Napoli si è trasformata in una città “turistica” nel senso europeo del termine. In questi anni abbiamo provato ad analizzare le dinamiche urbanistiche e sociali collegate all’incremento dei flussi turistici. Abbiamo raccontato l’approccio al fenomeno degli abitanti del centro storico e la difficoltà nel gestirlo da parte delle istituzioni, incapaci di stabilire regole per tutelare chi vive quotidianamente la città. Abbiamo analizzato le conseguenze dell’improvvisa turistificazione su chi nel settore terziario lavorava o ha trovato nuova occupazione (nella maggior parte dei casi occasionale, stagionale o comunque part time).
Riproponiamo a seguire alcuni dei pezzi pubblicati in questi anni sul nostro sito e sulla rivista Lo stato delle città.
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La città si rigenera? Imprenditori, militanti e (assenza di) politiche
Nella narrazione attuale della città e della sua presunta rinascita emerge – sottotraccia – il concetto di “rigenerazione urbana”, che prevede l’impiego sinergico di elementi urbanistici, economici e culturali per avviare e sostenere una trasformazione delle metropoli. Si tratta di una prassi già sperimentata in altri contesti, il cui fulcro è imperniato sul recupero e la ri-funzionalizzazione di spazi abbandonati con l’obiettivo di restituire loro un nuovo ruolo, così come sul recupero di quartieri degradati contenendo l’edificazione di nuove cubature e il consumo di suolo. Uno dei presupposti è il coinvolgimento della cittadinanza in un circuito partecipato di progettazione e decisionalità continua. Per rimanere in area mediterranea, un esempio (al netto di contraddizioni politiche e controverse ricadute sociali) è rappresentato dall’attuazione del programma Euromed nella città di Marsiglia, attraverso cui una significativa porzione di città (a partire dal waterfront abbandonato dall’industria portuale) è stata ridisegnata totalmente. Al di là delle conseguenze rilevanti sull’impianto identitario della città provenzale, Euromed ha favorito esperienze di rigenerazione come la Friche, iniziata con l’occupazione di antichi depositi ferroviari del quartiere operaio di Belle de Maie diventata poi un centro polifunzionale di attività artistiche, sociali e culturali sovvenzionato da enti pubblici e indicato come polo di attrazione cittadino su tutte le guide e i siti turistici. Il collettivo che ha inizialmente occupato gli spazi ha intrapreso negli anni una continua negoziazione con le istituzioni, abbandonando progressivamente gli aspetti più militanti e i propositi di trasformazione radicale. Fatto sta che in breve è diventata uno dei magneti del capoluogo provenzale capace di attrarre anche una nuova residenzialità, persone che da tutta Europa hanno deciso di trasferirsi in pianta più o meno stabile, internazionalizzando una città in declino e influendo (in parte) su derive ed esasperazioni sociali.
Il breve excursus marsigliese introduce alcune domande che ci si è posti nel proseguire l’inchiesta sulla trasformazione della città di Napoli, in atto a partire dall’incremento recente dei flussi turistici. In sintesi: la città si sta trasformando in una nuova meta di possibile residenzialità (produttiva, creativa, ecc.) oppure in una città d’arte improvvisata e da consumare, meta di brevi e brevissimi soggiorni, e soggetta alle dinamiche imprevedibili del turismo di massa? E in quest’ultimo caso, sono state avviate esperienze pubbliche, private, dal basso o dall’alto, in grado di consolidare in modo strutturale tale dimensione? Esistono progetti e politiche indirizzate alla costruzione di centri di produzione culturale in grado di porsi come moltiplicatori occupazionali e professionali, frequentati da un pubblico attirato non tanto da una superficie meramente turistica, quanto da un potenziale “fare” nel e del luogo, con possibilità di residenzialità di lunga o media durata?
Per ora, le realtà in grado di svolgere funzione d’attrattore (seppur con alti e bassi) sembrano essere la Fondazione Morra e il Museo MADRE, la prima privata e l’altra pubblica, entrambe tuttavia dirette a un pubblico d’élite, quel bacino di fruitori dell’arte contemporanea che non può essere risorsa esaustiva di una città che si presenta come metropoli mediterranea.
Torniamo ai Quartieri Spagnoli, zona segnata dal più alto tasso di disoccupazione della città, il venti per cento di popolazione straniera residente, verde pubblico pressoché inesistente, attraversata quotidianamente da pattuglie di polizia e carabinieri in servizio di verifica degli arresti domiciliari (o nel mese di gennaio in tenuta antisommossa per evitare l’incendio del tradizionale cippo di Sant’Antonio). Un luogo che la retorica da decenni descrive come “abbandonato dalle istituzioni”. Fin dagli anni Novanta, in realtà, i Quartieri hanno visto lo sviluppo di diversi tentativi d’intervento di matrice pubblico/privata, dal progetto Urban a quello dei “maestri di strada”, fino all’Associazione Quartieri Spagnoli, per decenni punto di riferimento per gli abitanti e motore di politiche urbane innovative. (continua a leggere…)