Nella melassa retorica con la quale scrittori e opinionisti hanno celebrato il terzo scudetto del Napoli, uno dei tormentoni più in voga è stato quello sul trionfo sportivo frutto di programmazione ed efficace organizzazione aziendale. Cultura del lavoro, anzi meglio “cultura d’impresa”, è la parola chiave, scandita con particolare orgoglio dalla borghesia locale, ansiosa di scrollarsi di dosso la fama di poco industriosa che condivide suo malgrado con le classi basse della città. Tra le righe filtra l’auspicio, anzi la certezza, che questa vittoria aprirà il cammino a un “nuovo corso” in cui le virtù dell’impresa capitalista avranno finalmente ragione delle ataviche inerzie di amministratori e politici, e dell’ozio “creativo” degli strati subalterni.
Senza andare troppo a ritroso, basta guardare alla città di oggi, quella dell’esplosione del turismo di massa, per capire come lo stigma di scarsa industriosità sia immeritato e strumentale, e che in realtà i napoletani, di fronte all’occasione propizia, non si facciano pregare per darsi all’impresa. La smania di nuove attività, la febbre del commercio, l’urgenza del profitto, hanno attraversato negli ultimi anni tutte le classi sociali; ognuno ha messo in campo quello che aveva, e anche chi non ha mai avuto niente si è industriato per trovare risorse da investire in nuove iniziative potenzialmente redditizie.
Impresa, quindi, quanta se ne vuole. Ma su quale cultura poggia questo frenetico intraprendere? Il tormentone di cui sopra lascia intendere che dove ci sia impresa alligni automaticamente una cultura: fatta di sudore, intelligenza, coraggio, e meritati frutti da raccogliere. Come per il Napoli di De Laurentiis. Quel che conosciamo, nel passato e nel presente, ci rimanda però a scenari molto diversi.
Due libri usciti nelle scorse settimane ci aiutano a riflettere sulle caratteristiche e sull’impatto di questa “cultura d’impresa” nella società napoletana di ieri e soprattutto di oggi.
Alessandra Caputi e Anna Fava hanno scritto Privati di Napoli. La città contesa tra beni comuni e privatizzazioni, nella collana Antipatrimonio dell’editore Castelvecchi, che comprende anche altri volumi dedicati alle conseguenze delle privatizzazioni nelle principali città italiane. Libro a tesi quindi, ma tesi suffragata dai fatti, in quanto le autrici mettono in fila tutti gli assalti e i guasti portati alla città pubblica, ai beni e alle risorse di cui i cittadini dovrebbero godere allo stesso modo, dall’impresa privata – locale e nazionale, legale e illegale, spesso con l’avallo delle amministrazioni pubbliche – per recintare, mettere a profitto, consumare e in definitiva sottrarre pezzi sempre più ampi di città a una fruizione comune e democratica.
Privati di Napoli è un inventario di fatti e personaggi degli ultimi vent’anni, ma anche, indirettamente, il ritratto di una classe dirigente (locale e nazionale) in cui la distinzione tra responsabili istituzionali e imprenditori, tra pubblico e privato, tende a farsi sempre più sfumata, fondendosi nella comune ideologia del mercato, dello “spettacolo”, della “valorizzazione”.
Non che in passato amministratori e politici fossero alieni da interessi privati, anzi li perseguivano più sfacciatamente di adesso. Il paradosso è che negli ultimi trent’anni, in cui la “sinistra” nelle sue diverse sfumature ha governato ininterrottamente la città, la sfera d’influenza del privato è stata sistematicamente allargata, e non (solo) per lucrare benefici economici o elettorali, ma per intima convinzione della necessità di dismettere il patrimonio, ritirarsi dallo spazio pubblico, lasciare ovunque più spazio alle imprese. Fava e Caputi ci mettono davanti i risultati più eloquenti di questa politica.
Partiamo dalla fine. Nel marzo 2022, il Comune, carico di debiti accumulati nei decenni, sigla il Patto per Napoli con il governo Draghi, impegnandosi, in cambio di un miliardo e duecento milioni spalmati nell’arco di vent’anni, ad alienare una parte consistente del proprio patrimonio immobiliare. Una misura che, peraltro, sarà appena sufficiente a ripagare gli interessi sui mutui contratti con Cassa Depositi e Prestiti (diventata nel 2003 società per azioni). Poco dopo, la stessa amministrazione Manfredi firma una lettera di intenti con Invimit per la creazione di un fondo di investimento al quale conferire circa trentamila immobili, di cui fornisce una prima tranche di seicento che comprende ville, antichi palazzi e complessi monumentali. La competenza su questi beni passa di fatto dal consiglio comunale a un istituto di diritto privato, che potrà scegliere se vendere o alzare i canoni di locazione senza sottostare ad alcuna procedura democratica.
A queste scelte, scrivono le autrici, fa da controcanto l’abbandono cui sono destinate tutte quelle parti di territorio che non possono produrre, almeno per il momento, alcun profitto. Si va dai depositi petroliferi dell’area orientale alle ex discariche di Pianura e Chiaiano, riempite di rifiuti tossici dalle aziende del nord con la complicità delle aziende camorriste del sud, fino all’area dell’ex acciaieria di Bagnoli, che da decenni ingoia miliardi per restare sempre uguale a se stessa. Un decimo della superficie comunale (milleduecento ettari) rientra nei Siti di interesse nazionale per le bonifiche, ovvero attende un radicale risanamento per rimediare ai guasti ambientali prodotti dalle attività d’impresa. Ma le bonifiche non partono mai, e i grandi parchi pubblici previsti dal piano regolatore, sia a Bagnoli che a Pianura, sono ancora un miraggio.
Se in periferia le aree destinate ad accogliere gli scarti della metropoli galleggiano nel limbo, il centro storico è invece oggi il fulcro di un processo di “valorizzazione” travolgente. Centinaia di nuovi esercizi commerciali, migliaia di alloggi destinati ad affitti a breve termine, proliferazione di attività al servizio della fiumana ininterrotta dei turisti. Al centro di queste dinamiche non sono però gli investimenti del grande capitale finanziario, e nemmeno le politiche pubbliche di “rigenerazione”, come in tanti casi di riconversione turistica dei centri storici nelle grandi città europee. Il profilo dei nuovi investitori coincide infatti, in molti casi, con quello degli abitanti, sia storici che di recente provenienza, spesso in una prospettiva imprenditoriale di corto respiro, all’insegna del “cogli l’attimo finché dura”.
Accanto a questa iniziativa frammentata e diffusa, da un lato le risorse tendono a concentrarsi sempre più nelle mani di pochi gruppi di intermediazione privati (locali e nazionali), dall’altro cominciano a entrare in scena istituzioni come la Chiesa, le università locali, i grossi enti del terzo settore, strutturalmente dotati di ampie risorse, di forti capacità di influenza sui livelli istituzionali e di un’ottima reputazione nei confronti dei media. L’intervento pubblico segna il passo, condizionato da limiti strutturali – la mancanza di risorse, la riduzione dell’organico – ma anche dalla priorità sempre più spesso accordata alla dimensione simbolica delle politiche. L’amministrazione de Magistris, al di là di un decennio di chiacchiere “rivoluzionarie”, lascia in eredità lo sdoganamento entusiasta di questo processo: la svendita del paesaggio e del patrimonio senza alcuna prospettiva di regolamentazione e di sostenibilità. Ne è l’emblema, tra tanti episodi “minori”, la chiusura nel 2016 di un’intera fetta del centro storico per consentire a Dolce & Gabbana di realizzarvi sfilate di moda e spot pubblicitari.
L’innalzamento del costo della vita, l’erosione degli spazi pubblici, l’aumento degli affitti e la drastica diminuzione degli alloggi disponibili, sembrerebbero quasi l’inevitabile prezzo da pagare alla moltiplicazione delle occasioni di impiego, in particolare nei settori dell’ospitalità e della ristorazione; ma è evidente come questa nuova e ingente offerta di posti di lavoro, spesso precari e mal pagati, non sia in grado di determinare alcuna redistribuzione della ricchezza. Chi detiene i capitali pianifica la rendita in modo sempre più efficiente e centralizzato, mentre gli altri si disputano le briciole, destinate comunque a concentrarsi nelle mani di attori sempre più esigui e sovradimensionati.
Alla maggiore circolazione economica, non corrispondono insomma benefici equamente distribuiti per la popolazione. I servizi rivolti ai bisogni quotidiani degli abitanti restano sotto gli standard della decenza e a farne le spese sono soprattutto le famiglie povere, i lavoratori precari, gli anziani, i bambini, i disabili, sempre più a corto di spazi pubblici, case popolari, asili nido, mense scolastiche, assistenza domiciliare e così via.
Emblematico, secondo le autrici, della sottrazione quasi integrale di un bene pubblico ai cittadini da parte di impresari rapaci e amministratori “distratti” è il caso del mare. Se, infatti, buona parte del litorale è interdetto a causa dell’inquinamento, della presenza del porto e di attività industriali, i rari tratti di costa ancora disponibili sono riservati ai pochi che possono permettersi di pagare l’accesso agli stabilimenti balneari, o che godono di discese a mare annesse alle ville, ai parchi e ai club privati che si concentrano nella zona di Posillipo.
In questa città, così plasmata dall’ideologia mercantile e dagli interessi privati, ancor più che dall’inerzia, dall’incapacità, dall’impotenza dei suoi amministratori, una funzione strategica rivestono le imprese cosiddette “virtuose”, quelle sociali e no-profit che tanto spesso ricorrono nei resoconti dei media e nei discorsi dei politici, presunte isole felici in un contesto socio-economico oggettivamente controverso. Il libro di Carlo Borgomeo, di cui passiamo a occuparci, rilancia il tema e lo inquadra in un processo storico più ampio, quello dell’intervento statale nel Mezzogiorno.
Sud è il titolo del libro di Borgomeo, uscito per Vita e Pensiero, casa editrice dell’Università cattolica di Milano, in una collana (Piccola biblioteca per un paese normale) che vuole fare il punto sui grandi temi di oggi con testi brevi e divulgativi. Borgomeo ripercorre la parabola dell’intervento statale, dalla fondazione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 fino alla chiusura ufficiale di quella stagione, nei primi anni Novanta, che non chiude però la “questione meridionale” che l’aveva originata.
A distanza di settant’anni, secondo l’autore, gli obiettivi dell’intervento possono dirsi ampiamente falliti, essendo il divario tra nord e sud del paese rimasto sostanzialmente invariato, sia in termini economici che riguardo ai diritti di cittadinanza. Le cause del fallimento si possono sintetizzare, dal suo punto di vista, in una “cultura dello sviluppo” poco attenta alle potenzialità dei soggetti locali, preoccupata della crescita economica ma non di risolvere i problemi sociali – che sono invece, sostiene l’autore, una precondizione di questo sviluppo. Un intervento sostitutivo e non aggiuntivo delle politiche ordinarie, di cui i meridionali non sono mai stati interlocutori attivi ma semplici destinatari; in cui tutto veniva deciso dal centro e l’unico impegno delle dirigenze locali consisteva nell’attirare finanziamenti lamentando, anzi quasi vantando, le carenze dei propri territori, in una grottesca competizione autodenigratoria.
Borgomeo è il presidente della Fondazione con il Sud, fondazione di fondazioni bancarie che dal 2006 finanzia numerosi progetti del terzo settore nel meridione. In passato è stato dirigente sindacale, ricercatore del Censis, poi responsabile di un intervento pubblico per la promozione dell’impresa giovanile. I suoi numi tutelari, cui rende omaggio nel libro, sono Giorgio Ceriani Sebregondi, Giulio Pastore, Giuseppe De Rita. La sua tesi, maturata nel corso di queste esperienze, è che il meridione, più che di soldi, abbia bisogno di “capitale sociale”, ovvero di maggiore spazio per le imprese del terzo settore, non più solo come ausiliarie dell’intervento pubblico ma con un ruolo di responsabilità diretta sia nella pianificazione che nella gestione degli interventi. “Bisogna rovesciare il paradigma dello sviluppo”, scrive Borgomeo, quindi il sociale prima dell’economico, la domanda prima dell’offerta, la qualità prima della quantità.
Al centro della sua attenzione sono le politiche sociali e il ruolo delle imprese che operano in questo settore, appaltando servizi dalle amministrazioni o riempendo i vuoti dell’intervento statale. La loro “missione”, scrive Borgomeo, è innanzitutto di ridurre le diseguaglianze e promuovere i diritti, ma la loro azione può, e anzi deve, essere anche “conveniente”. In questa linea, tra l’altro, si rispecchiano alcune tra le maggiori agenzie del terzo settore a Napoli, dalla fondazione San Gennaro alla Sanità alla fondazione FoQus dei Quartieri Spagnoli, fino alla cooperativa Dedalus che ha sede a Porta Capuana. Sono, non a caso, tutti enti che la fondazione di Borgomeo supporta da anni e che sono citati nel libro – tra molti altri in tutto il meridione – come prove viventi a suffragio delle sue tesi. Ma la lunga lista di “buone pratiche” finanziate dalla Fondazione con il Sud, le cui virtù sono illustrate a volo d’angelo nel libro, non basta a darci un’idea della reale natura di queste imprese, dei complessi scenari – politici, sociali, economici – in cui si muovono; delle tante contraddizioni, nodi non sciolti, interessi non detti che pure attraversano queste esperienze.
Nel libro di Borgomeo ricorre ossessivamente la parola “sviluppo”, ma in nessun momento se ne dà una definizione precisa; è qualcosa, si intuisce, che ha a che fare con l’azione delle imprese, la collaborazione istituzionale, la creazione di ricchezza abbinata alla salvaguardia dei diritti. Dalle imprese sociali, scrive Borgomeo, potrebbe nascere una nuova classe dirigente in grado di cambiare la “cultura dello sviluppo” al sud. Ma per farlo, continua, è necessario che queste imprese comincino a “fare politica”, ovvero ad agire non solo episodicamente ma sistematicamente per indurre le amministrazioni a cedere loro alcune funzioni e prerogative – che quindi da pubbliche diventerebbero private –, assumendo su di sé l’impegno di renderle più efficienti e remunerative.
Torniamo per un momento al libro di Fava e Caputi. La prassi istituzionale, la “cultura d’impresa”, gli effetti dello “sviluppo” applicato alla città negli ultimi decenni, vengono squadernati in questo volume con accenti drammatici. Eppure, in ogni capitolo, in ogni puntata del disastro, compaiono a un certo punto uno o più soggetti collettivi che trovano la forza di opporsi all’arroganza e alla devastazione: che sia un comitato popolare contro le discariche, o contro altri impianti inquinanti, un osservatorio sull’andamento delle bonifiche, una rete contro le derive del turismo o un coordinamento per il mare libero e gratuito, ogni volta che la misura è colma vediamo sorgere – solo apparentemente dal nulla – una qualche aggregazione che si mette di traverso, resiste, contropropone, mettendo in discussione non solo le singole scelte ma l’intera cornice – politica, istituzionale, ideologica – che le ha determinate. Un modo di “fare politica” di cui nel libro di Borgomeo non c’è traccia. Le imprese di cui si occupa, in effetti, pur essendo spesso a contatto con le più brucianti storture sociali, non contemplano l’eventualità del conflitto, la possibilità di chiederne conto direttamente ai responsabili. L’immutabilità della cornice politico-istituzionale, nel libro di Borgomeo, è un dato scontato, così come pacifica, implicita, appare la natura neoliberista del suo “sviluppo”, con lo stato che retrocede e il privato che avanza occupando sempre più spazio.
Le imprese del terzo settore sono imprese a tutti gli effetti e, come tali, perseguono innanzitutto i propri interessi. Le più dinamiche tendono ad allargare sistematicamente i propri confini, sommando all’identità sociale e assistenziale, nuovi campi d’azione: dalla ristorazione al tempo libero, dall’ospitalità turistica alla valorizzazione dei monumenti, e così via. Per farlo mettono in campo apparati sempre più sofisticati di comunicazione e propaganda, in cui lentamente si dissolvono, sotto un’accattivante coltre di fumo, i dati concreti, gli obiettivi reali, i referenti del loro agire. Quando si legano ai poteri pubblici, senza peraltro mai metterne in discussione le scelte di fondo, lo fanno, come tutte le aziende, seguendo le proprie convenienze. E Napoli non fa eccezione. Nella città in cui vanno mutando tumultuosamente forme economiche e abitudini sociali, queste imprese si battono come possono per conquistarsi un posto al sole; gli impieghi che creano, se ne creano, sono messi al servizio dello stesso processo che sta determinando l’impennata del costo della vita, l’espulsione degli abitanti dai quartieri storici, la requisizione dei già esigui spazi pubblici per la cittadinanza. I puntuali benefici vantati dalla loro azione, scolorano di fronte ai danni arrecati da questo processo a una platea molto più vasta dei loro “beneficiari”. La stessa occupazione che queste imprese generano, ha contorni più articolati e controversi di quel che esse amano raccontare: i profili dell’educatore e dell’operatore sociale, modellati in tanti anni dall’azione del terzo settore, hanno infatti concorso in modo cospicuo ad alimentare quelle sacche di “nuove povertà” – coacervo di precarietà lavorative, abitative, esistenziali – da cui poi le imprese sociali attingono ogni volta che ne hanno bisogno.
Sarà anche vero allora che c’è bisogno di ridurre le diseguaglianze e promuovere i diritti, di definire nuovi parametri per questo “sviluppo” e questa “cultura d’impresa”, di tornare a considerare il patrimonio e il paesaggio nella loro funzione pubblica, civile e politica, e non come merce di scambio o attrattori turistici; ma per riuscirci servono innanzitutto pensieri e azioni adeguate per mettere in discussione radicalmente la classe dirigente al potere, e chi si agita nelle retrovie per assicurarne il ricambio: imprenditori, amministratori, intellettuali e politici; sono tutti nello stesso campo – quello del mercato, del profitto, delle narrazioni addomesticate –, anche quando figurano nominalmente nel campo opposto. Se le imprese sociali rinunciano in partenza, timorose di infrangere legami politici e compatibilità economiche, a elaborare una cultura critica oltre a quella “d’impresa”, la loro funzione non andrà mai oltre quella della foglia di fico; il loro destino, come quello delle iniziative più generose e benintenzionate in settant’anni di intervento nel Mezzogiorno, resterà quello di una sostanziale ininfluenza, un monumento alla virtù mentre intorno proliferano l’esclusione, la sofferenza e il disagio. (luca rossomando)