Oggi alle 20:30, nella sala cinema allestita grazie a un progetto di crowdfunding dalla comunità di persone che anima l’Asilo – in vico Maffei 4, una parallela di via Tribunali – comincerà una rassegna sul cinema del regista brasiliano Glauber Rocha. Ogni mercoledì di maggio, un film a settimana del rappresentante più celebre del Cinema Novo. Nell’occasione della prima proiezione sarà ospite Giuseppe Cocco, dell’Università Federale di Rio de Janeiro, studioso dell’opera glauberiana.
Era il 1957-58 quando un manipolo di autori, poco più che ventenni e di diversa provenienza, si riuniva nei bar di Copacabana e del Catete, a Rio de Janeiro, interrogandosi sul ruolo del cinema. Una risposta che forse riassume la postura del movimento si diede a Santa Margherita Ligure, nel 1961, quando nel ritirare il premio per il suo Arraial do Cabo, Gustavo Dahl gridava: «Noi non vogliamo saperne di cinema. Vogliamo sentire la voce dell’uomo». A sua volta, nel 1963, nella sua Revisione Critica del Cinema Brasiliano, Glauber Rocha, scagliandosi contro l’opera di maquillage del cinema commerciale, affermava: «L’autore è il maggior responsabile per la verità: la sua estetica è un’etica, la sua mise en scene è una politica».
Questa presa di coscienza si inseriva in un quadro più ampio in cui le voci di uomini e donne di culture oppresse venivano captate e riverberate in varie forme attraverso l’opera di artisti e intellettuali impegnati nel mettere in discussione la “colonialità” intrinseca alle produzioni artistiche e nell’affermare prospettive culturali decoloniali. Il Cinema Novo entrò in scena in un momento specifico e irripetibile, marcato dall’affermazione del cinema moderno del dopoguerra, con la sua scommessa nella potenza filmica come produzione di un’esperienza rivelatrice. Era il cinema come formazione e scoperta della storia, vissuto da una generazione impaziente che nel dibattito politico non volle separare arte e vita, poesia e intervento. «Una telecamera nella mano e un’idea nella testa», affermava Paulo César Saraceni, altro membro del movimento.
Glauber Rocha – regista, scrittore, teorico e critico cinematografico – fu l’ideologo del Cinema Novo. Limitarsi a produrre una rottura estetica non sarebbe stato sufficiente a distruggere l’ideologia imperialista e il cinema dominante dei grandi studios hollywoodiani, così concepì il cinema come una lotta rivoluzionaria. Fu cineasta “tricontinentale”, “terzomondista”, “guevarista”, sempre impegnato nel mantener vivo il progetto di un cinema d’autore con un’inflessione politica, inserito nelle lotte al neocolonialismo e all’egemonia culturale dei paesi centrali del capitalismo. Il suo tentativo di produrre un cinema militante “totale”, sia dal punto di vista estetico che politico, ebbe grande influenza su un’intera generazione di cineasti: primo fra tutti Fernando Solanas.
In Glauber Rocha la negazione della colonialità avviene attraverso la violenza delle immagini. «Noi, che abbiamo fatto questi film brutti e tristi, questi film gridati, disperati, dove non è sempre stata la ragione ad alzare di più la voce, noi sappiamo che la fame non sarà curata dalle pianificazioni governative e che i rammendi del technicolor non nascondono ma aggravano i suoi tumori», affermerà a Genova nel 1965 nel suo celebre manifesto Estetica della Fame. Ma la fame è un dato espressivo positivo: «Soltanto una cultura della fame, minando le proprie strutture, può superarsi qualitativamente: e la più nobile manifestazione culturale della fame è la violenza». Con l’esplicito eco dei dannati della terra di Frantz Fanon, per Glauber la fame produce debolezza e deliri che solo la violenza può curare nel corpo dei poveri, riunendoli nella lotta. È quanto accade nel film Deus e o Diabo na Terra do Sol con i rivoluzionari primitivi guidati dal cangaçeiro Corisco. E chi non ambisce alla violenza è condannato a oscillare tra la borghesia indolente e il populismo de-soggettivante dei partiti di sinistra, come Paulo Martins in Terra em Transe.
Tuttavia, l’affermazione della violenza non basta all’opera di affrancamento dalla subalternità e dal dominio. Così, nel 1971, due anni dopo il successo a Cannes di Antonio das Mortes, in un continuum di rimandi tra produzione filmica e critica – del resto, come ha osservato José Carlos Avellar, Glauber scriveva come se filmasse e filmava come se scrivesse –, nel manifesto Estetica del Sogno è la stessa ragione occidentale a essere vista come un meccanismo fondamentale di dominazione: «La ragione dominante classifica il misticismo come irrazionalista e lo reprime a colpi di proiettile. Per lei tutto quel che è irrazionale deve essere distrutto, che sia la mistica religiosa o la mistica politica», scrive. La preoccupazione ora è sondare il sottosuolo mitico dell’inconscio sottosviluppato, l’energia sovversiva dell’indigeno e della sua cultura, l’affermazione dell’Altro in relazione alla razionalità moderna. È l’irrazionale che pianifica le rivoluzioni mentre la ragione – anche quando si presenta come presa del potere – è sempre repressiva. È il sogno, la mistica che bisogna attivare: «L’irrazionalismo liberatore è la più forte arma del rivoluzionario», scrive. Si tratta di affermazioni che non possono non richiamare, ancora, Fanon, quando afferma: «La decolonizzazione è un programma di disordine assoluto».
Assumere la dimensione positiva della povertà, del dolore, della fame, della violenza; affermare la mistica religiosa e politica, l’anti-ragione, l’anti-modernità, come fonte di inesauribile desiderio di rivolta, significa coltivare le insufficienze e gli sforzi per farne una forza motrice di ricreazione del sensibile. Ciò conduce oltre lo sviluppo e i suoi modelli, verso una potenza del sottosviluppo produttrice di nuovi valori.
Come ci ricorda Giuseppe Cocco, Glauber Rocha ha promosso insieme a una rivoluzione nello sguardo e nell’estetica politica, un’inversione dei tradizionali approcci alla questione dello sviluppo e della povertà. E in un periodo che vede la nostra città oggetto di una crescente attività cinematografica, ritornare a lui può fornirci indicazioni utili alla critica di certe politiche della rappresentazione spesso in bilico tra “gomorrismo” e autoconsolazione. Racconti ben lontani dal produrre un qualche tipo di mobilitazione soggettiva, racconti spesso inutili o, per stare al linguaggio glauberiano, semplicemente “digestivi”. (giuseppe orlandini)
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