Il 27 agosto 2017 un incendio, probabilmente doloso, ha distrutto decine di baracche, automobili e camper, bruciato terreni e cumuli di rifiuti, nel campo rom di Scampia a via Cupa Perillo. Dopo quell’incendio, sessanta rom sono stati alloggiati dal Comune di Napoli nell’auditorium di Scampia; gli altri sono stati fatti tornare al campo, nonostante le condizioni ambientali fossero ancora più insalubri rispetto a quelle precedenti all’incendio. Per oltre sei mesi i rom sono rimasti accampati nel teatro, in un contesto assolutamente inadatto all’uso abitativo (un unico bagno, acqua a intermittenza, nessun riscaldamento).
In quei sei mesi le promesse dell’amministrazione comunale – dalla sistemazione temporanea nella caserma Boscariello alla bonifica definitiva e riprogettazione del campo – si sono rivelate poco più che chiacchiere da bar. Ad aprile, una discussa delibera riconosceva ai rom che avevano “vissuto” nell’auditorium una modesta somma in cambio dello sgombero immediato della struttura, palesando tutta l’incapacità, e la mancanza di volontà, da parte di de Magistris e la sua giunta, di immaginare un futuro diverso per i rom napoletani, rispetto ai campi spontanei, ai villaggi-ghetto, alle baracche.
Riproponiamo a seguire alcuni dei pezzi pubblicati nel corso dell’ultimo anno sul nostro sito.
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Scampia, bruciano i campi rom. Dolo o caso, le responsabilità politiche sono chiare
Stando a quanto racconta la Bibbia, dopo la morte di Gesù la Madonna visse solo per alcuni anni a Gerusalemme, città che lasciò per recarsi a Efes, nell’attuale Turchia, a causa delle persecuzioni. Ricevuta dall’Arcangelo la notizia della sua prossima morte, rientrò in Terra Santa, dove radunò gli apostoli e li catechizzò prima di morire. Secondo alcune interpretazioni della dottrina, però, la Madonna non sarebbe mai veramente morta, ma caduta in un sonno profondo durante il quale sarebbe stata assunta in cielo. È questa l’origine della differenza tra Assunzione e Dormizione di Maria, festività celebrate rispettivamente il 15 e il 28 agosto dai fedeli cattolici e ortodossi.
Quando arriviamo davanti la baracca di Nino, all’estremità occidentale del campo rom di via Cupa Perillo, la tavola è già imbandita, sebbene alcuni posti siano vuoti in attesa di ospiti che, come in effetti accade, potrebbero presentarsi a gruppetti da un momento all’altro. Intenti a celebrare i rituali, come quello della turnazione del pane intinto nel vino, gli uomini ci invitano a prendere posto e a riempire il bicchiere per il brindisi iniziale, mentre le donne riempiono i piatti. Sono le quattro del pomeriggio, fa molto caldo, e alle nostre spalle una colonna di fumo nero si mantiene pigramente nell’aria. «Era importante andare avanti dopo quello che è successo», spiega Nino. «Questa è una festa molto sentita, chi ne ha voglia e bisogno può sedere con noi, ma ci è sembrato giusto dopo la tragedia di ieri dare un po’ di normalità».
Sono passate poco più di ventiquattro ore dall’incendio che ha colpito il campo di Scampia, bruciando baracche e terreni, automobili e camper, alberi e rifiuti, mettendo in fuga nella giornata di domenica centinaia di persone e lasciandone una trentina senza un posto dove andare a dormire. Della mezza dozzina di baracche andate in fiamme restano gli scheletri in muratura, grigi come il terreno, l’asfalto e il cielo ricoperto da un velo, ancora a distanza di ore. Percorriamo la strada che conduce al campo, guidati dalle colonne di fumo e dalla puzza di bruciato. La parte del campo bruciata è quella iniziale, per cui, una volta finita la salita, la prima cosa che si scorge è una distesa di terra arsa, un albero rinsecchito, la carcassa di un’automobile, cataste di mattoni che dovevano essere stati un muro. L’immagine che racconta a posteriori la violenza delle fiamme fornisce un’idea chiara di quanto la tragedia avrebbe potuto essere maggiore, se il fuoco avesse coinvolto l’intero agglomerato che ospita oltre seicento persone. Solo il caso, un po’ di fortuna, la prontezza nella fuga e quella nel prendere alcune iniziative coraggiose, come l’estrarre all’ultimo istante le bombole di gas dalle abitazioni, hanno evitato conseguenze più gravi. Allo stesso tempo gli abitanti del campo denunciano ritardi nei soccorsi, e di essere stati abbandonati per oltre un’ora, durante la quale hanno dovuto provare a spegnere un incendio di tale portata con bacinelle e secchiate d’acqua.
È domenica, ora di pranzo. Secondo la ricostruzione di Damir, e della maggior parte degli altri testimoni, l’incendio prende il via da un terreno adiacente al campo, sul versante che confina con Mugnano. A originarlo sarebbe stato il fuoco appiccato da un contadino della zona, per fare pulizia di sterpaglie, rovi ed erbacce. A causa del vento, però, l’uomo perde il controllo del fuoco e le fiamme si propagano a gran velocità, raggiungendo il campo. Le baracche cominciano a bruciare, seguite da alcune auto. La gente urla e scappa, Damir si precipita per tirar fuori le bombole. Ci riesce, ma nel frattempo il fuoco raggiunge un’area in cui sono accumulati rifiuti e sterpaglie, sotto le quali ci sono altre bombole, usate, gettate via e mai smaltite. Così cominciano le esplosioni, e il fuoco si diffonde su altre aree, fino a coinvolgere il deposito dell’Asia davanti al campo, dove andranno a fuoco diversi camion. Dopo qualche minuto saltano in aria anche le macchine. La cenere che cade dal cielo, sul terreno secco e arido, accende nuovi focolai distanti decine di metri uno dall’altro: l’incendio è incontrollabile e agli abitanti del campo, tutti, non resta che mettersi in salvo sugli stradoni asfaltati.
Nel frattempo sono cominciate le telefonate alle forze dell’ordine. «I vigili urbani – racconta S. – ci hanno detto che l’incendio l’avevamo fatto noi e non gli riguardava». Pompieri e carabinieri invece prendono in carico le chiamate, ma c’è da aspettare. Così il tempo passa, le fiamme avanzano e non arriva nessuno. Damir, che ha ventidue anni, due figli e una patente europea di informatica, rimane al campo e cerca di organizzare le operazioni. Goran, suo padre, corre in auto alla vicina stazione dei vigili del fuoco a cercare aiuto. Non trova nessuno e ritorna al campo dove, nel frattempo iniziano ad arrivare i primi mezzi dei pompieri. È passata più di un’ora dalla prima chiamata. «Pure nello spegnere l’incendio ci hanno trattato come bestie», continua Damir. «Il campo andava a fuoco, ma i primi cinque o sei mezzi di soccorso li hanno mandati dal lato di Mugnano, dalla terra dov’era divampato l’incendio, mentre uno solo saliva dal lato del campo». (continua a leggere…)
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