla delega di parti importanti delle sue politiche, non solo quelle che individuano chi tra i “sommersi” sia meritevole di essere “salvato”.
In questo modo il sistema non solo non attutisce le disuguaglianze, ma anzi finisce per nutrirsi delle sue stesse emergenze, che diventano linfa vitale per il sostentamento dei suoi tanti parassiti. Sarebbe ora che qualcuno, da sinistra, questo sistema lo mettesse in discussione nel suo insieme. (riccardo rosa)