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24 Marzo 2020

Figli di un virus minore. Storie dalla frontiera della salute mentale

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(disegno di cristina moccia)

“Sto vivendo con mio figlio ed è devastante! Per lui, per me. La casa non è neppure una prigione, ma un campo di battaglia e siamo allo stremo delle forze. Distrutta la quotidianità, ferma la riabilitazione, ferme le terapie, interrotta l’assistenza di base, l’assistenza alla persona e l’assistenza educativa. Abbandonati a noi stessi. La clausura forzata unita alla mancanza di supporto sfociano in una frustrazione incontenibile che diventa pericolosa per chi non è in grado di gestirla o esprimerla. È devastante”. È uno dei tanti commenti giunti da tutt’Italia all’articolo pubblicato su Monitor il 16 marzo, e in questo ultimo fine settimana sono iniziate a rimbalzare notizie sull’impennata del numero di Trattamenti sanitari obbligatori a Torino e in altre città.

A fronte della situazione attuale, mancano per la salute mentale (come più complessivamente per la disabilità) specifiche e puntali indicazioni su modalità di intervento e azioni per garantire la continuità terapeutica. Le direttive governative e regionali si limitano a restringere l’operatività dei servizi (la chiusura dei centri diurni e semi-residenziali, prima realizzata a macchia di leopardo, è ora estesa dal Cura Italia a tutto il paese), le indicazioni sull’assistenza domiciliare sono vaghe, spesso inefficaci e prive di logica terapeutica. Le misure di sostegno a distanza sono ancora tutte da mettere in campo, e spesso addirittura contraddittorie (dal dipartimento salute mentale della Napoli 1, per esempio, in una circolare del 19 marzo si afferma che “un intervento a distanza – videochiamata, telefonata, collegamento skype – rappresenta una modalità di prendersi cura ma non può essere considerato una prestazione sanitaria di cura”, escludendo, di fatto, le attività in remoto per trattamenti come logopedia e psicoterapia dai setting assistenziali attivabili dai centri di riabilitazione, innanzitutto quelli per minori).

Restano aperti i Centri di salute mentale, è vero, ma la maggior parte svolge un’azione estremamente contingentata, per lo più limitata alle situazioni in cui è inevitabile la somministrazione in loco dei farmaci o si rende improcrastinabile una prima accoglienza, tra l’altro resa ancora più complessa dalla assoluta carenza di adeguati mezzi di protezione individuale, con i pochi a disposizione tenuti spesso “in riserva” per le esigenze di eventuali trattamenti sanitari obbligatori (una carenza che limita ulteriormente gli interventi domiciliari, ridotti, nei fatti, ai casi indifferibili). Per ora si segnala una grande collaborazione e responsabilità da parte degli utenti, che in alcuni casi stanno aiutando loro un sistema che sembra allo sbando, ma certo, procrastinandosi la situazione emergenziale, aumenteranno le difficoltà quotidiane. Il peso dell’assistenza psichiatrica torna così a cadere quasi interamente sulle spalle delle famiglie. E la situazione non migliora se spostiamo lo sguardo sui servizi residenziali.

Zico Perani, storico operatore che lavora nella frontiera bergamasca in una comunità di accoglienza ha scritto un post a cui abbiamo “rubato” il titolo di questo articolo: “[…] noi che operiamo in queste comunità ci aspettavamo che gli organi preposti si mettessero in contatto, mentre pare che ci nascondano e non ci scorgano nella loro mente. Qui si vede ancora il discrimine, quasi come fosse naturale, la persona con disturbo psichico al tempo di questo virus non conta”.

Nelle strutture residenziali, sia quelle per anziani che quelle per disabili, dall’inizio di questa crisi sono vietati i periodici ritorni presso il domicilio, ma anche le visite. Sulla pagina “Voci dal manicomio”, alcuni operatori di una struttura residenziale napoletana hanno scritto: “Ci adoperiamo per ridurre le uscite esterne ed evitare uno sciagurato contagio che potrebbe essere letale per i nostri vecchietti, ex manicomiali, ex opg, ex territoriali, insomma tutti quegli ex di qualcuno o qualcosa che la società ci erutta addosso e che vorrebbe chiusi per sempre e lontani. […] Ma un test preventivo nelle strutture residenziali al fine di monitorare ed eventualmente prevenire qualche focolaio, no? Sembra che stia passando la convinzione che, volente o nolente, gli anziani debbano sacrificarsi su questi nuovi altari della politica, della sanità, della produzione, della società globalizzata ai meri fini del profitto”. Già, perché sono tanti gli anziani che in tutta Italia si stanno contagiando e stanno morendo nelle Rsa, invisibili nel glaciale conteggio statistico che rende le morti numeri, cancellando volti e storie. E, con loro, corrono grandi rischi anche gli operatori che continuano il lavoro di assistenza, si contagiano, si ammalano, a volte muoiono, ma pure loro sembrano figli di un virus minore.

Non mancano le eccezioni: a Gorizia i precedenti investimenti in salute mentale, una lungimirante governance del comparto e la storica interconnessione tra pubblico e privato hanno determinato una positiva riorganizzazione dei servizi: «L’obiettivo è di presidiare il territorio e intercettare in tempo ogni segno di possibile crisi, di allentare la solitudine, di sostenere le persone nella gestione della vita quotidiana affinché vivano al meglio questo periodo di profonda crisi – ci spiega Donatella Lah operatrice di una cooperativa sociale – Si è dato vita a una campagna telefonica di sostegno e aiutiamo gli infermieri a rispondere quando le persone chiamano perché hanno bisogno di scambiare quattro chiacchiere, per attenuare la solitudine o per trovare un aiuto nella gestione dell’ansia. Gli operatori del privato sociale collaborano con gli infermieri anche per portare alle persone la terapia che non può più essere somministrata in Csm, per fare la spesa a chi ha difficoltà a farlo in autonomia. Aiutano nelle incombenze burocratiche (pagamento bollette, affitti, ecc.), si recano a casa per vedere come stanno ed eventualmente per fare insieme a loro una piccola passeggiata intorno all’isolato o per aiutarli con le attività domestiche o per portare i pasti. Questo intervento è su tutte le persone in carico al centro di salute mentale».

Altrove, dove anche i Centri di salute mentale aperti sulle ventiquattr’ore restano un miraggio e i servizi vivono una lunga, perdurante crisi, si fa molta più fatica, e non è solo una questione di quanti soldi sono destinati al comparto, ma anche e soprattutto di come si spendono, di quali sono le politiche e i programmi che si mettono in campo. E le differenze, inevitabilmente, si amplificano nei momenti di crisi. In salute mentale, come in tutti gli altri settori della società, pure il virus non è uguale per tutti. (antonio esposito)

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