Vivo in uno dei pochi quartieri rimasti abitabili in città. È in periferia, l’ultimo prima che la metropoli diventi provincia, ma è un bel quartiere. Assomiglia più a un piccolo paese che a quello che immaginiamo quando pensiamo alla periferia. Ci sono palazzine basse e ben costruite, poco grigio anche quando il tempo è coperto, un grosso viale che lo taglia in due e dove è rimasto persino un po’ di verde; c’è una piccola isola pedonale, e attività commerciali che resistono da decenni (ci sono anche molti supermercati e centri scommesse). Ci sono due cinema, scuole, due mercati, due linee su ferro (che funzionano abbastanza male), ci sono tre o quattro pizzerie popolari e una gourmet, una “casa del popolo”, parrucchieri, barbieri, tatuatori, quattro tra vinerie e birrerie che mantengono prezzi decenti, raccolgono i bicchieri che i clienti lasciano in strada, non pompano musica house fino alle cinque del mattino. Qualche tempo fa hanno chiuso un consultorio che le abitanti avevano fatto attivare decenni fa e non l’hanno più aperto. Chi vive nella zona si lamenta sui gruppi Facebook dicendo che il quartiere è diventato invivibile, la gente è maleducata, i ragazzini sfasciano tutto ciò che trovano e non rispettano gli anziani; dicono che i marciapiedi sono sporchi e pieni di cacche dei cani. C’è il mare a pochi passi, e da diverse case lo si riesce a vedere.
Spesso lavoro da casa. Non ho orari di ufficio e quindi questo accade in tanti momenti diversi della giornata. Mi piace osservare dai balconi ciò che accade. Per esempio, c’è un ragazzo molto giovane che spesso si aggira tra un fitto reticolato di strade e palazzi. Avrebbe bisogno di un supporto ma è evidente che non ne riceve abbastanza. Vaga, urla, bestemmia. Le persone lo conoscono e non gli dicono nulla. Osservo anche sempre le vicende di una famiglia che abita in un basso, proprio di fronte alla mia cucina: due delle tre persone del nucleo hanno delle serie invalidità, e hanno dovuto costruire a proprie spese una discesina per far uscire la sedia a rotelle da casa evitando i due scalini. Sempre a portata di vista, fino a qualche settimana fa c’era un signore anzianotto, scapolo, che viveva al piano terra di uno di questi edifici da cinquant’anni. Prima i suoi genitori e poi lui hanno pagato in questo mezzo secolo più o meno sempre la stessa cifra di affitto. Di recente è andato via perché i terremoti provocati dal bradisismo non lo facevano stare tranquillo (circa un paio di settimane dopo le scosse hanno di molto rallentato la loro frequenza).
La mia camera da letto affaccia su una bella palazzina a tre piani. Era bella già prima, ma durante il “biennio pandemico” (per qualcun altro “biennio del bonus edilizio”), è stata completamente ristrutturata. Ora la facciata ha un colore pesca, le rifiniture nere e grigie eleganti, gli infissi nuovi tra il terzo e il primo piano (al piano terra sono rimasti quelli vecchi). A partire dal termine della prima ondata di Covid i contratti di affitto di tutte le case non sono stati rinnovati. Nessuno è stato tecnicamente sfrattato, ma nel giro di tre anni a restare è stata solo una coppia di anziani che vive al piano terra (quelli a cui non sono stati messi gli infissi nuovi). Primo, secondo e terzo piano della palazzina oggi sono adibiti a casa vacanze. La gestione è in capo a Lifestyle, un gruppo – si legge sul sito internet – “nato con l’esigenza di offrire più che un piacevole soggiorno, dove i dettagli fanno davvero la differenza”. Oltre alla palazzina nel mio quartiere, Lifestyle gestisce due piccoli hotel a tre stelle (al centro storico e sul lungomare) e una struttura ricettiva di lusso a piazza Municipio (più altre case a Roma). Questa struttura offre a ognuno dei suoi clienti: una figura professionale chiamata your friend in per proporre agli ospiti “la migliore assistenza possibile, personalizzata, per qual si voglia tipo di esigenza”; un macbook e un iPad a uso gratuito; l’accesso (anche esclusivo) a un solarium con jacuzzi; la colazione bio; la garanzia di impianti energetici fotovoltaici. Una stanza matrimoniale per due notti tra il 31 dicembre e il 2 gennaio costa seicentocinquanta euro.
Nella palazzina di fronte casa mia i prezzi sono più bassi. Un mini-appartamento da trenta metri quadri, con una camera da letto per due persone, senza colazione, costa circa la metà di una stanza nella struttura a piazza Municipio. Se ho fatto bene i conti, gli appartamenti affittabili al momento sono otto, ma sul sito si dice che presto aumenteranno. Leggo: “Ogni appartamento racconta una storia. Abbiamo ricostruito la vita di chi negli anni ha abitato quei luoghi. Attraverso oggetti d’epoca realmente appartenuti agli abitanti, cimeli, aneddoti, renderemo i nostri ospiti parte del quartiere e delle mura che, seppur brevemente, andranno ad abitare”. Ancora: “L’appartamento non sarà solo il posto dove riposerete e sarete ospitati, ma vi racconterà una storia, un pezzo del passato, la vita di chi prima di voi ha abitato qui. Attraverso una ricerca nella memoria dei proprietari, abbiamo ricostruito la storia di coloro che in passato hanno vissuto qui. Un bagnino di uno stabilimento balneare il Lido delle Sirene, un operaio dell’Italsider, un operaio della Società dei Telefoni e una addetta alla contabilità della Cementir. Un salvagente, un casco, una vecchia gettoniera telefonica e vecchie calcolatrici. Tutti oggetti che, appartenuti ai precedenti abitanti, sono stati rinvenuti nei cantinati e utilizzati nei singoli appartamenti come complementi di arredo e elementi di testimonianza”. Mi vengono in mente tante cose, tra cui questo articolo su memoria e marketing urbano che abbiamo pubblicato qualche mese fa… soprattutto, non so se gli abitanti di cui si parla sul sito siano vivi o morti, se siano stati interpellati o meno – da ciò che si scrive sembrerebbe di no –, che idea avrebbero avuto del fatto che le loro cose “rinvenute nei cantinati” siano diventate parte di un albergo-museo senza che abbiano nemmeno visto un euro, e che risposta avrebbero dato ai signori di Lifestyle se gli avessero chiesto di mostrare i loro oggetti a degli estranei. Qualche giorno fa una mia amica mi ha detto che la coppia di anziani che abita al piano terra (la casa a cui non hanno fatto gli infissi nuovi) sta cercando una nuova abitazione. Sono in difficoltà perché i prezzi sono troppo alti per le loro pensioni e rischiano di dover lasciare tutto il loro mondo all’improvviso.
La quantità di turisti che attraversa il quartiere in cui abito è ancora tollerabile. Di tanto in tanto si può incontrare qualche tedesco o russo che passeggia per luoghi dove non ci sono “attrazioni” in senso stretto, non si cucinano sfogliatelle e pizze fritte a ogni angolo, non ci sono ragazzi stressati e sottopagati che cercano di vendere, a beneficio dei loro datori di lavoro, anche l’aria che respirano. Un mesetto fa, quando il tempo già cominciava a non essere buono, c’era un surfista straniero che veniva fuori da qualche casa sempre alla stessa ora, raggiungeva il mare attraversando il quartiere, e rientrava dopo mezza giornata. Aveva una tutina tecnica nera che gli metteva in evidenza i genitali e i piedi scalzi. Durante queste vacanze invernali invece hanno soggiornato nella palazzina di fronte casa, per qualche giorno, due ragazzi francesi di origine magrebina. Mi sono incuriosito osservandoli dal balcone e ci ho scambiato qualche parola. Venivano da un sobborgo lontano un’ora da Parigi, e complice l’amicizia tra i tifosi delle due squadre di calcio sono tifosissimi del Napoli. Quando gli ho chiesto se gli è piaciuta la città mi hanno detto che non l’hanno troppo amata, perché non c’era spazio per fare niente e troppa polizia. Hanno visto Santa Chiara, hanno mangiato una pizza in strada, e poi sono rientrati qui in Cumana. Dicono che questo quartiere invece gli piace, gli ricorda il posto in cui abitano, «però più pulito, con ragazze più carine, e la spiaggia dove poter andare a fumare». Gli è piaciuto anche il pesce fritto alla tavola calda sul lungomare che frequento anche io.
L’ultima volta che li ho visti hanno attirato la mia attenzione perché stavano ascoltando appoggiati a un’auto sotto casa Le monde est à moi, di Passi e Akhenaton. Quando sono uscito erano ancora lì con la testa immersa nel cellulare. Avrebbero fatto un altro giro nel quartiere e poi sarebbero partiti. Mi è venuto in mente il riassunto de Le città invisibili che scrisse (per metà, in verità, lo scopiazzò da internet) un ragazzino del quartiere qualche mese fa. Finiva così: “Calvino non racconta le città con i loro monumenti, non parla della Torre Eiffel e del Colosseo, ma dalle piccole cose e i piccoli dettagli che di solito uno non vede. La lettura diviene così un gioco, un insieme di fattori che, disposti in ordine sparso, non fanno modificare il risultato finale. Se dovessi descrivere la mia città invisibile racconterei il mio quartiere non per le cose che tutti conoscono ma per come si vestono le persone, con le differenze dei giovani dai vecchi alle persone adulte fino a quelli che girano per vendere le case con le cravatte a righe”. (riccardo rosa)
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