Tra i quattro ponti di Gianturco l’aria è stagnante, e alle sei bisogna coprirsi di più o andare via. La palude ritorna nei racconti dei più anziani e si ripropone trapassando l’asfalto e il cemento che l’hanno colmata. Il rione Ascarelli prima si chiamava Pascone. Fino agli anni Trenta piazza Coppola era uno stagno, e una barchetta si spostava da un capo all’altro vendendo pane, olio e sale. Pascone da pascolo, perché prima della destinazione industriale il terreno che cingeva la città era luogo di bivacco per gli animali, vacche e capre si ciondolavano tra vulcano e metropoli, abbeverandosi di tanto in tanto al Sebeto. Nel 1650 gli acquitrini del Pascone furono invasi dalle mosche. I contadini chiesero alla Madonna di Costantinopoli la grazia della liberazione per salvare le coltivazioni. Gli ex voto donarono poi un quadro alla chiesa e la ribattezzarono Madonna delle Mosche.
Durante e subito dopo il fascismo la campagna viene riservata alle nuove fabbriche che offrono tanti posti di lavoro. Nasce la Manifattura Tabacchi, poi la Mecfond, sorgono i serbatoi Agip. Sono migliaia gli operai che si trasferiscono ai margini della città, le palazzine disegnano una nuova prospettiva del quartiere nel giro di un decennio. Gianturco si anima, nel dopoguerra prosperano trattorie, ristoranti, salumerie, sorge il cinema Rivoli nel rione Ascarelli. I dipendenti della Manifattura tabacchi e della Cotoniera istituiscono il dopo-lavoro: calcio, tornei di carte, serate danzanti. Il quartiere trova la propria identità nel lavoro industriale. Decine, centinaia le concerie. Ancora oggi don Peppe conserva le scarpe di “capretto originale” che gli ricordano gli oltre trent’anni di lavoro nell’industria conciaria. Anche se si vergogna a mostrarle.
Don Peppe, novant’anni quasi, sul volto il sorriso stampato di chi ormai prende tutto alla leggera. Ha vissuto la guerra, ha “rubato per fame”, ha fatto anche tre lavori contemporaneamente. È andato in pensione a cinquantacinque anni. Frequenta la salumeria di Ciro, su via Gianturco. La strada termina in un maxi-incrocio: a destra la stazione, a sinistra Barra e San Giovanni, dritto si va al porto. I tir sbriciolano l’asfalto, di tanto in tanto qualche transenna segnala la presenza di voragini rischiose. Mario abita nelle palazzine sulla strada. Aveva un garage su via Brin, è andato via prima che arrivassero le Eccellenze Campane e lo studentato dell’Orientale. «Oggi avrei fatto i soldi», dice. Le rughe sul volto sono quelle dei caratteristi che nei film interpretano uomini di malavita. Invece è solo stanchezza: «Pure stanotte non ho dormito, suonano il clacson una continuazione». Una cornetteria, spiega, qua farebbe i soldi. Ancora i soldi. Qualcuno li ha fatti veramente.
Ora i soldi nel quartiere girano solo tra mani cinesi. Gli occhi a mandorla hanno preso in affitto centinaia di capannoni dismessi. Ci si ritrova a camminare per duecento metri di merci. Scatoloni che contengono mestoli, portatovaglioli, penne usb, cavi, scope, scialli, scaldamuscoli, bavaglini. Depositi interminabili, ideogrammi e numeri, il colore è indicato in inglese. Cinesi che dispongono, eccoli che arrivano in via Taddeo da Sessa a bordo di un suv, salgono sul marciapiede tra le pedane piene di cartoni. Cingalesi che solerti eseguono, sullo sfondo i napoletani che passeggiano e storcono il naso, infastiditi da quel caos che non sentono proprio. I nomi delle strade: via Calabria, via Irpinia e via Sannio, Via Brecce a Sant’Erasmo. Insegne commerciali: New Fashion, Cinamercato, Tnc Gold, Linxi Import, Mondocarta, Ristorante Ling-Wei detto “La felicità”. Lampadari scintillanti, pavimento di marmo, camerieri sulla soglia che aspettano i clienti dal vicino Oriente.
Il processo che ha portato una enorme comunità mandarina proprio lì, tra i quattro ponti, è stato assimilato. Difficilmente qualche autoctono identificherà il male del quartiere con l’arrivo dei cinesi. «Hanno sfruttato l’opportunità. Hanno aspettato che i prezzi scendevano, e siccome lo fanno loro il mercato, hanno capito quando potevano entrare e l’hanno fatto. Il potere economico è dalla loro parte, e ai proprietari conviene fittare a loro, che pagano puntuali e magari pure due o tre anni in una sola botta». Il vecchio Michele frequenta la salumeria di Ciro, ma nel fine settimana preferisce stare seduto al bar Esposito. Bar, tabacchi, centro scommesse, rosticceria, bancolotto, pasticceria. Il viavai dei giovani, i mezzi salgono sul marciapiede e si allineano. C’è un vigile urbano di fronte, nascosto da un distributore di benzina. Guarda le targhe e segna. Qualcuno se ne accorge, si grida all’infame, tutti i motorini vengono capovolti, la targa scompare alla vista dell’ufficiale. I ragazzi entrano, chiedono le quote ed escono. Su via Gianturco il solito trambusto, l’Europa League in tv. «Io non ho mai lavorato. Stavo negli uffici di Trenitalia, ma non posso dire di aver lavorato. Ho tenuto i panni della fatica intonsi per trent’anni, poi li ho passati a mio figlio e in sei mesi me li ha rovinati. Perché lui lavora veramente».
Delle vecchie concerie nulla è rimasto. Negli anni Ottanta furono costrette a lasciare perché inquinavano, si trasferirono in blocco a Solofra, dove ora l’acqua non è potabile per via del tetra-cloroetilene, prodotto chimico che sgrassa le pelli. Da zona industriale a zona commerciale, commercio monocorde che non prevede forme diverse, un capitalismo alienante che però sembra lungi dall’implodere. Mario ha fittato casa a una coppia di cinesi: «Mi hanno fatto anche smontare la cucina, non cucinano a casa, chiamano i ristoranti e si fanno portare da mangiare». Il bar Milledolcezze è collocato tra due strade importanti. Eppure non c’è nessuno. Di fronte sta nascendo un nuovo maxistore, sventolano le bandiere rosse a cinque stelle. Il gestore del bar è Salvatore, che con i cinesi aveva un bel rapporto, fin quando sono rimasti clienti fedeli. «Sanno pure spendere», dice. «Io per esempio all’inizio gli servivo il cappuccino e calcolavo un sovrapprezzo per conto mio, pensando che non capissero. Loro poi mi hanno detto che potevano anche spendere tre euro, però volevano un cappuccino fatto bene».
Nella salumeria di Ciro spuntano alcune foto. Sono quelle che conserva in un borsello Genny Caccavo. Porta sempre con sé una medaglietta che gli fu regalata da Boniperti in persona, il presidente della Juventus. Gennaro ha giocato nella primavera bianconera per sei mesi. Lo paragonavano a Sivori. Numero dieci, bassino, ora alla soglia dei cinquant’anni, è un signore distinto che cerca di allenare e che – dicono in salumeria – «da fermo ti mette ancora la palla dove vuole». Si ruppe la gamba per un banale incidente di gioco: era a Napoli solo per qualche giorno, doveva prendere i vestiti invernali e poi tornare a Torino. Lo invitarono a giocare e la sua carriera si spezzò insieme alla sua gamba. Il ritorno ai campi di periferia dopo aver sognato la serie A. Caccavo cominciò a giocare a pallone sul campo della manifattura Tabacchi, costruito per il dopo-lavoro dal padre, Raffaele, ex calciatore della Nocerina e custode del deposito di sigarette. Ora il campo è inaccessibile e invisibile, sovrastato dalle sterpaglie. La Fintecna ha sfrattato Caccavo, e nei terreni della manifattura costruirà un nuovo nucleo abitativo.
A Gianturco comincia a fare freddo, senza scarpe di capretto i piedi gelano. Il traffico aumenta, il ritorno dagli uffici, chi si ferma in doppia fila per giocare la bolletta saluta e si lamenta. (davide schiavon)
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